Liberazione anticipata: Revocata se la partecipazione rieducativa è solo una facciata
La liberazione anticipata è uno degli strumenti più importanti nel sistema penitenziario italiano, concepito per incentivare il percorso di rieducazione del condannato. Tuttavia, cosa accade se la partecipazione a tale percorso è solo apparente e nasconde la prosecuzione di attività criminali? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione fa luce su questo punto, confermando che il beneficio può e deve essere revocato quando emerge una condotta incompatibile con un serio recupero sociale, come la persistente appartenenza a un clan mafioso.
I fatti del caso
Il caso esaminato riguarda un individuo al quale era stata concessa la liberazione anticipata per diversi periodi di detenzione. Successivamente, un’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza ha revocato tale beneficio. La motivazione alla base della revoca era grave: era stato accertato che il soggetto, per un lungo arco temporale che copriva anche il periodo di fruizione del beneficio, aveva continuato a essere un membro attivo di una nota associazione mafiosa del nord barese.
Le prove a sostegno di tale accusa erano schiaccianti e comprendevano dichiarazioni di collaboratori di giustizia, lettere sequestrate, attività di intercettazione e le stesse confessioni dell’interessato. Secondo il Tribunale, il comportamento del condannato dimostrava che la sua partecipazione all’opera rieducativa era stata puramente fittizia e strumentale, finalizzata unicamente a ottenere una riduzione della pena per tornare più rapidamente in libertà e proseguire le attività illecite con il proprio sodalizio criminale.
L’interessato ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che la sua successiva scelta di collaborare con la giustizia non era stata adeguatamente valutata.
La decisione della Corte sulla revoca della liberazione anticipata
La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando in toto la decisione del Tribunale di Sorveglianza. I giudici supremi hanno sottolineato che le censure mosse dal ricorrente erano generiche, ripetitive e basate su una rivalutazione dei fatti, un’attività preclusa in sede di legittimità.
La Corte ha ritenuto che l’accertamento della continua e attiva partecipazione a un’associazione mafiosa, protrattasi anche dopo la concessione della liberazione anticipata, costituisce il fondamento solido e inconfutabile per la revoca del beneficio. La condotta del soggetto ha palesato l’assenza di un percorso di recupero sociale consapevole e serio, elemento imprescindibile per il mantenimento del beneficio stesso.
Le motivazioni
La motivazione della Suprema Corte è chiara e rigorosa. Il principio fondamentale della liberazione anticipata risiede nella prova di una partecipazione effettiva e sincera al programma di trattamento rieducativo. Quando si scopre che tale partecipazione è stata solo una messa in scena per accelerare il ritorno alla vita criminale, il presupposto stesso del beneficio viene meno.
I giudici hanno specificato che è proprio l’accertamento di un reato grave e permanente, come l’associazione mafiosa, consumato in un’epoca successiva alla concessione del beneficio, a giustificare la revoca. La perseveranza nell’aderire attivamente a un clan mafioso è la prova inequivocabile che il percorso di recupero non è mai realmente iniziato. Di conseguenza, la successiva decisione di collaborare, pur rilevante sotto altri profili, non può cancellare la precedente condotta, che ha già dimostrato l’incompatibilità del soggetto con il beneficio ricevuto.
Le conclusioni
Questa ordinanza ribadisce un principio cruciale: i benefici penitenziari non sono automatismi, ma sono strettamente legati a una verifica sostanziale del percorso rieducativo del condannato. La liberazione anticipata richiede una rottura netta e genuina con il passato criminale. La persistente affiliazione a organizzazioni criminali, specialmente di stampo mafioso, è la negazione stessa di questo percorso e, pertanto, non solo impedisce la concessione del beneficio, ma ne impone la revoca qualora già concesso. La decisione della Corte rafforza l’idea che la valutazione del giudice di sorveglianza debba andare oltre le apparenze formali, per accertare la reale volontà del detenuto di intraprendere un cammino di reinserimento sociale.
La partecipazione a un’associazione mafiosa è compatibile con il beneficio della liberazione anticipata?
No, secondo la Corte la perseveranza nell’aderire attivamente a un clan mafioso è incompatibile con il riconoscimento del beneficio, poiché esclude un consapevole e serio percorso di recupero sociale.
La successiva scelta di collaborare con la giustizia può impedire la revoca della liberazione anticipata?
No, la decisione di collaborare avvenuta in un momento successivo non è stata ritenuta sufficiente a impedire la revoca, in quanto non sana la condotta precedente che ha dimostrato la natura fittizia e strumentale della partecipazione al programma rieducativo.
Perché il ricorso è stato dichiarato inammissibile dalla Corte di Cassazione?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché le censure sollevate erano state giudicate generiche, ripetitive e miravano a una nuova valutazione dei fatti, attività che non è consentita in sede di legittimità, dove la Corte si limita a verificare la corretta applicazione della legge.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 2566 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 2566 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 05/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato a BITONTO il 25/10/1985
avverso l’ordinanza del 20/06/2024 del TRIB. SORVEGLIANZA di BARI
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
Rilevato in fatto e considerato in diritto
Ritenuto che le censure dedotte nel ricorso di NOME COGNOME, relative alla violazione di legge e al vizio di motivazione del provvedimento di revoca della liberazione anticipata concessa dal Magistrato di Sorveglianza di Bari per il periodo 15.4.2010-15.4.2011; 16.4.2011-15.10.2011; 16.10.2011-15.4.2012; 12.9.201611.9.2017, per complessivi giorni 270, oltre a non essere consentite in sede di legittimità, perché in fatto, generiche e reiterative, siano manifestamente infondate.
Nell’ordinanza impugnata, invero, si evidenzia che Bartolomeo è stato, tra il 2011 e il 23.9.2019, partecipe dell’articolazione nord-barese dell’associazione mafiosa pugliese denominata “clan Capriati” e che tale accertamento è stato condotto sulla base di propalazioni di collaboratori, missive sequestrate, attività captative compiute presso la Casa Circondariale di Taranto e dichiarazioni confessorie dello stesso interessato. Il Tribunale di sorveglianza, di conseguenza, ha ritenuto il comportamento del condannato, sia con riferimento ai semestri per cui era stata ritenuta accertata la partecipazione all’opera rieducativa, sia successivamente al riconoscimento della liberazione, incompatibile con il riconoscimento del beneficio, ritenendo la partecipazione al trattamento meramente apparente e strumentale ad ottenere un rapido rientro in libertà, con il fine di proseguire la partecipazione sodalizio. E ha, inoltre, rilevato quanto alle censure difensive relative a frazionamento dei semestri, che è proprio l’accertamento di un reato, consumato in permanenza fino ad epoca successiva alla concessione del beneficio, a fondare la revoca di quest’ultimo. Sottolineando che è stato accertato che NOME, anche dopo aver ottenuto il beneficio, ha perseverato nell’aderire attivamente al clan mafioso, con conseguente esclusione di un suo consapevole e serio percorso di recupero sociale. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Rilevato, pertanto, che il ricorso – nel quale si contestano tali argomentazioni, insistendo sulla mancata valutazione della scelta collaborativa avvenuta nel 2019 deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, non ricorrendo ipotesi di esonero, al versamento di una somma alla Cassa delle ammende, determinabile in tremila euro, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2024.