Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 15958 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 15958 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 08/04/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
NOMECOGNOME nato a Crotone il 23/06/1968 COGNOME NOMECOGNOME nato a Crotone il 19/08/1983 COGNOME NOME COGNOME nata a Cirò Marina il 16/01/1962
avverso la sentenza del 09/05/2024 della Corte d’appello di Catanzaro visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME il quale ha concluso chiedendo i ricorsi siano dichiarati inammissibili;
letta la memoria dell’Avv. COGNOME difensore di COGNOME NOMECOGNOME il quale, nel replicare alle conclusioni del Pubblico Ministero, ha insistito per l’accoglimento del ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 09/05/2024, la Corte d’appello di Catanzaro, per quanto qui interessa, confermava la sentenza del 29/11/2021 del Tribunale di Crotone, emessa in esito a giudizio ordinario, con la quale:
NOME COGNOME era stato condannato alla pena di un anno e sei mesi di reclusione per il reato di invasione di una porzione di terreno di circa mq. 90 di proprietà del Comune di Crotone;
NOME COGNOME era stato condannato, previa applicazione della recidiva infraquinquennale, alla pena di due anni di reclusione per il reato di invasione di una porzione di terreno di circa mq. 120 di proprietà del Comune di Crotone;
NOME COGNOME era stata condannata alla pena di un anno e sei mesi di reclusione per il reato di invasione di una porzione di terreno di circa mq. 130 di proprietà del Comune di Crotone.
Avverso tale sentenza del 09/05/2024 della Corte d’appello di Catanzaro, hanno proposto ricorsi per cassazione, per il tramite dei loro rispettivi difensori, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME (questi ultimi due imputati con un unico atto).
Il ricorso di NOME COGNOME a firma dell’avv. NOME COGNOME è affidato a quattro motivi.
3.1. Il primo motivo è proposto in relazione all’art. 606, comma 1, lett. c) ed e), cod. proc. pen., e con riferimento agli artt. 125, comma 3, e 546, comma 1, lett. e), dello stesso codice, nonché all’art. 633 cod. pen., e attiene all’affermazione di responsabilità.
Il COGNOME contesta l’asserzione della Corte d’appello di Catanzaro secondo cui «MI reato di invasione deve, dunque, ritenersi, configurabile ogniqualvolta si occupa un immobile sine titulo e come occupazione di un immobile sine titulo devono considerarsi le condotte di chi subentra consapevolmente nell’illegittima detenzione altrui» (pag. 6 della sentenza impugnata).
Secondo il ricorrente, nel reato di cui all’art. 633 cod. pen., l’invasione non è assimilabile alla successiva occupazione, atteso che «l’equiparazione dell’ingresso arbitrario” con quello di “permanenza non consentita” sarebbe in contrasto anche con la voluntas legis», giacché «il Legislatore ha inteso tenere distinte le due condotte».
Ne discenderebbe che i giudici del merito «avrebbero dovuto verificare l’effettiva partecipazione del COGNOME NOME alla prima fase della condotta, consistita nell’invasione arbitraria di una porzione di terreno L.] di propriet dell’ente comunale», atteso che «Ma fase successiva dell’occupazione, L.] integrante l’elemento soggettivo del reato ed in particolare del dolo specifico che lo caratterizza, non rileva ai fini dell’integrazione dell’elemento oggettivo d medesimo reato ex art. 633 c.p., che va riferita al momento dell’arbitraria invasione finalizzata all’occupazione/al profitto».
Dopo avere trascritto la massima di Sez. 2, n. 2592 del 17/11/2005, dep. 2006, COGNOME, Rv. 232856-01, e parte della massima di Sez. 2, n. 6949 del 17/05/1988, dep. 1989, COGNOME, Rv. 181298-01 – entrambe in tema di elemento soggettivo del reato di cui all’art. 633 cod. pen. – e avere ribadito che tal elemento richiede il dolo specifico del fine di occupare l’immobile o di trarne altrimenti profitto, il Manetta ribadisce che il suddetto reato «non ricorre laddove si sia in presenza di una mera occupazione da parte di chi sia acceduto allo stabile senza porre in essere né dare alcun apporto concausale alla propedeutica azione invasiva: con la conseguenza che nessuna rilevanza penale ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art 633 c.p. può rivestire la condotta di coloro che sol successivamente siano stati sorpresi ad occupare/utilizzare l’edificio edificato in assenza dei requisiti legittimanti».
Tanto argomentato in diritto, il ricorrente rappresenta che la propria condotta «non può rientrare nel novero del reato di invasione di terreni o edifici», atteso che «è la stessa Corte a ribadire che l’invasione del terreno è stata posta in essere dai genitori del NOME NOME, nell’atto edificatorio del manufatto (cfr. pag. sentenza di appello) e, pertanto, solo quella condotta è suscettibile di integrare il reato de quo e non già la successiva occupazione del figlio, salvo che la Pubblica Accusa non avesse dimostrato il contrario. Trattasi di immobili risalenti agli anni 60 costruiti in quello che è il campo rom della città di Crotone (e ciò risulta per tabulas), allorquando l’odierno ricorrente era poco più che un bimbo».
3.2. Il secondo motivo è proposto in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., e con riferimento agli artt. 125, comma 3, e 546, comma 1, lett. e), dello stesso codice, nonché agli artt. 132 e 133 cod. pen., e attiene alla determinazione della misura della pena.
Il COGNOME lamenta l’errore nel quale sarebbe incorsa la Corte d’appello di Catanzaro col fare riferimento, quale pena edittale applicabile, alla reclusione da uno a tre anni e alla multa da C 103,00 a C 1.032,00, e con l’affermare, di conseguenza, che la pena detentiva irrogata di un anno e sei mesi di reclusione era «di poco superiore al minimo edittale» (pag. 8 della sentenza impugnata).
Nel rammentare che l’art. 633 cod. pen. è stato sostituito dall’art. 30 del d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, conv. con modif. dalla legge 10 dicembre 2018, n. 132, il quale ha inasprito la pena detentiva precedentemente prevista aumentandola dalla «reclusione fino a due anni» alla «reclusione da uno a tre anni», il ricorrente deduce che la Corte d’appello di Catanzaro, in virtù del principio del favor rei, avrebbe dovuto «applicare la pena secondo la formulazione pre-riforma in vigore al momento della commissione del reato (2014) e non secondo l’attuale formulazione dell’art. 633 c.p.».
Di conseguenza, la pena irrogata dalla Corte d’appello di Catanzaro non sarebbe, come da essa affermato, «di poco superiore al minimo edittale», «bensì vicina al massimo».
Il COGNOME lamenta altresì che, posto che il suo unico precedente penale è relativo a una sentenza divenuta irrevocabile nel 1990 (pag. 12 della sentenza di primo grado), «si ravvisa anche una violazione di legge nella determinazione della pena. Nulla quaestio sulla discrezionalità ex art 132 c.p., ma senza prescindere dai parametri stabiliti dal successivo art. 133 c.p. Infatti, come già sopra evidenziato ed accertato dalla Corte di Appello, l’invasione del terreno è stata posta in essere dai genitori del COGNOME NOME, nell’atto edificatorio del manufatto».
3.3. Il terzo motivo è proposto in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., e con riferimento agli artt. 125, comma 3, e 546, comma 1, lett. e), dello stesso codice, nonché all’art. 62-bis cod. pen., e attiene alla conferma del diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Il COGNOME contesta la motivazione secondo cui «”nessuno degli imputati appare poi meritevole della concessione delle attenuanti generiche in ragione della gravità della condotta complessivamente considerata” (cfr. p. 8)».
Lamenta anzitutto che «on ciò si realizza un evidente appiattimento del giudizio relativo al mancato riconoscimento delle circostanze di cui all’art. 62 bis c.p. sulla sola la gravità della condotta», mentre, anche secondo la giurisprudenza di legittimità, «la gravità del reato non può di per sé essere assunta unicamente alla base della motivazione del diniego delle circostanze attenuanti, le quali, difatti, possono essere applicate anche a fatti di elevata gravità, poiché in relazione ad essi possono sussistere elementi circostanziali che possono giustificare una ulteriore diminuzione della pena rispetto alla misura che si dovrebbe infliggere alla stregua degli ordinari canoni di valutazione della fattispecie».
In secondo luogo, la suddetta motivazione sarebbe «altresì viziata da una generalizzazione che viola il parametro di cui all’art. 27 Cost.», il quale «avrebbe imposto giocoforza la considerazione differenziata del contributo singolarmente offerto» da ciascun imputato, cioè che «il relativo giudizio fosse ritagliato soggettivamente», il che sarebbe stato tanto più necessario «ove si consideri che il sig. COGNOME per come emerso dagli atti processuali si è limitato a “subentrare” nel godimento di un bene immobile».
3.4. Con il quarto motivo, il ricorrente chiede la «eclaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione ex art. 129 c.p.p.».
Il COGNOME deduce che, sia nel caso in cui si consideri il delitto di cui all’ar 633 cod. pen. come reato istantaneo con effetti permanenti, con la conseguenza che «Ha sua data di consumazione coincide con il momento in cui l’occupazione ha avuto inizio», sia che lo si consideri come reato permanente,
connotato, però, come nella specie, da un’imputazione che indica il tempus commissi delicti con formula cosiddetta “chiusa”, poiché il termine di prescrizione «decorre da Novembre 2014, il reato è ampiamente prescritto».
I ricorsi di NOME COGNOME e NOME COGNOME, a firma dell’avv. NOME COGNOME sono affidati a tre motivi, con i quali i ricorre deducono: «nsufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza»; «anifesta illogicità d’interpretazione degli elementi d’accusa»; «ancata motivazione della condanna».
A sostegno di tali tre motivi, i ricorrenti adducono l’argomentazione unitaria che, per ragioni di comodità espositiva, sarà integralmente riportata nel Considerato in diritto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso di NOME COGNOME.
1.1. Il primo motivo non è fondato.
Il Collegio ritiene di ribadire i principi, di cui condivide le argomentazioni sostegno, che sono stati espressi dalla Corte di cassazione nella recente Sez. 2, n. 27041 del 24/03/2023, COGNOME, Rv. 284792-01, con riguardo alla condotta del reato di cui all’art. 633 cod. pen., e ai quali la Corte d’appello di Catanzaro, come si vedrà, ha fatto evidentemente riferimento nella propria motivazione, pur senza citare espressamente la pronuncia menzionata.
Con la stessa, è stato chiarito che l’oggetto della tutela penale che è apprestata dal reato di invasione di terreni o edifici è costituito dall’interes pubblico all’inviolabilità del patrimonio immobiliare, in relazione alla protezione del diritto – spettante ai privati, allo Stato o ad altri enti pubblici – di conserv terreni o gli edifici legittimamente posseduti liberi da invasioni di persone non autorizzate.
Da ciò discende che, nell’art. 633 cod. pen., il termine «invasione» non è assunto nel significato comune di tale parola, la quale richiama un’azione irruenta e impetuosa, ma nel significato di «introduzione arbitraria non momentanea nel terreno o nell’edificio altrui allo scopo di occuparlo o di trarne altrimenti profitt con la conseguenza che i mezzi e il modo in cui avviene l’invasione sono indifferenti, né è necessario che ricorra il requisito della clandestinità (che costituisce uno dei requisiti dello spoglio civile, ex art. 1168 cod. civ), sicch l’invasione si può commettere anche palesemente e senza violenza, neppure sulle cose, o senza inganno.
Unico requisito dell’occupazione è l’arbitrarietà, vale a dire che essa avvenga contra ius, nel senso che agisce «arbitrariamente» colui che non ha il diritto o
un’altra legittima facoltà di entrare nell’altrui terreno o edificio allo scopo occuparlo o di trarne altrimenti profitto.
Da ciò la conclusione che «l reato di invasione deve, dunque, ritenersi configurabile ogniqualvolta si occupa un immobile sine titulo», e, in particolare, «come occupazione di un immobile sine titulo devono considerarsi le condotte di chi subentra nell’appartamento di proprietà di un ente pubblico, previa autorizzazione del precedente legittimo detentore ovvero di chi occupa l’immobile a titolo di mera cortesia o ancora, come nel caso oggetto di scrutinio, in virtù di un rapporto di parentela con l’originario e legittimo assegnatario». Pertanto, «Ma conseguente “occupazione” deve ritenersi l’estrinsecazione materiale della condotta vietata e la finalità per la quale viene posta in essere l’abusiva invasione».
La Corte d’appello di Catanzaro si è posta nel solco di tali principi, là dove ha argomentato, in evidente adesione e conformità agli stessi, che «l reato di invasione deve, dunque, ritenersi configurabile ogniqualvolta si occupa un immobile sine titulo e come occupazione sine titulo devono considerarsi le condotte di chi subentra consapevolmente nell’illegittima detenzione altrui» (pag. 6 della sentenza impugnata).
Ciò tanto più che, appunto, nel caso in esame, rispetto alle fattispecie prese in considerazione dalla sentenza COGNOME, come è stato congruamente sottolineato dalla Corte d’appello di Catanzaro, «i genitori dell’imputato non avevano alcun possesso legittimo, né avevano realizzato l’immobile con titolo edilizio o autorizzazione del comune a occupare il terreno».
Quanto all’elemento soggettivo del reato, si deve rilevare come le argomentazioni del ricorrente siano del tutto generiche, atteso che, come si è visto nella parte in fatto, il COGNOME si è in proposito limitato a trascrivere la massima d Sez. 2, n. 2592 del 17/11/2005, dep. 2006, COGNOME, cit., e parte della massima di Sez. 2, n. 6949 del 17/05/1988, dep. 1989, COGNOME, cit., e a ribadire che il reato di cui all’art. 633 cod. pen. richiede il dolo specifico del fine di occupare l’immobil o di trarne altrimenti profitto.
Ciò a fronte di una motivazione della sentenza impugnata con la quale la Corte d’appello di Catanzaro ha comunque congruamente ritenuto come dalle modalità di estrinsecazione della condotta dell’imputato, così come erano state accertate, fosse possibile inferire sia la sua consapevolezza dell’altruità del terreno invaso, sia il fine di occuparlo o di trarne altrimenti profitto (pag. 7 della senten impugnata).
1.2. Il secondo motivo non è fondato.
La Corte di cassazione ha chiarito che il delitto di invasione di terreni o edifici, nel caso in cui l’occupazione abusiva si protragga nel tempo – come è
pacificamente avvenuto nel caso in esame – ha natura permanente (Sez. 2, n. 40771 del 19/07/2018, Vetrano, Rv. 274458-01).
Orbene, nel caso di reati permanenti, assume fondamentale rilievo, al fine di stabilire sia il regime sanzionatorio applicabile, sia la decorrenza del termine della prescrizione, sia la preclusione che è connessa all’applicazione del principio del ne bis in idem, la data di cessazione della permanenza così come contestata nel capo d’imputazione, nel senso che: a) nel caso di contestazione in forma cosiddetta “chiusa”, con l’indicazione di una precisa data finale, si deve avere riguardo a tale precisa data; b) nel caso di contestazione in forma cosiddetta “chiusa”, con l’indicazione «fino a oggi», si deve avere riguardo alla data del rinvio a giudizio; c) nel caso di contestazione cosiddetta “aperta”, cioè con l’indicazione della sola data di inizio o di accertamento della condotta, si deve avere riguardo alla data della sentenza di primo grado (Sez. 2, n. 20098 del 03/06/2020, Buono, Rv. 279476; Sez. 2, n. 55164 del 18/09/2018, Trabucco, Rv. 274298-01, relativa alla decorrenza del termine di prescrizione proprio del reato di cui all’art. 633 cod. pen.).
Posti tali principi, nel caso in esame, il reato permanente di invasione di terreni è stato contestato al COGNOME come «condotta accertate in Crotone, nel periodo compreso fra il 14 e il 18 novembre 2014».
Poiché, pertanto, il capo d’imputazione si limitava a individuare il periodo di accertamento della condotta, con una contestazione, perciò, “aperta” – e non “chiusa”, come è sostenuto dal ricorrente – ne discende, sulla base dei principi esposti, che, al fine di stabilire il regime sanzionatorio applicabile al reato, doveva avere riguardo alla data di cessazione della permanenza costituita dalla data della sentenza di primo grado, cioè, precisamente, alla data del 29/11/2021.
Ne consegue, diversamente da quanto è sostenuto dal ricorrente, la correttezza dell’affermazione della Corte d’appello di Catanzaro secondo cui la pena applicabile nella specie era quella della «reclusione da uno a tre anni e multa da euro 103 a euro 1.032», cioè il più rigoroso regime sanzionatorio che è stato da ultimo introdotto con l’art. 30 del d.l. n. 113 del 2018.
Da ciò discende altresì la correttezza anche dell’altra affermazione della Corte d’appello di Catanzaro secondo cui la pena irrogata di un anno e sei mesi di reclusione era «di poco superiore al minimo edittale», il che rende senz’altro adeguata la motivazione della stessa Corte d’appello fondata sulla congruità della suddetta pena «tenuto conto della durata considerevole dell’occupazione e delle esigenze di emenda degli appellanti» (pag. 8 della sentenza impugnata).
Si deve infatti in proposito ribadire il principio, che è costantemente affermato dalla Corte di cassazione, secondo cui la determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed
insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso in cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gli elementi di all’art. 133 cod. pen. (per tutte: Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, COGNOME, Rv. 265283-01).
1.3. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
Si deve anzitutto rilevare che, dalla lettura della sentenza impugnata e, in particolare, della richiamata pag. 8 di essa, non risulta che la Corte d’appello di Catanzaro abbia fatto l’affermazione, che è oggetto delle contestazioni del ricorrente, secondo cui «”nessuno degli imputati appare poi meritevole della concessione delle attenuanti generiche in ragione della gravità della condotta complessivamente considerata” (cfr. p. 8)».
Ciò rilevato, si deve in ogni caso rammentare che, in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, COGNOME, Rv. 271269-01).
Nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli fac riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli alt disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, Rv. 248244-01).
Al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente e atto a determinare o no il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso può risultare allo scopo sufficiente (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549-01; Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163-01).
Nel caso di specie, la Corte d’appello di Catanzaro ha confermato il diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche ritenendo decisivi, a tale fine, gli elementi della lunga durata dell’occupazione e dei precedenti penali del Manetta, a fronte, peraltro, dell’assenza di elementi di segno positivo che fossero valorizzabili al riguardo.
Alla luce dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità sopra esposti, tale motivazione si deve ritenere sufficiente e, in quanto espressiva di un giudizio di fatto, non sindacabile in questa sede di legittimità.
1.4. Il quarto motivo non è fondato.
Nell’esaminare il secondo motivo si è argomentato che: a) al fine di stabilire la decorrenza del termine di prescrizione, occorre avere riguardo alla data di cessazione della permanenza così come contestata nel capo d’imputazione, se in forma cosiddetta “chiusa” o in forma cosiddetta “aperta”; b) poiché nel caso in esame è stata formulata una contestazione cosiddetta “aperta”, mediante l’indicazione del solo periodo di accertamento della condotta – e non “chiusa”, come è sostenuto dal ricorrente -, si deve avere riguardo, quale data di cessazione della permanenza e, quindi, quale data di decorrenza del termine di prescrizione del reato, alla data della sentenza di primo grado, cioè alla data del 29/11/2021.
Risulta pertanto evidente come, diversamente da quanto è sostenuto dal COGNOME, il termine di sei anni di prescrizione del delitto non sia decorso dalla suddetta data.
Si deve in proposito anche rilevare che la Corte d’appello di Catanzaro ha argomentato come non solo non vi fosse alcuna prova che, dopo gli accessi che erano stati eseguiti nel novembre del 2014, l’occupazione fosse cessata, ma risultasse che, alla data del 25/02/2020 in cui era stata escussa la testimone NOME COGNOME il manufatto abusivo per realizzare il quale l’invasione era stata commessa non era stato demolito.
I ricorsi di NOME COGNOME e NOME COGNOME sono inammissibili perché sono proposti per dei motivi non consentiti, in quanto del tutto aspecifici.
Nel lamentare «nsufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza», «anifesta illogicità d’interpretazione degli elementi d’accusa» e «ancata motivazione della condanna», i ricorrenti adducono, a sostegno di tali doglianze, la seguente argomentazione unitaria: «la sentenza si presenta immotivata, illogica e contraddittoria. Assume quale prova d’accusa dei fatti contestati elementi che tali non si rappresentano. Manca in sentenza la valutazione della prova. I giudici nel valutare la prova, avrebbero dovuto, usando argomentazioni logico giuridiche, dar conto nella sentenza dei risultati acquisiti e dei criteri adottati, con un motivazione analitica e completa del convincimento della scelta operata. La sentenza ha disatteso risultanze probatorie certe ed oggettive, specie in ordine all’acquisizione della prova, basandosi su dati di fatto ed elementi del tutto generici ed incerti, elaborando una sorta di presunzione sfavorevole in danno dell’imputato e travisando i fatti. Di conseguenza l’assoluta genericità della parte motiva della sentenza, porta la concretizzazione della mancanza assoluta dei requisiti necessari per la sua legittimità e validità giuridica».
Tali censure sono, come appare di immediata evidenza, del tutto aspecifiche, atteso che trascurano completamente di confrontarsi con il percorso motivazionale
della sentenza impugnata, la quale viene criticata dai ricorrenti con asserzioni che risultano assolutamente generiche, in quanto prive di qualsiasi specifico
riferimento al suddetto concreto percorso motivazionale, così che le stesse censure si devono ritenere, perciò, non consentite, con la conseguente inammissibilità dei
ricorsi a norma del comma 3 dell’art. 606 cod. proc. pen.
3. Pertanto: a) il ricorso di NOME COGNOME deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc.
pen., al pagamento delle spese del procedimento; b) i ricorsi di NOME
COGNOME e di NOME COGNOME devono essere dichiarati inammissibili, con la conseguente condanna dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 616,
comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento, nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità, al pagamento della somma di C 3.000,00 ciascuno in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi di COGNOME NOME e di COGNOME NOME COGNOME e condanna entrambi i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Rigetta il ricorso di COGNOME NOME e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 08/04/2025.