Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 4299 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1   Num. 4299  Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 15/12/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a TROPEA il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 24/01/2023 del TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA di REGGIO CALABRIA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del AVV_NOTAIO NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità; dato avviso al difensore;
RITENUTO IN FATTO
Con il provvedimento impugnato, il Tribunale di sorveglianza di Reggio Calabria ha rigettato il reclamo avverso il provvedimento del Magistrato di sorveglianza di Reggio Calabria in data 6 settembre 2022 con il quale era stata respinta l’istanza di NOME COGNOME volta al riconoscimento di un semestre di liberazione anticipata (dal 11 gennaio 2017 al 17 febbraio 2017; dal 29 giugno 2021 al 10 novembre 2021), per avere tenuto una condotta penalmente rilevante e comunque indicativa di mancata adesione al trattamento.
In particolare, COGNOME avrebbe continuato a delinquere come risulterebbe dal carico pendente per art. 640-bis cod. pen. derivante dalla domanda del sostegno previsto dal decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito con modificazioni dalla L. 28 marzo 2019, n. 26 n. 4 del 2019 (cd. reddito di cittadinanza), formulata nonostante un precedente penale ostativo (sentenza della Corte d’appello di Catanzaro in data 26 marzo 2009, irrevocabile il 20 gennaio 2010, per artt. 110 cod. pen., 73 TU Stup.).
Ricorre NOME COGNOME, a mezzo del difensore AVV_NOTAIO, che chiede l’annullamento del provvedimento impugnato perché il carico pendente è stato valutato acriticamente senza neppure considerare che, secondo la giurisprudenza di legittimità (Sez. 2, n. 38383 del 05/07/2022, COGNOME, Rv. 283949), l’interdizione perpetua dai pubblici uffici derivante dalla condanna irrevocabile non comporta la decadenza del beneficio di sostegno al reddito richiesto, sicché la condotta per la quale vi è stato il rinvio a giudizio non sussiste, come peraltro affermato dalla Corte di cassazione nel procedimento cautelare reale a carico di un coimputato.
2.1. Il difensore ha depositato motivi nuovi con i quali, nell’insistere nel ricorso, rappresenta che COGNOME è stato prosciolto dall’accusa ex art. 640-bis cod. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO
 Il ricorso, come sottolinea il Procuratore generale, non è fondato.
Anzitutto il Tribunale ha sottolineato che il principio di diritto richiamato dalla difesa (Sez. 2, De COGNOME, cit.) non è specificamente riferibile al caso in esame.
In effetti, Sez. 2, De COGNOME, cit., ha affermato che «la condanna definitiva alla pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici non
priva il condannato del diritto alla percezione del reddito di cittadinanza, che esso non è ricompreso nella nozione di “assegni… a carico dello Stato”, d quest’ultimo è privato ex art. 28, comma secondo, n. 5 cod. pen. e ch preclusione alla sua percezione è espressamente prevista dall’art. 2, comma lett. c-bis), di. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dall 28 marzo 2019, n. 26, in casi specifici, legati alla precedente condanna per ostativi, divenuta definitiva nei dieci anni precedenti la richiesta».
2.1. A fronte di tale condiviso principio, il Tribunale ha, però sottolinea la condotta tenuta dal condannato nel periodo di interesse, qualificat pubblico ministero procedente ex art. 640-bis cod. pen., in riferimento al 28, secondo comma, n. 2, cod. pen., poteva essere valutata ai fini d liberazione anticipata poiché, comunque, vietata dalla legge e rappresenta della mancata adesione al trattamento.
Nel caso in esame il Tribunale ha evidenziato che la richiesta del sussidio stata avanzata in presenza di una condizione ostativa (sentenza della Co d’appello di Catanzaro in data 26 marzo 2009, irrevocabile il 20 gennaio 201 per artt. 110 cod. pen., 73 TU Stup.), ben nota al condannato che aveva omes di dichiararla, come invece era tenuto a fare in forza della normativa di se (art. 7, comma 3, di. n. 4 del 2019).
Nel fornire l’indicata risposta alle censure difensive, il Tribunale ha evidenziato che, contrariamente a quanto affermato dal condannato, la condanna ostativa era divenuta irrevocabile nel decennio precedente alla presentazi dell’istanza, sicché era priva di rilievo la diversa questione della interdiz pubblici uffici.
Non vi è dubbio che la condotta specificamente valutata dal Tribuna poteva essere considerata quale comportamento indicativo della mancata adesione al trattamento.
3.1 L’ordinanza impugnata richiama il principio, assolutamente condivisibil secondo il quale «nel procedimento di sorveglianza possono essere valuta anche fatti costituenti ipotesi di reato, senza la necessità di atte definizione del relativo procedimento penale, a condizione che il giudice ne va la pertinenza rispetto al trattamento rieducativo, in quanto espressione
atteggiamento incompatibile con l’adesione allo stesso da parte del detenuto» (Sez. 1, n. 33848 del 30/04/2019, De COGNOME, Rv. 276498).
3.2. Ebbene, non vi è dubbio che la presentazione dell’istanza di sussidio, effettuata dal condannato tacendo della condizione ostativa, rappresenta un comportamento che, in quanto posto in violazione dei doveri di correttezza e solidarietà sociale, costituisce un indice della mancata adesione al trattamento.
Il ricorso non sviluppa alcuna consistente critica a tale logica affermazione, ma si limita a denunciare che l’interdizione perpetua dai pubblici uffici non determina la decadenza dal sussidio richiesto, sicché non è punita alla stregua dell’art. 640-bis cod. pen., come pure risulta dalla sentenza di proscioglimento e dalla citata Sez. 2, De COGNOME, mentre la ratio decidendi fa leva sulla valorizzazione della condotta che trova solido sostegno normativo nella previsione della revoca del sussidio in presenza di una condanna, nel decennio, per uno dei reati previsti dall’art. 7, comma 3, d.l. n. 4 del 2019, come, appunto, verificatosi per il condannato.
3.3. Dunque, indipendentemente dalla penale rilevanza della condotta, il Tribunale ha specificamente considerato, in ossequio alla giurisprudenza di legittimità, il non contestato comportamento del condannato che, durante il periodo per il quale ha formulato l’istanza di liberazione anticipata, ha presentato una infedele dichiarazione per ottenere un sussidio economico del quale non aveva diritto, così palesando di non avere prestato intima adesione al trattamento.
Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 15 dicembre 2023.