Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 7275 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 7275 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 21/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a Napoli il 23/04/1999
avverso la sentenza del 31/01/2024 della Corte d’appello di Napoli visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore, NOME COGNOME che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso; udito il difensore, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Napoli ha confermato la pronuncia, del 27 giugno 2022, del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli che aveva dichiarato NOME COGNOME responsabile dei reati di detenzione, porto illegale di armi da sparo e tentato omicidio in danno di NOME COGNOME, reato aggravato dalla premeditazione e dalla circostanza aggravante del me todo mafioso e, esclusa l’aggravante di cui all’art. 577, primo comma, n. 4 cod. pen. in relazione all’art. 61, n. 1 cod. pen. contestata con riferimento al capo b) di imputazione, unificati i reati ex art. 81 cpv. cod. pen., lo aveva condannato, con la diminuente per il rito, alla pena di anni dieci di reclusione, oltre pene accessorie.
Con ricorso tempestivamente proposto, la difesa di NOME COGNOME ha addotto motivi a fondamento della richiesta di annullamento della sentenza impugnata, di seguito sintetizzati conformemente al disposto dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Il primo motivo di ricorso afferisce al vizio di cui all’art. 606 lett. c), e), cod. proc. pen., per violazione, ovvero falsa applicazione, dell’art. 268 cod . proc. pen. in relazione agli artt. 271 e 191 cod. proc. pen., altresì, invocandosi manifesta illogicità delle motivazioni riservate dalla decisione impugnata all’eccezione di inutilizzabilità dell’intercettazione ambientale del video -colloquio, avvenuto presso la Casa circondariale di Taranto, tra NOME COGNOME e NOME COGNOME, realizzata attraverso impianti esterni e non per tramite di quelli installati presso la Procura della Repubblica di Napoli.
Il ricorrente lamenta l’avvenuto impiego, per l’effettuazione della captazione dell’incontro all’interno dell’istituto di pena tra gli COGNOME, padre e figlio, di impianti diversi da quelli installati presso la Procura procedente, in difetto della specifica motivazione richiesta dalla legge per il relativo decreto.
Si contesta la congruità delle ragioni addotte dalla Corte di appello che, richiamando quanto affermato dal Giudice di primo grado, si esporrebbero a duplice rilievo.
La giurisprudenza relativa alle motivazioni a sostegno della scelta di ricorrere ad impianti esterni alla Procura procedente non è univoca, ma andrebbe considerata la funzione sottesa all’art. 268, comma 3, cod. proc. pen., insita nella possibilità, da parte dell’ Autorità giudiziaria, di effettuare un controllo immediato sulle operazioni. Sicché la deroga è subordinata alla duplice condizione dell ‘ insufficienza o inidoneità degli impianti e delle eccezionali ragioni di urgenza, anche alla luce dell’insufficienza del mero rifer imento a necessità investigative: il riferimento motivazionale alla mera eventualità di necessità investigative, richiamate nel caso di specie, si rivelerebbe, quindi, lacunoso.
Muovendo da tali premesse, il ricorrente domanda che sia dichiarata l’inutilizzabilità dell’intercettazione di cui al decreto n. 3201/2021, considerato dai giudici di merito il principale elemento di riscontro alle dichiarazioni accusatorie della vittima, rese ai Carabinieri presso l’ospedale ove era ricoverato , con conseguente annullamento della sentenza impugnata per difetto di motivazione in ordine alla responsabilità dell’imputato.
2.2. Con il secondo motivo si adduce, ai sensi dell’art. 606 lett. c), e) cod. proc. pen., la violazione, ovvero falsa applicazione, degli artt. 351, 362 cod. proc. pen. in relazione agli artt. 191, 195, 197, 197bis cod. proc. pen., nonché omessa motivazione e travisamento degli elementi di prova con riguardo all’eccezione di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa in
occasione dell’audizione presso l’ospedale ove era stata ricoverata. Inoltre, si denuncia violazione, ovvero falsa applicazione, degli artt. 188 e 191 cod. proc. pen., nonché manifesta illogicità delle motivazioni riservate all’eccezione di inutilizzabilità delle me desime dichiarazioni, in merito all’impiego di metodi e tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione della persona offesa.
Il ricorrente -ripercorrendo il ricovero della vittima e l’arrivo d i militari operanti al suo capezzale -rammenta che la trascrizione delle dichiarazioni rese era stata veicolata all’interno del compendio istruttorio quale prova documentale.
Si richiamano, al riguardo, i principi di Sez. U, ricorrente COGNOME , in tema di inutilizzabilità della registrazione fonografica effettuata clandestinamente da parte del personale di Polizia giudiziaria, rappresentativa di colloqui intercorsi, per quanto rileva, con persone informate dei fatti, per violazione di tale modalità acquisitiva del principio di legalità nella formazione della prova (violazione dei divieti di cui agli artt. 63, comma 2, 191, 195, comma 4, 203 cod. proc. pen.).
La difesa assume che gli operanti avrebbero violato le regole desumibili dal combinato disposto degli artt. 351, 362, in riferimento agli artt. 197 e 197bis cod. proc. pen., in quanto sarebbe stata loro nota la posizione soggettiva di indagato di reato connesso in capo alla vittima del tentato omicidio, come discenderebbe dalle annotazioni del primo giudice che, nel ritenere la sussistenza della circostanza aggravante del metodo mafioso, aveva valorizzato la ragione del gesto, determinato dalla necessità di affermare la leadership di NOME COGNOME e del clan a lui riconducibile.
In sede di riesame, era stato, altresì, ricordato che la persona offesa (come si evinceva dall’informativa della Squadra mobile di Napoli del 18 maggio 2021) era stata arrestata per detenzione di cocaina e crack , in relazione a condotte oggetto di procedimento connesso al presente, dato che, ad avviso del ricorrente, risiedeva nelle parole del giudice medesimo, secondo il quale la ragione dell’aggressione trovava origine nel tenta tivo di rafforzare la leadership di NOME COGNOME e dell’ organizzazione facente capo al medesimo, che, tra l’altro, opera va proprio nel settore del traffico degli stupefacenti.
A fronte delle prospettate questioni, la Corte di appello ha invece escluso l’applicabilità dei principi delle Sez. U, ricorrente COGNOME , assumendo la consapevolezza, in capo alla vittima, della registrazione ad opera dei Carabinieri, tanto che, in occasione delle sommarie informazioni del 19 maggio, si era limitata a confermare quanto precedentemente affermato.
Ad avviso del ricorrente, la conferma di quanto in precedenza dichiarato indica soltanto che, in epoca anteriore, vi erano state dichiarazioni della persona offesa, non già che le medesime fossero state registrate e che lo stesso fosse a conoscenza di essere stato registrato, anche perché quando COGNOME fu sentito a
sommarie informazioni (19 maggio 2021), si era limitato a confermare quanto dichiarato la precedente domenica sera, presso l’ospedale di Nola, cioè che i suoi aggressori erano NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Quindi, si opina che soltanto quest’ultimo dato -ovvero l’aggressione da parte di NOME COGNOME e NOME COGNOME – avrebbe dovuto essere ritenuta provata, non anche gli ulteriori particolari riferiti nel corso del primo colloquio ma non ribaditi a sommarie informazioni.
In ordine al rilievo relativo all’inutilizzabilità del dialogo per asserita violazione degli artt. 351, 362 cod. proc. pen. in relazione agli artt.191, 195, 197, 197bis cod. proc. pen., la difesa assume che, a dispetto del rilievo di genericità delle accuse a carico della vittima, l’indicazione del 3 gennaio doveva essere letta nel contesto in cui la citazione era avvenuta, ovvero con riferimento all’informativa della Squadra mobile in data 18 maggio 2021, ove si affermava che «la persona offesa fu tratta in arresto lo scorso 3 gennaio per detenzione di cocaina e di crack », in proposito contestando la sussistenza di un onere di allegazione in capo all’imputato, laddove, come nel caso, il controllo sulla legittima acquisizione delle dichiarazioni (nella specie, della vittima) era richiesto al giudice di merito. Si rileva, a tale fine, la dedotta non conferenza dei principi giurisprudenziali evocati dalla Corte di appello, in realtà affermati con riferimento al (diverso) giudizio di legittimità.
Con riferimento all’inutilizzabilità delle registrazioni occulte di colloqui con le Forze dell’ordine, la difesa aggiunge che, nel caso, esse erano state precedute da un primo colloquio, non registrato e di cui non vi sarebbe traccia processuale («Prima ce l’hai detto», era la frase rivolta alla vittima dai Carabinieri, a significare di un precedente colloquio non registrato). E tale circostanza non sarebbe ragionevolmente esplicata dalla decisione impugnata, non essendo logico, come ha ritenuto la Corte di appello, che la prima fase del dialogo fosse stata destinata a saggiare la possibilità di interloquire con la vittima, giunta al nosocomio in emergenza.
Invero, ad avviso del ricorrente -atteso che il paziente era stato descritto, al ricovero, ‘vigile e cosciente’ la fase iniziale del dialogo non sarebbe certamente stata finalizzata a tale, non necessaria, verifica e per contro, dalla frase « p rima ce l’hai detto » discende necessariamente il dato che vittima ed operanti avessero già parlato della questione e che fosse stato fatto il nome degli aggressori.
Secondo il ricorrente, le modalità dell’audizione avevano compresso la libera determinazione della vittima, posto che (v. p. 25) «il soddisfacimento dei bisogni di NOME era stato…condizionato dall’ottenimento di informazioni…ti faccio bere, però mi devi dire tutti e due chi erano, prima ce l’hai detto».
In conclusio ne, si domanda che sia dichiarata l’inutilizzabilità di tali dichiarazioni e, di conseguenza, anche delle successive sommarie informazioni rese da NOME COGNOME in data 19 maggio 2021.
2.3.Con il terzo motivo, si adduce, ai sensi dell’art. 606 lett. c), e) cod. proc. pen. la violazione, ovvero falsa applicazione, degli artt. artt. 192, 392 e ss. e 500 cod. proc. pen., nonché manifesta illogicità delle motivazioni riservate all’affermazione della responsabilità di COGNOME.
La menta la difesa che, ai fini dell’affermazione di responsabilità dell’imputato, siano state utilizzate le dichiarazioni rese dalla vittima nel corso delle indagini, anziché, come sarebbe dovuto avvenire, quelle rese nel contraddittorio, in incidente probatorio, quando NOME COGNOME aveva detto di non ricordare nulla dell’accaduto, neanche di avere reso dichiarazioni ai Carabinieri ma soltanto che gli era stato chiesto di firmare un verbale.
Invero, nel corso dell’audizione in incidente probatorio (cfr. p. 31 del ricorso ove se ne riporta stralcio) erano state elevate varie contestazioni alla vittima, a fronte dell ‘ eterogeneità tra le precedenti dichiarazioni e quelle rese in contraddittorio; ma avrebbe errato la Corte di appello, commettendo un errore analogo a quello del giudice di primo grado, laddove è stato fatto prevalere quanto dichiarato nelle indagini. Al più, avrebbe dovuto essere negata credibilità alle dichiarazioni dell’incidente probatorio, elevando a prova del fatto quanto riferito dalla vit tima a suo padre, con l’aggiunta di elementi ulteriori di riscontro ex art. 192, comma 3, cod. proc. pen.
La difesa rimarca un altro aspetto di criticità della motivazione, a suo avviso viziata da contraddittorietà in ordine alla presenza o meno, indosso agli aggressori, del passamontagna: la decisione muove dal presupposto che, essendo costoro stati riconosciuti, non indossavano l’indumento in questione m a la vittima e lo zio NOME COGNOME vi avevano fatto specifico riferimento.
La Corte territoriale ha ripreso, ponendo a fondamento della questione, le dichiarazioni delle testi COGNOME e di COGNOME, nonché quanto riferito dalla vittima a suo padre. Questa aveva parlato dei due aggressori, ma il ricorrente osserva che sarebbe stata ritenuta illogicamente recessiva la versione della medesima persona offesa – sulla presenza del passamontagna sui volti degli aggressori – e dello zio NOME, versione (non veridica) da fare risalire ai principi di omertà, tipici dei contesti mafiosi a cui i due avevano inteso prestare ossequio. Come si è accennato, la difesa adduce la contraddittorietà di tale ricostruzione, alla luce del fatto che, in sede di sommarie informazioni, sia la vittima che lo zio non avevano esitato ad indicare COGNOME come uno degli aggressori. Se davvero fossero stati fedeli a logiche omertose, sarebbero stati coerentemente fermi nel parlare di passamontagna, ostativo al riconoscimento.
Ancora scarsamente logica e coerente sarebbe l’indicazione, contenuta nella sentenza di primo grado e richiamata in appello, secondo cui la vittima e l’imputato, entrambi di Castello di Cisterna, si conoscevano per cui il primo avrebbe riconosciuto l’aggressore, di cui sapeva il nome ( ‘NOME‘ ) con il quale era noto, anche senza averne saggiato il volto, ma soltanto dalle fattezze.
Osserva il ricorrente che sorgerebbe un’altra contraddizione, alla luce del fatto che se davvero tutti si conoscevano, non sarebbe comprensibile il motivo dell’erronea aggressione ai danni di NOME COGNOME invece che dello zio. E, di conseguenza, ne deriverebbe la contraddittorietà della motivazione, nella sua integralità.
2.4. Con il quarto motivo si adduce, ai sensi dell’art. 606 let t. c), e) cod. proc. pen. la violazione, ovvero falsa applicazione, degli artt. artt. 192 e 533 cod. proc. pen., in relazione agli artt. 10 e 12 legge n. 497 del 1974 e all’art. 15 cod. pen., nonché manifesta illogicità e travisamento del fatto con riguardo alle motivazioni riservate all’affermazione di responsabilità per i reati di porto e di detenzione di cui al capo a).
Il ricorrente sostiene che la sentenza va annullata in ragione del mancato assorbimento del delitto di cui all’art. 10 legge n. 497 del 1974, in quello di cui all’art. 12 legge cit., alla luce del canone espresso dagli artt. 192 e 533 cod. proc. pen.
Sarebbe fallace la motivazione fondata sulla mancanza di elementi sulla cui base ritenere assorbito il reato di detenzione in quello di porto: è stato osservato che, sulla base del criterio logico, doveva ritenersi plausibile che COGNOME, ove avesse portato l’arma in luogo pubblico avrebbe dovuto averne conseguito la detenzione in un momento anteriore e distinto.
L’argomento utilizzato dall a Corte territoriale è stato elaborato con riferimento a contesti mafiosi in cui gli agguati vengono compiuti con l’impiego di armi in possesso del consorzio, quindi, ascritto tale episodio ad una guerra tra clan , i giudici hanno ritenuto utilizzabile la menzionata massima di esperienza, mentre, nel caso, l’unico elemento di prova risulta essere l’affermazione della vittima, secondo cui «gliela diede NOME la pistola a COGNOME», per cui vi sarebbe la prova che l’arma non era nella previa disponibilità dell’imputato.
Di conseguenza, la richiesta di annullamento per non essere stato ritenuto il reato di detenzione di arma clandestina assorbito in quello di porto della medesima.
2.5. Con il quinto motivo si adduce, ai sensi dell’art. 606 lett. c), e) cod. proc. pen. la violazione, ovvero falsa applicazione, degli artt. artt. 192 e 533 cod. proc. pen., in relazione all’art. 577, comma 1, n. 3 cod. pen., nonché manifesta illogicità e contraddittorietà delle motivazioni riservate alla sussistenza
della circostanza aggravante della premeditazione contestata in relazione al tentato omicidio di cui al capo b).
Si chiede l’annullamento della sentenza nella parte in cui ha ritenuto integrata la premeditazione in relazione al tentato omicidio, ravvisata nel fatto che il proposito delittuoso fosse verosimilmente insorto prima del pranzo familiare per la Comunione della sorella della vittima, in contraddizione con quanto successivamente affermato, laddove la Corte territoriale aveva precisato ch e l’ideazione era nata poco prima dell’agguato: sia la mera verosimiglianza, sia il ‘poco prima’ non sarebbero circostanze compatibili con la certezza di una ponderata e autonoma deliberazione della scelta criminale.
Sarebbe stata confusa, ad avviso del ricorrente, preordinazione -quale apprestamento dei mezzi utili all’esecuzione, nella fase immediatamente precedente – e premeditazione, la quale, invece, postula il radicamento e la persistenza per un apprezzabile lasso di tempo, del proposito criminoso, non sovrapponibile, nella sua essenza, all’agguato, mera modalità esecutiva del reato, non evincibile neppure dal numero di colpi sparato.
2.6. Con il sesto si adduce, ai sensi dell’ art. 606 lett. c), e) cod. proc. pen., la violazione, ovvero falsa applicazione, degli artt. artt. 192 e 533 cod. proc. pen., in relazione all’art. 416 -bis , comma 1bis , cod. pen., nonché manifesta illogicità e contraddittorietà delle motivazioni riservate alla sussistenza dell’aggravante del metodo e dell’agevolazione mafiosa.
Il ricorrente deduce che la Corte territoriale abbia fatto discendere la sussistenza della circostanza aggravante dalla finalizzazione dell’agguato al superamento di frizioni relative alla supremazia sul clan COGNOME, delle quali COGNOME, parente della famiglia di cui si tratta, è stato ritenuto al corrente.
Tuttavia, nessuna prova ricorre circa il coinvolgimento di COGNOME nell’organizzazione dell’agguato, essendo stata ev idenziata, sulla scorta delle dichiarazioni rese dai collaboratori, l’esistenza di uno scontro tra COGNOME e agli esponenti del clan, diversi da COGNOME ; sicché la Corte territoriale avrebbe errato nel concludere che COGNOME, sulla base del solo legame familiare, non potesse non sapere le ragioni del l’agguato (cioè lo scopo di ripianare i diverbi interni al sodalizio).
Si rammenta la natura soggettiva della aggravante, caratterizzata dal dolo intenzionale, applicabile, nel concorso, al concorrente non animato dalla medesima, soltanto a patto che sia consapevole dell’altrui finalità, non evincibile, come la Corte territoriale aveva erroneamente ritenuto, dalla mera parentela Barbareschifamiglia COGNOME. Ancor più, alla luce della mancanza di riscontri alle dichiarazioni del collaboratore NOME COGNOME.
Quanto al metodo mafioso, si contesta la contraddittorietà delle argomentazioni di cui alla motivazione, laddove esso si è desunto dalle modalità
e dalle caratteristiche dell’agguato (orario in cui le persone erano a casa, spiegamento di armi da fuoco, numero di colpi superiore al necessario), finalizzate a scoraggiare gli interventi a supporto del ferito, ma, di contro, si è preso atto dell’immediato intervento dei parenti (NOME COGNOME, NOME COGNOME). Sarebbero, dunque, mere petizioni di principio sia l’avere ritenuto che l’orario dell’agguato sia stato scelto, nonostante la consapevolezza che, a quell’ora, la maggior parte degli abitanti della zona fossero a casa, sia l’avere osservato che il numero dei colpi fossero esplicazione di metodo mafioso. Per il ricorrente sarebbe capzioso affermare che la mancata collaborazione di NOME COGNOME e NOME COGNOME denoterebbero il radicamento della vicenda nel substrato ambientale di tipo mafioso. Ciò, in quanto la Corte territoriale aveva ritenuto che l’agguato si collocasse nella lotta interna al clan COGNOME – una delle cui fazioni faceva capo a NOME COGNOME – per la supremazia al suo interno e, quindi, sarebbe illogico assumere che l’intimidazione era diretta verso chi, fino a quel momento, aveva collaborato con gli assalitori nella gestione degli affari illeciti nella zona.
In ogni caso, il comportamento omertoso serbato dalla coppia COGNOMECOGNOME sarebbe mera conseguenza dell’adesione al codice d’onore da loro osservato, in quanto camorristi, non essendo, invece, riconducibile al metodo mafioso esercitato dagli ag gressori. Ciò che, tra l’altro, si evince rebbe dal passo motivazionale (v. p. 28), laddove, nel conferire con il padre detenuto, la vittima, ad un certo punto, aveva mostrato quella tipica reticenza «per non deludere il padre, confessando di avere violato la regola dell’omertà».
2.7. Con il settimo motivo si adduce, ai sensi dell’art. 606 lett. e) cod. proc. pen., la carenza e/o contraddittorietà della motivazione in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche, e al significativo scostamento dai minimi edittali nella commisurazione della pena.
Il ricorrente si duole che la Corte territoriale, sul rilievo del numero di colpi esplosi, abbia negato l’applicazione dell’art. 62 -bis cod. pen., diniego altresì giustificato dal grave pericolo alla vi ta della vittima derivato dall’azione, ri lievo non avvalorato da elementi oggettivi, atteso che la vittima era sempre rimasta vigile dopo il ferimento, non essendo invece stati valorizzati gli indici di cui all’art. 133 cod. pen. Si osserva che non era stata neppure presa in considerazione la circostanza che la decisione dell’agguato era nata a seguito di un alterco coinvolgente NOME COGNOME che aveva rivolto minacce di morte al suo interlocutore. Circostanza che, se non integra la provocazione, dovrebbe tuttavia trovare spazio ai sensi dell’art. 62 -bis cod. pen.
I difensori dell’imputato, avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME – avanzata tempestiva richiesta di trattazione orale del processo – con
dichiarazione del 24 giugno 2024 hanno manifestato la volontà di aderire all’astensione collettiva degli avvocati penalisti, indetta con delibera dell’Ordine di appartenenza.
Quindi, all’udienza del 10 luglio 2024, il Collegio ha disposto il differimento dell’udienza al 21 novembre 2024, avendo NOME COGNOME detenuto per questa causa, manifestato adesione alla richiesta di astensione dei difensori.
All’odierna udienza, le parti presenti hanno concluso nel senso riportato in epigrafe.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.Il ricorso è infondato.
2. Il primo motivo è infondato.
2.1. Va premesso che, in caso di cd. ‘doppia conforme’ affermazione di responsabilità, è principio giurisprudenziale consolidato quello secondo cui ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, ricorre la cd. “doppia conforme” quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze, in tale caso, possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (tra le altre, Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218-01).
Ciò posto, va rilevato che, nel caso di specie, le due motivazioni hanno dato specifico, logico ed esauriente conto della ragione per la quale, nel compiere l’attività di intercettazione, all’interno della Casa circondariale di Taranto , del colloquio tra la vittima del tentato omicidio ed il padre, detenuto in quell ‘ Istituto sono stati utilizzati impianti esterni alla Procura della Repubblica procedente.
Vanno rammentati i principi giurisprudenziali costanti in tema di intercettazioni ambientali di colloqui in carcere, secondo i quali il decreto del pubblico ministero che autorizza l’uso di apparecchiature esterne rispetto a quelle in dotazione alla Procura della Repubblica è sufficientemente motivato mediante il richiamo alla necessità di programmare, assicurare ed effettuare prontamente servizi di osservazione, pedinamento e controllo dei soggetti intercettati, nonché di ogni altra opportuna attività, con conseguente imprescindibilità di un raccordo immediato tra gli addetti all’ascolto e le rispettive centrali operative ed unità investigative territoriali (Sez. 1, n. 39769 del 16/05/2018, P.G. in proc. COGNOME e altro, Rv. 273850-01).
Dunque, in ossequio a tale indirizzo interpretativo risulta essere stato assolto, in modo ineccepibile, il richiesto onere motivazionale.
Si rileva che (v. p. 14-20 della sentenza di appello) il Giudice ha dato diffusa motivazione, richiamando il decreto del pubblico ministero -dopo avere affrontato il tema del regime di inutilizzabilità delle prove nell’ambito del giudizio abbreviato -in ordine alla scelta di fare impiego delle attrezzature installate in loco, così testualmente, richiamando la sentenza di primo grado, la legittimità della scelta.
Si segnala, infatti, che si tratta di conversazioni tra presenti che dovevano avere luogo in occasione dei colloqui del detenuto con i suoi familiari e con gli altri aventi diritto, sicché occorreva procedere alla videoregistrazione dei colloqui e delle comunicazioni intercettate, in modalità videochiamata con applicativo WhatsApp e/o similari, al fine di attribuire in termini di certezza i dialoghi alle persone intercettate, nonché per cogliere eventuali comunicazioni gestuali. Inoltre, si è rilevato che appariva necessario che tale video e fono registrazione avvenisse utilizzando le apparecchiature installate nell’istituto carcerario , in prossimità del luogo in cui si effettua l’intercettazione, al fine di assicurare il migliore coordinamento dell’attività investigativa e dell’attività di intercettazione . Si tratta di esigenza che, per i giudici di merito, poteva essere soddisfatta esclusivamente con la raccolta dei dati audio-video presso il carcere, al fine porre in essere eventuali pedinamenti delle persone esaminate, necessità di interventi correttivi, n ecessari per la migliore riuscita dell’intercettazione , che non potevano essere adeguatamente assicurate in caso di attività di audio-video registrazione posta in essere in altro luogo (Procura della Repubblica).
Infine, si era notato che la società accreditata alle operazioni di registrazione delle conversazioni presso la Casa circondariale non aveva un proprio server presso la sala di ascolto della Procura e che presso l’Istituto penitenziario erano già installate le apparecchiature tecniche di ditta privata che consentivano video-intercettazioni, con applicativo WhatsApp e/o similari.
Ciò premesso, il motivo risulta manifestamente infondato e deve essere pertanto dichiarato inammissibile.
2.2. Il secondo motivo è inammissibile in quanto manifestamente infondato.
La censura afferisce alla dedotta violazione, ai sensi dell’ art. 606 lett. c), e) cod. proc. pen., ovvero falsa applicazione, degli artt. 351, 362 cod. proc. pen. in relazione agli artt. 191, 195, 197, 197bis cod. proc. pen., nonché omessa motivazione e travisamento degli elementi di prova con riguardo all’eccezio ne di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa ai Carabinieri, in occasione dell’audizione presso l’ospedale ove era stata ricoverata , con violazione anche degli artt. 188 e 191 cod. proc. pen. e vizio di motivazione in merito all’imp iego di metodi e tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione della persona offesa.
Va premesso che in tema di ricorso per cassazione, anche a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 165bis disp. att. cod. proc. pen., introdotto dall’art. 7, comma 1, d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, trova applicazione il principio di autosufficienza del ricorso, che si traduce nell’onere di puntuale indicazione, da parte del ricorrente, degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria l’allegazione, materialmente devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato (Sez . 5, n. 5897 del 03/12/2020, dep. 2021, Rv. 280419-01).
Inoltre, con specifico riferimento al tema della dedotta inutilizzabilità della prova per violazione di legge nella sua assunzione, è stato affermato che «In tema di ricorso per cassazione, grava sulla parte che deduce l’inutilizzabilità di un atto l’onere di indicare specificamente i documenti sui quali l’eccezione si fonda e altresì di allegarli, qualora essi non facciano parte del fascicolo trasmesso al giudice di legittimità. (In applicazione del principio, la Corte ha dichiarato inammissibile il motivo di ricorso con il quale l’imputato aveva eccepito, senza tuttavia documentarlo, che le intercettazioni telefoniche erano state disposte in un procedimento diverso e per un reato non connesso a quello per il quale aveva riportato condanna).» (Sez. 5, n. 23015 del 19/04/2023, Bernardo, Rv. 284519-01).
I principi riportati sono condivisi dal Collegio: in proposito, non può ritenersi fondata la tesi del ricorrente, secondo cui l’audizione della persona offesa avrebbe postulato di rivolgere al dichiarante gli avvisi di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., in quanto egli sarebbe stato imputato di reato connesso e arrestato, il 3 gennaio, per violazione dell’art. 73 TU Stup. e per estorsione, atteso che non costituisce allegazione idonea a soddisfare l’onere richiesto, la mera indicazione, anche a ritenerla completa, dell’anno di riferimento, della data del presunto arresto della persona informata sui fatti.
La dedotta violazione dell’art. 188 cod. proc. pen., che fa divieto dell’uso di metodi o tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti, è manifestamente infondata.
Le, lamentate, illecite pressioni che i Carabinieri avrebbero compiuto nei confronti della vittima sono state logicamente ed esaurientemente escluse dai giudici del merito, la cui motivazione appare, anche sotto tale profilo, esente da lacune, illogicità ed aporie (v. p. 22-24 sentenza di appello).
Intanto, non vi è elemento alcuno per affermare che il dialogo avvenuto off records e tale da postulare pressioni sulla persona, essendosi gli operanti limitati a fare riferimento alla prima fase del contatto con la vittima, ricoverata all’ospedale, presentasse carattere manipolativo della volontà della stessa: per contro, è congrua e immune da illogicità manifesta la motivazione, laddove evidenzia che l’approccio da parte delle Forze dell’ordine con una persona poco
prima vittima di un agguato e ricoverata in ospedale, con ferite d’arma da fuoco, ha corrisposto alla necessità di verificare le condizione della stessa, onde procedere – o meno – alla sua audizione. Condizione che giustifica il non avere immediatamente attivato la registrazione delle sue dichiarazioni.
In secondo luogo, la Corte territoriale ha escluso che l’avere detto ad COGNOME che avrebbe potuto bere, avere l’ossigeno e recarsi in bagno, ove a vesse ripetuto quanto aveva detto poco prima, lungi dall’integrare tecnica idonea ad influire sulla volontà e libertà di autodeterminazione del medesimo, anzi, abbia semplicemente integrato una modalità organizzativa dell’audizione, priva di ogni profilo vietato.
Tra l’altro, come annota la Corte territoriale (v. p. 23 della sentenza), con la frase « prima ce lo hai detto », è stata recuperata la parte precedente della conversazione, confluita nella prosecuzione del dialogo tra i Carabinieri -regolarmente identificatisi – e la vittima.
Alla luce delle svolte considerazioni, quanto sostenuto dalla difesa appare dunque manifestamente infondato, in quanto smentito dal contenuto motivazionale delle due sentenze di merito.
Anche in ordine al secondo profilo della doglianza, ovvero all’avvenuta registrazione, da parte degli operanti, all’insaputa della persona sentita, la motivazione svolta dai giudici di merito è esauriente e priva di illogicità.
È stato precisato, infatti, che NOME era a perfetta conoscenza della registrazione in atto, come comprovato dall’avere fatto , successivamente, riferimento (in occasione delle sommarie informazioni del 19 maggio) a quanto aveva in precedenza dichiarato, essendo incontestabile e logico ritenere che, se non avesse saputo della registrazione, non avrebbe avuto senso alcuno fare riferimento alle precedenti dichiarazioni.
Del resto, l’ affermazione, in apertura di registrazione, a quanto era stato detto prima, cui gli operanti hanno fatto riferimento, conferma che, proprio a partire da quel momento, si era proceduto alla registrazione e di ciò era stato messo a conoscenza NOME COGNOME
In ogni caso, come ha correttamente aggiunto la Corte territoriale, COGNOME aveva ripetuto analoghe dichiarazioni accusatorie in occasione delle sommarie informazioni del 19 maggio, quando aveva ribadito i nomi dei suoi aggressori, uno dei quali è l’odi erno imputato.
2.3. Il terzo motivo è infondato.
La difesa lamenta violazione, ovvero falsa applicazione, degli artt. artt. 192, 392 e ss. e 500 cod. proc. pen., nonché manifesta illogicità delle motivazioni riservate all’affermazione della responsabilità di COGNOME. Il ricorrente si duole dell’utilizzazione a carico delle dichiarazioni rese dalla vittima nel corso delle indagini, anziché, come sarebbe dovuto avvenire, quelle rese nel
contraddittorio, in incidente probatorio, quando NOME COGNOME aveva detto di non ricordare nulla dell’accaduto, neanche di avere reso dichiarazioni ai Carabinieri ma soltanto che gli era stato chiesto di firmare un verbale. E, in ogni caso, anche per quanto dichiarato nel corso delle indagini, si segnalano contraddizio ni ed aporie, soprattutto circa la circostanza relativa all’avere gli aggressori indossato o meno il passamontagna a copertura del viso.
Osserva questo Collegio, invero, che la logica della motivazione delle due sentenze di merito è lineare, esente da lacune e perfettamente logica, laddove (cfr. p. 26 sentenza di appello), muovendo dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia circa l’origine e il milieu nel quale si colloca l’aggressione, ha sottolineato che l’agguato affondava le radici in una lotta finalizzata alla supremazia su altro clan e in tale contesto andava letta l’apparente incongruenza delle dichiarazioni rese in proposito da coloro che (NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME) in merito alla questione del passamontagna.
Quanto è stato logicamente precisato riguarda il fatto che soltanto NOME COGNOME, molto cautamente, aveva detto che i due aggressori indossavano il passamontagna, aggiungendo di non essere in grado di aggiungere nulla di utile, neppure essendo a conoscenza dell ‘attività svolta dal nipote, vittima dell’agguato.
La moglie NOME COGNOME non aveva riferito nulla in ordine al passamontagna e NOME COGNOME aveva significativamente precisato che gli aggressori non indossavano la mascherina, elemento valorizzato dalle decisioni di merito per concludere che costoro, ad avviso di tale testimone, avevano il viso scoperto.
A fronte del quadro tratteggiato, i giudici di merito hanno concluso per la prevalente attendibilità della testimonianza della vittima, sostanzialmente avvalorate da quelle delle due donne, testimoni oculari dell’agguato, ponendo in secondo piano le informazioni rese dallo zio della persona offesa, le cui lacune e contraddizioni sono state ascritte al contesto camorristico in cui la vicenda si inscrive, ambiente che spiega anche (v. p. 28 della sentenza di appello) quella sorta di senso di colpa, mostrato da NOME COGNOME nel corso del colloquio con il padre, presso la Casa circondariale di Taranto.
Sono stati, del pari, attribuiti a tale contesto i ripensamenti manifestati dalla vittima, allorquando, in sede di incidente probatorio, aveva reso dichiarazioni di segno opposto -tra l’altro, facendo riferimento ad una fantomatica rapina per spiegare l’aggressione subita, di cui non aveva mai parlato prima e mai emersa dalle dichiarazioni dei sommari informatori – alle precedenti. Si tratta di dichiarazioni palesemente inverosimili e inattendibili, laddove il dichiarante , sentito con le formalità previste all’art. 392 e ss. cod. proc. pen., dapprima aveva detto di non avere mai reso alcuna dichiarazione ai
Carabinieri (e ciò, in aperto contrasto con l’evidenza processuale), per poi negare di avere firmato il verbale di audizione, la cui firma aveva sostenuto non gli appartenesse: affermazioni in assoluto contrasto con il contenuto del dialogo con il padre nel corso della visita alla Casa circondariale di Taranto, quando COGNOME gli aveva riferito di essere stato aggredito con arma da fuoco da COGNOME e COGNOME.
La Corte territoriale ha, pertanto, logicamente concluso nel senso che le dichiarazioni rese da NOME nell’immediatezza in merito al riconoscimento di NOME COGNOME quale uno dei suoi aggressori, dello stesso tenore di quanto emerso nel corso dell’incontro con il padre, fossero sufficienti a fornire la prova della responsabilità de ll’imputato, in ossequio al principio giurisprudenziale, condiviso da questo Collegio, secondo cui «Nell’ipotesi di dichiarazioni accusatorie rese in sede di indagini dalla persona offesa e di successiva ritrattazione non inequivocabilmente idonea a svalutarle, il giudice, in sede di giudizio abbreviato, può legittimamente assegnare peso probatorio alle prime dichiarazioni, a condizione che eserciti su queste un controllo più incisivo, possibilmente esteso ai motivi della variazione del dichiarato, potendo anche giungere a ritenere che la ritrattazione inattendibile o mendace si traduce, proprio perché tale, in un ulteriore elemento di conferma delle accuse originarie.» (Sez. 2, n. 4100 del 12/01/2016, COGNOME, Rv. 266424-01).
Ciò che è avvenuto nel caso, alla luce delle puntuali osservazioni e verifiche effettuate in merito alle dichiarazioni della vittima, coinvolta e pressata dalle logiche camorristiche alle quali si erano ispirate dette condotte, altresì chiarito dal fatto che -come da NOME COGNOME precisato -aveva parlato, nella convinzione di essere stato ferito a morte. In definitiva, l’affermazione di colpevolezza riposa saldamente sulla registrazione del colloquio tra la vittima e il padre -elemento che ha pari dignità probatoria delle dichiarazioni rese nell’incidente probatorio – e nel dato logico del contesto insuperabilmente ricostruito dai giudici di merito. Piuttosto, le dichiarazioni chiaramente false rese in sede di incidente confermano e non smentiscono, alla luce degli altri elementi, il contesto camorristico in cui i giudici di merito hanno collocato i fatti.
2.4. Il quarto motivo è infondato.
Il profilo afferente all’assorbimento del reato di detenzione e di porto di arma clandestina è stato affrontato con esaustivi argomenti dalle sentenze di merito, alla luce della mancata allegazione, da parte dell’imputato, di motivi a dimostrazione della coincidenza naturalistica dei due momenti, quello della detenzione con quello del porto che, pertanto, rispondono al criterio logico della priorità temporale della detenzione rispetto al porto.
Ciò, in coerente linea con la consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui, in tema di reati concernenti le armi, il delitto di porto illegale
assorbe per continenza quello di detenzione, escludendone il concorso materiale, solo quando la detenzione dell’arma inizi contestualmente al porto della medesima in luogo pubblico e sussista altresì la prova che l’arma non sia stata in precedenza detenuta (in motivazione, la Corte ha affermato che, in mancanza di alcuna specificazione da parte dell’imputato circa la contemporaneità delle due condotte, il giudice di merito non è tenuto ad effettuare verifiche, potendo attenersi al criterio logico della normale anteriorità della detenzione rispetto al porto: Sez. 1, n. 27343 del 04/03/2021, COGNOME, Rv. 281668-01).
2.5. Il quinto motivo è infondato.
Si deduce violazione circa il riconoscimento della premeditazione, ma anche in relazione a tale profilo, la sentenza impugnata è priva di vizi motivazionali e immune da illogicità manifesta.
È stato affermato che «La circostanza aggravante della premeditazione, oggetto di prova, ex art. 187 cod. proc. pen. e, pertanto, assoggettata alle regole di valutazione stabilite nell’art. 192, comma 2, del codice di rito, può essere dimostrata anche con il ricorso alla prova logica, sulla scorta degli indizi ricavabili dalle modalità del fatto, dalle circostanze di tempo e luogo, dal concorso di più persone con ripartizione dei ruoli e dalla natura del movente.
Non è, invece, necessario stabilire con assoluta precisione il momento in cui è sorto il proposito criminoso o quello in cui l’accordo è stato raggiunto, essendo sufficiente che gli elementi indiziari suddetti siano gravi, precisi e concordanti e che, globalmente valutati, consentano di risalire, in termini di certezza processuale, al requisito di natura cronologica e a quello di natura ideologica, in cui si sostanzia la premeditazione.» (Sez. 5, n. 3542 del 17/12/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275415-01).
Nella specie, oltre alla prova logica, che discende dalle modalità dell’agguato e dalle motivazioni a soste gno, è stato messo in evidenza dai giudici di merito, il contenuto della conversazione tra padre e figlio, all’interno del l’Istituto penitenziario, dalla quale era emerso che l’obiettivo dell’ agguato era NOME COGNOME che aveva avuto uno scambio di battute consistite nel manifestare il proposito di uccidere, ottenendo in risposta l’avvertimento minatorio («Ci vediamo dopo»). Dal che, logicamente, è stato fatto discendere che l’agguato era stato organizzato, persistendone il proposito per un apprezzabile lasso temporale, come risulta, secondo i giudici di merito, dal fatto che gli aggressori erano a conoscenza degli spostamenti della vittima (v. p. 3132, nonché p. 54 della sentenza di primo grado).
Del resto, Il ragionamento svolto in sede di merito appare conforme alla giurisprudenza di legittimità elaborata in tema di omicidio volontario, secondo la quale l’agguato costituisce, in astratto, indice rivelatore straordinario quanto alla circostanza aggravante della premeditazione, perché sinonimo di imboscata o
insidia preordinata che postula un appostamento, protratto per un tempo più o meno lungo, in attesa della vittima designata e in presenza di mezzi e modalità tali da non consentire dubbi sul reale intendimento dell’autore; sicché già il pur breve arco di tempo dell’attesa, può valere a soddisfare gli elementi costitutivi della premeditazione. Si fa riferimento al requisito ideologico, consistente nel perdurare nell’animo del soggetto, senza soluzione di continuità fino alla commissione del reato, di una risoluzione criminosa ferma e irrevocabile, nonché a quello cronologico, rappresentato dal trascorrere di un intervallo di tempo apprezzabile, fra l’insorgenza e l’attuazione di tale proposito, in concreto sufficiente a far riflettere l’agente sulla decisione presa e a consentire il prevalere dei motivi inibitori su quelli a delinquere (tra le altre, Sez. 5, n. 26406 del 11/03/2014, COGNOME, Rv. 260219 – 01).
2.6. Il sesto motivo è infondato.
Circa la circostanza aggravante del metodo mafioso (v. p. 33-35 sentenza di appello, p. 18-40 sentenza di primo grado) si rileva una puntuale motivazione che dà conto della modalità e delle finalità cui l’ azione era preordinata, alla luce della situazione conflittuale all’interno del clan , al fine di conseguirne il dominio, ciò di cui aveva riferito al padre anche la vittima, consapevole del fatto che il bersaglio dell’agguato voluto da NOME COGNOME fosse suo zio NOME COGNOME.
La stretta contiguità familiare tra COGNOME e COGNOME giustifica, secondo la Corte territoriale, la consapevolezza in capo al medesimo di tale finalità, del resto comprovata dalle modalità dell’agguato, come descrit to in motivazione (pag. 34), tali da evocare, nella realtà del paese teatro dell’azione, la forza intimidatrice dell’agire mafioso.
2.7. Le ultime due censure afferenti al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e all’entità della pen a non commisurata al minimo edittale, entrambe manifestamente infondate, possono essere trattate congiuntamente.
Anche con riferimento a tali profili, la sentenza impugnata (v. p. 36) risulta dare piena contezza delle ragioni del diniego delle circostanze di cui all’art. 62 -bis cod. pen., richiamando, in modo logico e non contraddittorio, le caratteristiche dell’azione, concretizzatasi nell’esplosione di un numero di colpi molto elevato, di misura superiore a quello necessario a scopo intimidatorio, che ha prodotto gravi conseguenze sulla vittima. Ragione per la quale anche la misura della pena irrogata è stata ritenuta congrua rispetto alla gravità della condotta e ai suoi effetti, come commisurati sono stati ritenuti gli aumenti per i reati-satellite in materia di armi.
Le ragioni della mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche si traggono dalla lettura complessiva della motivazione della Corte territoriale che si sofferma, in più punti, sulla consistente gravità della condotta in addebito.
Il richiamo alla gravità dei fatti soddisfa lo standard declinato dall’art. 133 cod. pen. (tra le altre, Sez. 1, n. 3155 del 25/09/2013, dep.2014, COGNOME, Rv. 258410) e giustifica, altresì, la negazione delle attenuanti generiche (Sez. 2, n. 24995 del 14/05/2015, COGNOME, Rv. 264378: conf. n. 45623 del 2013, Rv. 257425) trattandosi di un dato polivalente, incidente sui diversi aspetti della valutazione del complessivo trattamento sanzionatorio.
Si impone, quindi, il rigetto del ricorso con la condanna alle spese ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso, il 21 novembre 2024