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Lavoro in nero e affidamento in prova: la Cassazione

La Corte di Cassazione ha confermato la decisione del Tribunale di Sorveglianza che negava l’affidamento in prova a un condannato privo di un lavoro regolare. L’interessato sosteneva di lavorare ‘in nero’ presso l’attività del figlio, ma la Corte ha stabilito che tale circostanza non solo è inammissibile ma controproducente. Il lavoro in nero, essendo un’attività illecita che comporta evasione fiscale e contributiva, non può costituire un presupposto per una prognosi favorevole di reinserimento sociale, rafforzando anzi il pericolo di commissione di altri reati.

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Pubblicato il 25 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Lavoro in Nero e Affidamento in Prova: Quando l’Attività Illecita Preclude la Misura Alternativa

Una recente sentenza della Corte di Cassazione affronta un tema cruciale nell’ambito dell’esecuzione penale: il rapporto tra lavoro in nero e affidamento in prova. La decisione chiarisce se un’attività lavorativa non regolarizzata possa essere considerata un elemento valido per ottenere una misura alternativa alla detenzione. La Corte ha stabilito un principio netto: un’attività illecita non solo non aiuta, ma può addirittura confermare la pericolosità sociale del condannato, precludendo l’accesso ai benefici.

I Fatti di Causa

Il caso nasce dal ricorso di un uomo condannato, la cui istanza di affidamento in prova al servizio sociale era stata respinta dal Tribunale di Sorveglianza di Roma. La motivazione del diniego risiedeva nell’assenza di un’attività lavorativa o risocializzante che potesse garantire al soggetto leciti mezzi di sostentamento. Secondo il Tribunale, questa mancanza impediva di formulare una prognosi favorevole circa un suo positivo reinserimento nella società.

L’uomo, tramite il suo difensore, ha impugnato l’ordinanza, sostenendo che la decisione si basasse unicamente sulla mancanza di un lavoro regolare. A sua difesa, ha evidenziato che il reato per cui era stato condannato risaliva a molti anni prima (2009), che da allora non aveva commesso altri illeciti, che era socialmente integrato e viveva con la famiglia, e che, di fatto, lavorava, sebbene ‘in nero’, nell’esercizio commerciale gestito dal figlio.

La Questione Giuridica sul Lavoro in Nero e Affidamento in Prova

Il nucleo della controversia ruota attorno alla seguente domanda: la disponibilità di un’entrata economica derivante da lavoro non dichiarato può essere considerata sufficiente a dimostrare che il condannato ha mezzi di sostentamento e non è a rischio di commettere nuovi reati? In altre parole, il lavoro in nero e affidamento in prova sono compatibili?

Il ricorrente invocava una giurisprudenza secondo cui l’assenza di un lavoro formale non è, di per sé, un ostacolo insormontabile alla concessione di una misura alternativa. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha dovuto valutare se questa affermazione potesse estendersi fino a includere un’attività lavorativa intrinsecamente illegale.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso infondato, confermando la decisione del Tribunale di Sorveglianza. La motivazione della Cassazione è logica e lineare. Sebbene sia vero che la mancanza di un lavoro documentato non sia un motivo automatico di esclusione dalle misure alternative, il giudice deve comunque valutare la disponibilità di mezzi leciti di sostentamento.

La ragione è semplice: l’articolo 47 dell’ordinamento penitenziario mira a prevenire ‘il pericolo che egli commetta altri reati’. Un individuo privo di fonti di reddito legali, se non mantenuto da altri, ha un forte incentivo a procurarsi il necessario per vivere in modo illecito. Di conseguenza, la mancanza di mezzi leciti rende la prognosi di reinserimento sfavorevole.

L’argomento del ricorrente, che sosteneva di lavorare ‘in nero’, viene definito dalla Corte come una ‘conferma, e non una smentita’ della correttezza della decisione impugnata. Lavorare ‘in nero’ significa procurarsi mezzi di sussistenza in un modo che è comunque illecito, poiché comporta l’evasione fiscale e contributiva. Tale condotta, anziché dimostrare un percorso di reinserimento, attesta la persistenza in una logica di illegalità. Pertanto, questa ‘attività’ non può essere valutata positivamente ai fini della concessione del beneficio richiesto.

Le Conclusioni

La sentenza stabilisce un principio fondamentale: per ottenere l’affidamento in prova, non è sufficiente dimostrare di avere una qualsiasi fonte di reddito, ma è necessario che questa sia lecita. Il lavoro in nero e affidamento in prova sono, quindi, inconciliabili. L’attività lavorativa non regolarizzata, essendo essa stessa una violazione di norme imperative (fiscali e previdenziali), non può contribuire a formulare quella prognosi favorevole di reinserimento sociale che è il presupposto indispensabile per la concessione delle misure alternative alla detenzione. Anzi, essa rafforza il giudizio negativo sulla capacità del condannato di rispettare le regole della convivenza civile.

È possibile ottenere l’affidamento in prova al servizio sociale senza avere un lavoro formalizzato?
Sì, in teoria è possibile. La sentenza chiarisce che un contratto di lavoro non è un requisito essenziale in sé. Tuttavia, il giudice deve accertare che il condannato disponga di mezzi leciti di sostentamento, poiché la loro assenza aumenta il rischio che commetta altri reati per mantenersi, rendendo la prognosi di reinserimento sfavorevole.

Il lavoro ‘in nero’ viene considerato una valida fonte di sostentamento ai fini della concessione dell’affidamento in prova?
No, assolutamente. La Corte di Cassazione afferma che il lavoro in nero è un modo illecito di procurarsi mezzi di sussistenza, in quanto implica evasione fiscale e contributiva. Pertanto, non solo non aiuta a ottenere la misura, ma conferma la valutazione negativa del giudice, dimostrando che il soggetto persiste in una condotta illegale.

Qual è il criterio fondamentale che il giudice deve seguire nel decidere sulla concessione dell’affidamento in prova?
Il criterio fondamentale è la formulazione di una ‘prognosi favorevole’ sul reinserimento sociale del condannato. Questa prognosi si basa sulla valutazione del pericolo che la persona commetta altri reati. La disponibilità di mezzi leciti di sostentamento è un elemento cruciale in questa valutazione, poiché la sua assenza è considerata un forte indicatore di rischio.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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