Lavoro Irregolare: La Prova della Colpa nell’Amicizia tra Datore e Dipendente
L’assunzione di lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno costituisce un reato grave. Ma come si dimostra che il datore di lavoro era consapevole di questa irregolarità? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce come anche un forte legame di amicizia possa diventare un elemento di prova decisivo contro l’imprenditore. Analizziamo questo caso emblematico di lavoro irregolare e le sue implicazioni.
I Fatti del Caso
Un imprenditore è stato condannato in primo grado e in appello per aver impiegato un lavoratore straniero sprovvisto del necessario permesso di soggiorno, un reato previsto dal Testo Unico sull’Immigrazione. L’imputato ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo un unico motivo: l’assenza di prova della sua volontà di commettere il reato. In altre parole, affermava di non essere a conoscenza della condizione di irregolarità del suo dipendente.
La difesa si è concentrata sull’elemento psicologico del reato, il cosiddetto “dolo”, che richiede la piena coscienza e volontà di assumere una persona sapendola non in regola con le norme sul soggiorno.
Consapevolezza e lavoro irregolare: l’analisi della Corte
La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendolo infondato. I giudici hanno sottolineato come il ricorso non affrontasse adeguatamente le motivazioni esposte dalla Corte d’Appello di Brescia. Quest’ultima aveva basato la sua decisione su un fatto cruciale: la stretta amicizia che legava il datore di lavoro e il lavoratore.
Secondo la Corte territoriale, questo legame, nato durante un periodo di comune detenzione, rendeva del tutto inverosimile che il lavoratore avesse nascosto al suo amico e datore di lavoro la propria condizione di irregolarità. Tacere una circostanza così importante avrebbe significato esporre l’amico a seri rischi giudiziari, un’eventualità ritenuta incompatibile con un rapporto di tale natura.
Il Valore Probatorio degli Indizi
La Suprema Corte ha avallato questo ragionamento, definendolo “non manifestamente illogico”. La decisione evidenzia un principio fondamentale: nel processo penale, la prova del dolo può essere desunta anche da elementi indiretti e logici (indizi). Non è sempre necessaria una confessione o una prova diretta (come un documento scritto). La logica e la massima di esperienza – secondo cui un amico non metterebbe scientemente nei guai un altro amico – sono state sufficienti a fondare il giudizio di colpevolezza.
Le Motivazioni della Decisione
La motivazione della Cassazione si fonda su due pilastri principali. In primo luogo, il ricorso è stato giudicato generico e “pedissequo”, in quanto si limitava a lamentare una presunta assenza di motivazione sull’elemento psicologico, senza però confrontarsi con l’argomentazione specifica e puntuale fornita dalla Corte d’Appello (la stretta amicizia). Un ricorso per essere ammissibile deve contestare specificamente le ragioni della sentenza impugnata, non può limitarsi a riproporre le stesse doglianze.
In secondo luogo, la Corte ha ribadito che la valutazione degli elementi di fatto e la loro interpretazione logica sono di competenza dei giudici di merito (primo grado e appello). La Cassazione può intervenire solo se il ragionamento seguito è palesemente illogico o contraddittorio, cosa che in questo caso non è stata ravvisata. La motivazione basata sull’amicizia è stata considerata plausibile e sufficiente a dimostrare la consapevolezza richiesta per il reato di lavoro irregolare.
Conclusioni
L’ordinanza in esame offre un importante insegnamento: la responsabilità penale del datore di lavoro per l’impiego di stranieri irregolari può essere affermata anche sulla base di prove indiziarie, come la natura dei rapporti personali con il dipendente. Un legame di amicizia, anziché essere una scusante, può trasformarsi in un elemento a carico, poiché rende altamente probabile la conoscenza della situazione del lavoratore. Questa decisione rafforza il principio secondo cui chi assume è tenuto a un dovere di diligenza e verifica, e non può nascondersi dietro una presunta ignoranza, specialmente quando le circostanze concrete suggeriscono il contrario.
 
È sempre reato assumere un lavoratore senza permesso di soggiorno?
Sì, l’art. 22, comma 12, del D.Lgs. 286/1998 configura questa condotta come un delitto, che richiede il dolo, ossia la coscienza e la volontà da parte del datore di lavoro di impiegare una persona pur sapendo che è priva del permesso di soggiorno.
Come può essere provata la consapevolezza del datore di lavoro?
La consapevolezza (dolo) può essere dimostrata non solo con prove dirette, ma anche attraverso elementi indiziari. In questo caso specifico, la Corte ha ritenuto che la stretta amicizia tra il datore di lavoro e il lavoratore fosse un indizio sufficiente a ritenere inverosimile che il primo non fosse a conoscenza della condizione di irregolarità del secondo.
Cosa comporta la dichiarazione di inammissibilità di un ricorso in Cassazione?
Quando un ricorso è dichiarato inammissibile, la Corte di Cassazione non entra nel merito della questione. La condanna precedente diventa definitiva e il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle ammende, come avvenuto nel caso di specie.
 
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 5245 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7   Num. 5245  Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 19/12/2023
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME a DELIA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 22/05/2023 della CORTE APPELLO di BRESCIA
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
Considerato che NOME COGNOME ricorre avverso la sentenza in preambolo con la quale la Corte di appello di Brescia ha confermato la sua condanna per il reato di cui all’art. 22, comma 12, d. Igs. 286 del 1998 e, con un unico motivo di ricorso, deduce l’assenza di prova della volontarietà della condotta;
ricordato che la disposizione richiamata contempla un delitto e richiede il dolo (come è noto, fino al 2008 il reato aveva, invece, la natura di contravvenzione) e che richiede, quindi, la coscienza e volontà di instaurare un rapporto di lavoro subordiNOME con un soggetto che si conosce essere privo del permesso di soggiorno;
ritenuto che il ricorso non si confronta con la motivazione (p. 3) della Corte territoriale che – a fronte del pedissequo motivo di appello – ha rilevato come fosse indicativa di tale consapevolezza nel datore di lavoro la circostanza della stretta amicizia che legava il ricorrente al lavoratore, sin dall’epoca della comune detenzione presso lo stesso istituto di pena e che è, pertanto, inverosimile quest’ultimo avesse taciuto all’amico la propria condizione di irregolarità, così ponendolo a rischio di problemi giudiziari;
considerato che tale motivazione, non manifestamente illogica, non è in alcun modo avversata dal ricorrente che si limita a dolersi dell’assenza di una motivazione sull’elemento psicologico del reato:
Ritenuto che, pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e per i profili di colpa connessi all’irritualità dell’impugnazione (Corte cost. n. 186 del 2000) – di una somma in favore della Cassa delle ammende che si stima equo determinare, in rapporto alle questioni dedotte, in euro tremila.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 19 dicembre 2023