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Liberazione anticipata negata per condotta scorretta

La Corte di Cassazione ha confermato il diniego della liberazione anticipata a un detenuto che aveva richiesto il reddito di cittadinanza omettendo di dichiarare una condanna ostativa. Secondo la Corte, tale comportamento, anche se non sfociato in una condanna penale per truffa, dimostra una mancata adesione al percorso rieducativo e viola i doveri di correttezza, giustificando il rigetto del beneficio penitenziario.

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Pubblicato il 28 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Liberazione Anticipata: No al Beneficio se la Condotta è Sleale

La liberazione anticipata rappresenta un istituto fondamentale nel sistema penitenziario italiano, concepito per premiare il percorso rieducativo del detenuto. Tuttavia, la sua concessione non è automatica, ma subordinata a una valutazione complessiva della condotta del condannato. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito questo principio, negando il beneficio a un detenuto la cui condotta, sebbene non sfociata in una nuova condanna, è stata ritenuta indicativa di una mancata adesione ai valori di legalità e correttezza.

I Fatti del Caso: La Richiesta del Sussidio e il Diniego del Beneficio

Il caso esaminato riguarda un detenuto che si è visto respingere l’istanza di liberazione anticipata dal Tribunale di Sorveglianza. La ragione del diniego risiedeva in un comportamento specifico tenuto durante il periodo di osservazione: il soggetto aveva presentato domanda per ottenere il reddito di cittadinanza, omettendo però di dichiarare l’esistenza di una precedente condanna penale divenuta irrevocabile meno di dieci anni prima. Tale condanna, per reati legati agli stupefacenti, costituiva una causa ostativa esplicita per l’accesso al sussidio, secondo la normativa vigente.

Il Tribunale di Sorveglianza ha interpretato questa azione come un comportamento penalmente rilevante e, più in generale, come un chiaro segnale di mancata adesione al trattamento rieducativo.

Le Argomentazioni della Difesa

Il ricorrente, attraverso il suo legale, ha contestato la decisione, sostenendo che la valutazione del Tribunale fosse stata acritica. In particolare, ha evidenziato di essere stato successivamente prosciolto dall’accusa di truffa aggravata (art. 640-bis c.p.) per quella stessa vicenda. La difesa ha inoltre richiamato una precedente giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’interdizione perpetua dai pubblici uffici non comporta automaticamente la decadenza dal beneficio del reddito di cittadinanza. L’obiettivo era dimostrare che la condotta non era punibile e, di conseguenza, non poteva giustificare il diniego della liberazione anticipata.

La Valutazione della Condotta ai Fini della Liberazione Anticipata

Il cuore della questione non risiede nella rilevanza penale del gesto, ma nella sua valutazione come indice del percorso del condannato. La Corte di Cassazione ha chiarito un principio fondamentale del diritto di sorveglianza: il giudice può e deve valutare qualsiasi comportamento del detenuto per saggiare la sua adesione al trattamento, senza dover attendere l’esito di un procedimento penale. L’elemento cruciale è la pertinenza di tale comportamento rispetto al percorso rieducativo.

In questo caso, l’atto di presentare una dichiarazione infedele per ottenere un sussidio economico al quale non si aveva diritto è stato considerato un comportamento palesemente contrario ai doveri di correttezza e solidarietà sociale. Questo gesto, indipendentemente dalla sua qualificazione come reato, palesa una persistente inclinazione a eludere le regole della convivenza civile.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, confermando la decisione del Tribunale di Sorveglianza. I giudici hanno specificato che la ratio decidendi della pronuncia impugnata non era la presunta commissione del reato di cui all’art. 640-bis c.p., ma la valutazione complessiva della condotta. Il detenuto, pur essendo a conoscenza della sua condizione ostativa, ha deliberatamente omesso un’informazione dovuta per legge al fine di ottenere un vantaggio economico indebito. Questo comportamento, secondo la Corte, è un sintomo inequivocabile di una mancata “intima adesione al trattamento”.

La Corte ha sottolineato che il richiamo della difesa ad altre sentenze era inconferente, poiché il nucleo della decisione non era la compatibilità tra interdizione dai pubblici uffici e percezione del sussidio, bensì l’obbligo di dichiarare una condanna ostativa previsto dalla normativa specifica sul reddito di cittadinanza.

Le Conclusioni

La sentenza ribadisce con forza che, ai fini della concessione della liberazione anticipata, la valutazione non si limita alla disciplina interna al carcere, ma si estende a ogni comportamento che possa rivelare l’effettiva risocializzazione del condannato. Un’azione che dimostra disprezzo per le regole e slealtà verso la collettività, come tentare di ottenere un sussidio non spettante tramite una dichiarazione falsa, è sufficiente a ritenere che il percorso rieducativo non abbia ancora dato i suoi frutti. La decisione finale, dunque, non si fonda sulla punibilità del gesto, ma sul suo significato intrinseco come spia di un’attitudine incompatibile con i principi di legalità.

Una condotta non penalmente rilevante può impedire la concessione della liberazione anticipata?
Sì. Secondo la Corte, il giudice di sorveglianza può valutare qualsiasi comportamento del detenuto, anche se non costituisce reato o non si è concluso con una condanna, per accertare la sua effettiva adesione al percorso rieducativo.

Perché la richiesta del reddito di cittadinanza ha causato il diniego della liberazione anticipata in questo caso?
Perché il detenuto ha presentato una dichiarazione infedele, omettendo di comunicare una precedente condanna che gli impediva per legge di accedere al sussidio. Questo comportamento è stato interpretato come una violazione dei doveri di correttezza e un indice di mancata adesione al trattamento.

L’assoluzione dall’accusa di truffa ha avuto un impatto sulla decisione finale?
No. La Corte ha chiarito che la decisione non si basava sulla rilevanza penale della condotta, ma sul suo significato come comportamento indicativo della personalità del condannato. L’atto di presentare una dichiarazione falsa per ottenere un beneficio indebito è stato ritenuto di per sé sufficiente a dimostrare la mancanza di adesione al percorso rieducativo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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