Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 1680 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 1680 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 15/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME COGNOME nato a Barcellona Pozzo di Gotto il 06/06/1969 avverso la sentenza del 27/02/2024 della Corte di assise di appello di Messina visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito il difensore delle parti civili NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, avv. NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso o, in subordine, il suo rigetto ha depositato conclusioni scritte e nota spese; uditi i difensori del ricorrente, avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME che hanno insistito per l’accoglimento del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di assise di appello di Messina ha parzialmente riformato la sentenza del 24 maggio 2023 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Messina che, all’esito del giudizi
abbreviato, aveva affermato la penale responsabilità di NOME COGNOME e di NOME COGNOME per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., per avere partecipato dal 1989 all’associazione di tipo mafioso denominata Cosa nostra e nello specifico alla famiglia mafiosa dei barcellonesi, operante sul versante tirrenico della Provincia di Messina, con l’aggravante dell’essere l’associazione armata, e la responsabilità del solo NOME COGNOME per il delitto di concorso in omicidio ai danni di NOME COGNOME, con l’aggravante della premeditazione, ed aveva condannato entrambi alle pene ritenute di giustizia ed il solo Messina al risarcimento del danno, da liquidarsi separatamente, in favore dei parenti della vittima, costituitisi parte civile; il Giudice per le indagini preliminari av invece, prosciolto NOME COGNOME dall’imputazione di concorso in omicidio per non aver commesso il fatto.
Più precisamente, la Corte di assise di appello ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di NOME COGNOME per il reato associativo perché estinto per prescrizione, confermando nel resto la sentenza impugnata.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso NOME COGNOME a mezzo dei suoi difensori, ciascuno dei quali ha presentato un autonomo atto di impugnazione, chiedendone l’annullamento ed articolando complessivamente sette motivi di impugnazione.
2.1. Con il primo motivo, corrispondente al primo motivo dell’atto sottoscritto dall’avv. COGNOME lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., la inutilizzabilità degli atti di indagine, in quanto, sebbene dichiarazioni dei collaboratori di giustizia NOME COGNOME e NOME COGNOME fossero a conoscenza della pubblica accusa sin dal 2014 e da essa emergessero elementi di reità a carico dell’imputato, la Procura della Repubblica aveva omesso di iscrivere il nome del Messina nel registro degli indagati ed aveva più volte disposto la archiviazione del procedimento a carico di ignoti e la sua riapertura; in tal modo la Procura della Repubblica aveva eluso le disposizioni relative al termine massimo di durata delle indagini preliminari, avendo proceduto alla iscrizione del Messina nel registro degli indagati solo in data 8 agosto 2020 senza richiedere al giudice competente la autorizzazione alla riapertura delle indagini, cosicché gli atti di indagine svolti dovevano riteners in utilizza bili.
2.2. Con il secondo motivo, corrispondente al secondo motivo dell’atto sottoscritto dall’avv. COGNOME il ricorrente denuncia la mancanza e manifesta illogicità della motivazione.
Sostiene che la Corte di assise di appello si sarebbe limitata a richiamarsi alla motivazione della sentenza di primo grado, senza confrontarsi con le censure
formulate nell’atto di appello, cosicché la motivazione risulta meramente apparente, mancando un nucleo essenziale di argomentazione dal quale possa desumersi che il Giudice di appello, esaminate le censure, abbia fatto proprie le considerazioni svolte dal Giudice di primo grado. Tale carenza sarebbe evidente soprattutto con riguardo alla attendibilità delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia NOME COGNOME e NOME COGNOME in relazione alla specifica posizione dell’imputato.
In particolare, la valutazione del compendio probatorio risulterebbe errata e comunque illogica.
Con l’atto di appello era stato segnalato che la convergenza delle dichiarazioni rese dai due collaboratori di giustizia era la conseguenza della genericità delle loro propalazioni e che i dichiaranti erano inattendibili e le conversazioni intercettate irrilevanti, ma il Giudice di secondo grado non si è confrontato con tali censure, rigettate sulla base di ragionamenti apodittici e privi di logica.
In particolare, nell’appello si era sostenuto che il collaboratore COGNOME che per la conoscenza dei fatti aveva fatto riferimento ad NOME COGNOME, sarebbe stato tratto in inganno da quest’ultimo, come dimostrato dalla circostanza che il collaboratore NOME COGNOME che secondo il racconto del COGNOME avrebbe, in occasione di un confronto con NOME COGNOME avvenuto poco prima dell’omicidio, indicato quest’ultimo ai membri della famiglia mafiosa dei barcellonesi come colui che, insieme allo stesso Siracusa ed a NOME COGNOME aveva realizzato un furto ai danni di una società protetta dal sodalizio mafioso, dando causa alla reazione di quest’ultimo e quindi alla soppressione del COGNOME e di NOME COGNOME – aveva negato di essere a conoscenza delle motivazioni dell’omicidio e di avere appreso solo molto tempo dopo che NOME COGNOME era stato ucciso perché aveva avviato una relazione con la moglie di un esponente di tale sodalizio.
Sul punto la Corte di assise di appello – oltre ad affermare di condividere il ragionamento svolto dal Giudice di primo grado, che aveva sostenuto che il Siracusa era stato reticente sull’omicidio in quanto non voleva far conoscere ai parenti della vittima che la rivelazione, da parte sua, della partecipazione del COGNOME al furto era stata la causa della morte del loro congiunto – ha svolto ulteriori considerazioni, testualmente riportate nel suo atto di impugnazione dal ricorrente, che sostiene che diversi sono i rilievi difensivi trascurati dalla Corte di merito.
Con l’appello era stato evidenziato, in particolare, che mentre il Giudice di primo grado aveva attestato in motivazione che il COGNOME avrebbe affermato in forma dubitativa, sia nel verbale del 12 maggio 1995, sia in quello del 20
novembre 2019, che il confronto tra la vittima ed il Siracusa era avvenuto sul posto dell’omicidio e solo poco prima di questo, in realtà i dubbi erano stati espressi dal collaborante solo in occasione del verbale del 12 maggio 1995 e solo in relazione al confronto, non in relazione alla presenza del Siracusa sul posto in occasione dell’omicidio, commesso alla presenza del Bellinvia, che era la fonte della conoscenza del COGNOME.
Permane, quindi, un insanabile contrasto tra le dichiarazioni di NOME COGNOME che ha negato la sua presenza in occasione dell’omicidio, e quelle del COGNOME. Dal tenore del verbale del 20 novembre 2020 emerge che il COGNOME afferma in modo sicuro di avere appreso dal COGNOME della presenza del COGNOME all’omicidio, anche se poi il COGNOME afferma di non avere un ricordo chiaro, senza tuttavia specificare quale fosse l’oggetto di tale incertezza. Tuttavia, poi aggiungeva il collaborante di ricordare che il Bellinvia gli aveva riferito di un confronto operato in quella circostanza tra il COGNOME ed il Siracusa.
Tale ultima parte delle propalazioni del COGNOME era stata del tutto pretermessa dal Giudice di primo grado e la relativa doglianza, contenuta nell’atto di appello, era stata trascurata.
Il COGNOME, interrogato sulla sorte di NOME COGNOME, aveva affermato di avere saputo che lo avevano fatto «scomparire», senza tuttavia indicare chi fosse stato l’autore dell’omicidio e le sue modalità esecutive e quindi, in sostanza, aveva negato di sapere alcunché del delitto.
Doveva, pertanto, ritenersi che le confidenze del COGNOME al COGNOME fossero fallaci e quindi inattendibili, con la conseguenza che le stesse non potevano valere quale riscontro delle dichiarazioni del COGNOME, costituendo esse l’unico riscontro individualizzante per queste ultime.
Con l’atto si appello si era segnalato anche che il Giudice di primo grado, arrivando a sostenere che secondo il COGNOME il confronto e l’omicidio fossero avvenuti in tempi diversi, aveva affermato, quanto all’attendibilità di Nunziato COGNOME, che: 1) poiché il confronto non era avvenuto il giorno dell’omicidio, il COGNOME non aveva collegato il confronto con la morte del COGNOME, il che conduce al travisamento delle dichiarazioni del COGNOME che aveva affermato che il confronto era avvenuto lo stesso giorno dell’omicidio; 2) che NOME COGNOME ha mentito, negando di avere partecipato al confronto, poiché in occasione di quest’ultimo egli aveva attribuito la responsabilità del furto al COGNOME, determinandone la morte ed aveva interesse a nascondere ai parenti della vittima la sua responsabilità morale per l’omicidio, stante il suo stretto rapporto con la vittima, ma questa ipotesi è puramente congetturale ed illogica, poiché il COGNOME, dopo aver assistito all’omicidio, avrebbe potuto rivelare ai parenti della vittima l’accaduto, onde porre fine alla loro sofferenza; peraltro, con l’atto di
appello si era evidenziato che detto interesse non poteva giustificare la protrazione, da parte di NOME COGNOME fino a ventinove anni dopo l’omicidio della sua condotta menzognera, che metteva a rischio i risultati ottenuti attraverso la collaborazione con l’autorità giudiziaria.
Inoltre, le dichiarazioni di NOME COGNOME, riportate nella sentenza di primo grado, sono riscontrate da quelle di NOME COGNOME, compagna del COGNOME, la quale, oltre a ribadire la stretta amicizia di NOME COGNOME con la vittima, ha riscontrato le dichiarazioni di quest’ultimo, laddove ha negato il confronto, affermando che il COGNOME, al momento della sparizione del COGNOME, si era allontanato da Barcellona Pozzo di Gotto già da diversi mesi.
Anche NOME COGNOME riscontra le dichiarazioni del Siracusa, affermando di non aver potuto parlare con quest’ultimo della scomparsa del COGNOME perché il Siracusa si era da tempo allontanato da Terme Vigliatore.
Sulla base di tali ulteriori elementi di prova, risultano confermate le dichiarazioni del Siracusa e smentite quelle del Bellinvia, riferite dal COGNOME all’autorità giudiziaria, cosicché la motivazione risulta manifestamente illogica.
Peraltro, la attendibilità di NOME COGNOME è stata dichiarata con la sentenza cosiddetta «Gotha 6».
A fronte di un contrasto tra due fonti parimenti attendibili, ossia NOME COGNOME che sarebbe stato presente al fatto, e NOME COGNOME che riferisce circostanze apprese dal Bellinvia, doveva accordarsi preferenza al Siracusa e ritenersi che il COGNOME avesse mentito al COGNOME.
La Corte di merito ha risposto che NOME COGNOME aveva giovato dell’attenuante della collaborazione, non considerando che nel caso di specie non è in discussione l’attendibilità del COGNOME, ma quella della sua fonte di conoscenza, ossia il Bellinvia.
Inoltre, la Corte di assise di appello ha affermato che la difesa dell’imputato non avrebbe fornito alcuna valida ragione in ordine alla menzogna riferita dal COGNOME al COGNOME, ma vi è la prova evidente della menzogna, sulla base delle dichiarazioni rese da NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME e non è onere della difesa spiegarne le ragioni.
La motivazione risulta illogica anche laddove le dichiarazioni del COGNOME non sono state ritenute veritiere per giungere alla condanna dell’COGNOME, che pure era stato indicato come presente all’omicidio ed è stato però assolto da tale imputazione, e sono state invece ritenute attendibili in relazione alla posizione del Siracusa, che è stato condannato.
Le propalazioni di NOME COGNOME rimarrebbero, quindi, il solo elemento di prova a carico del ricorrente, atteso che NOME COGNOME ha riferito quanto appreso dallo stesso NOME COGNOME e da fonte non verificabile, ossia il defunto
NOME COGNOME.
In ogni caso, le dichiarazioni del COGNOME sono inattendibili, atteso che non possono definirsi continue, costanti e coerenti, in quanto le sue dichiarazioni accusatorie emergono da un solo verbale di interrogatorio.
Le dichiarazioni rese nel 2020, ossia a distanza di sei anni della sua collaborazione e di trenta anni dal fatto, sono inutilizzabili per le stesse ragioni per le quali la Corte di merito ha confermato l’assoluzione di NOME COGNOME ossia la impossibilità di escludere interferenze esterne, considerati i periodi di libertà goduti dal COGNOME al quale, in occasione del suo interrogatorio in data 25 settembre 2020, è stata data lettura del verbale del 22 luglio 2024, relativo al solo interrogatorio reso entro centottanta giorni dall’inizio della sua collaborazione in cui egli ha parlato dell’omicidio di NOME COGNOME.
Il COGNOME, nel corso delle sue propalazioni, ha pure modificato il ruolo assunto dal COGNOME nell’omicidio, avendo dapprima affermato che l’imputato aveva prelevato il COGNOME presso la sua abitazione, risultando contraddetto dalle dichiarazioni rese dai familiari della vittima.
Dal verbale del 25 settembre 2020 risulta che il COGNOME ha appreso dal Messina che quest’ultimo aveva prelevato il COGNOME dalla sua abitazione, ma non sa riferire in ordine alla partecipazione dell’COGNOME al delitto.
Risentito il 3 dicembre 2020, egli ha affermato che il Messina e l’Abbate erano entrambi andati a prelevare il COGNOME presso la sua abitazione con due motociclette, delle quali ha specificato marca e modello, precisando che entrambi gli imputati erano ben consapevoli che il COGNOME sarebbe stato ucciso nel luogo dove lo stavano conducendo. Il COGNOME‘COGNOME modifica il momento in cui ha ricevuto dal Messina le sue confidenze, aggiunge altri confidenti e fornisce una causale diversa da quella del Caliri.
Mentre in relazione alla posizione dell’COGNOME le dichiarazioni del COGNOME sono state ritenute inattendibili, le stesse sono state ritenute attendibili quanto alla posizione del ricorrente.
Il ricorrente richiama, quindi, i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in ordine alla valutazione dell’attendibilità frazionata, evidenziando che: 1) le parti del racconto ritenuto attendibile devono essere riscontrate; 2) non vi deve essere interferenza fattuale e logica tra la parte del narrato ritenuto falso o inattendibile e le rimanenti parti del racconto; 3) l’inattendibilità non deve essere talmente macroscopica da compromettere la stessa credibilità del dichiarante; 4) deve essere fornita una puntuale spiegazione delle ragioni per le quali la parte di narrazione che è risultata smentita non è idonea ad inficiare il giudizio positivo sulla credibilità del dichiarante; 6) in caso di chiamata in reità de relato deve essere verificata anche l’attendibilità della fonte diretta.
Sostiene che la Corte di merito non ha rispettato alcuno di detti principi, omettendo di chiarire le ragioni per le quali il COGNOME avrebbe erroneamente accusato NOME COGNOME limitandosi a prendere in considerazione solo le dichiarazioni anteriori a quelle in cui il collaboratore di giustizia ha accusato i predetto ed in particolare quelle del 22 luglio 2014 quando il COGNOME era ancora detenuto; i Giudici di merito, tuttavia, hanno omesso di spiegare le ragioni della inattendibile accusa rivolta all’COGNOME, avvenuta sostenendo che era proprio NOME COGNOME colui che aveva raccontato al COGNOME, subito dopo l’omicidio, della partecipazione dell’COGNOME al delitto.
I giudici del merito non hanno spiegato perché l’inattendibilità dell’accusa all’COGNOME non interferirebbe con le accuse rivolte al Messina, considerato che il COGNOME si riferisce per la conoscenza dei fatti proprio al Messina, che sarebbe quindi attendibile quando accusa se stesso ed inattendibile quando accusa l’COGNOME.
Risulta omessa la valutazione dell’attendibilità di NOME COGNOME quale fonte di conoscenza di quanto dichiarato dal COGNOME.
Inoltre, risultano utilizzate solo le dichiarazioni rese dal COGNOME il 22 luglio 2014 ed il 25 settembre 2020 e trascurate quelle del 3 dicembre 2020, senza che venga chiarito perché l’inattendibilità di queste non sarebbe idonea a travolgere la credibilità del collaborante e delle altre parti del suo racconto.
Sul punto era svolta specifica censura con l’atto di appello.
NOME COGNOME ha dichiarato in data 22 luglio 2014 che NOME COGNOME mentre era con lui a bordo di una jeep di ritorno da un altro delitto, aveva detto che quando, insieme ad altri, aveva trovato quattro cadaveri sepolti in un «cimitero» della ‘ndrangheta, aveva dovuto spostare il corpo del COGNOME, poiché, se lo avessero trovato, avrebbero arrestato NOME COGNOME che «era indagato in prima persona perché era quello che aveva preso COGNOME a casa e poi era scomparso» e che anche il COGNOME, in tale circostanza, gli aveva confermato quanto affermato dall’COGNOME. Tale dichiarazione, segnala il ricorrente, risulta inattendibile, poiché contrasta con l’accertamento, contenuto nella stessa sentenza impugnata, che fu NOME COGNOME e non il Messina che ebbe a prelevare il COGNOME e peraltro quest’ultimo venne prelevato non presso la sua abitazione, ma mentre si trovava a casa di NOME COGNOME.
Che l’COGNOME avesse partecipato all’omicidio del COGNOME era frutto di una deduzione logica del COGNOME, fondata sul rilievo che laddove egli non avesse partecipato all’omicidio, non avrebbe avuto interesse a spostarne il corpo, come si desume dalle dichiarazioni del 22 luglio 2014. Nelle dichiarazioni del COGNOME‘COGNOME del 2020, invece, la partecipazione dell’COGNOME al delitto si trasforma in certezza per il COGNOME, che insiste nel sostenere che il Messina prelevò il COGNOME presso
la sua abitazione.
La costanza e reiterazione delle dichiarazioni del COGNOME sono solo apparenti e comunque esiste una interferenza fattuale e logica tra le dichiarazioni accusatorie a carico dell’COGNOME e quelle a carico del Messina.
La Corte di merito, nel valutare le propalazioni del COGNOME, ha anche omesso di considerare le dichiarazioni di NOME COGNOME, altro collaboratore di giustizia, il quale ha smentito il COGNOME nella individuazione dei responsabili di altro duplice omicidio ai danni di tali COGNOME e COGNOME, mentre, in relazione al medesimo delitto, ha confermato le dichiarazioni del COGNOME, che per la conoscenza del fatti aveva anche in questo caso fatto riferimento al Bellinvia.
Quanto alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME con l’atto di appello si era dedotto che la sua collaborazione era recente e doveva ancora essere vagliata, che egli aveva iniziato a collaborare dopo l’inizio del processo a carico del COGNOME, cosicché la valutazione della sua attendibilità doveva essere particolarmente rigorosa ed approfondita, e che egli aveva fatto riferimento per la conoscenza dei fatti allo stesso NOME COGNOME ed a NOME COGNOME, ormai deceduto.
Sull’attendibilità del COGNOME la Corte di merito si è limitata ad affermare che la circostanza che il COGNOME sia deceduto non vale a far ritenere il collaborante inattendibile, senza affrontare il problema relativo alla circolarità della prova.
Avendo il COGNOME appreso i fatti dal COGNOME, le sue propalazioni non potevano valere a riscontrare le accuse di quest’ultimo.
Non risultano applicati i principi affermati dalle Sezioni Unite nella sentenza «Aquilina», secondo i quali la chiamata in correità o in reità de relato, anche se non asseverata dalla fonte diretta, il cui esame risulti impossibile, può avere come unico riscontro, ai fini della prova della responsabilità penale dell’accusato, altra o altre chiamate di analogo tenore, purché siano rispettate le seguenti condizioni: a) risulti positivamente effettuata la valutazione della credibilità soggettiva di ciascun dichiarante e dell’attendibilità intrinseca di ogni singola dichiarazione, in base ai criteri della specificità, della coerenza, della costanza, della spontaneità; b) siano accertati i rapporti personali fra il dichiarante e la fonte diretta, per inferirne dati sintomatici della corrispondenza al vero di quanto dalla seconda confidato al primo; c) vi sia la convergenza delle varie chiamate, che devono riscontrarsi reciprocamente in maniera individualizzante, in relazione a circostanze rilevanti del thema probandum; d) vi sia l’indipendenza delle chiamate, nel senso che non devono rivelarsi frutto di eventuali intese fraudolente; e) sussista l’autonomia genetica delle chiamate, vale a dire la loro derivazione da fonti di informazione diverse (Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, Aquilina, Rv. 255143).
Peraltro, il COGNOME si era limitato ad affermare di avere appreso dal COGNOME non che il COGNOME aveva partecipato all’omicidio del COGNOME, ma solo che, avendo il COGNOME determinato lo spostamento del cadavere, il COGNOME avrebbe dovuto ringraziarlo, cosicché il COGNOME conferma l’inattendibilità delle dichiarazioni accusatorie del COGNOME, laddove quest’ultimo sostiene che il COGNOME avrebbe partecipato all’omicidio. Il COGNOME non ha mai riferito al COGNOME di avere appreso dal Messina del suo coinvolgimento nel delitto. Peraltro il COGNOME non ha dichiarato all’autorità giudiziaria di avere spostato o fatto spostare il cadavere, cosicché non vi è coincidenza tra il propalato del COGNOME e quello del COGNOME.
Con riferimento a quanto il COGNOME avrebbe appreso da NOME COGNOME quest’ultimo avrebbe riferito al COGNOME solo che in caso di ritrovamento del cadavere del COGNOME NOME COGNOME avrebbe rischiato l’arresto.
Peraltro, la Corte di merito non ha in alcun modo valutato l’attendibilità del COGNOME, sebbene la difesa avesse offerto elementi a sostegno della sua non credibilità, o accertato quali fossero i rapporti tra quest’ultimo ed il COGNOME.
Relativamente alle conversazioni intercettate tra NOME COGNOME zio di NOME COGNOME e il nipote NOME COGNOME e NOME COGNOME il primo si era limitato ad affermare che NOME COGNOME si preoccupava inutilmente circa un suo coinvolgimento nel delitto, poiché il corpo del COGNOME non era mai stato ritrovato e gli inquirenti non avrebbero mai potuto muovergli un’accusa di omicidio; egli, nelle conversazioni, non aveva mai affermato che NOME COGNOME fosse realmente coinvolto nell’omicidio.
2.3. Con il terzo motivo, corrispondente al terzo motivo dell’atto di impugnazione sottoscritto dall’avv. COGNOME, il ricorrente si duole del diniego delle circostanze attenuanti generiche, motivato esclusivamente con un riferimento alla particolare gravità del fatto e non considerando il lungo lasso di tempo trascorso dal delitto, e dell’applicazione dell’aggravante della premeditazione, sostenendo che questa non emerge da alcun elemento di prova.
2.4. Con il quarto motivo, corrispondente al primo motivo dell’atto di impugnazione sottoscritto dall’avv. NOME COGNOME il ricorrente si duole della contraddittorietà della motivazione in relazione a più questioni, a ciascuna delle quali è dedicato un paragrafo del più ampio motivo.
2.4.1. Nel primo paragrafo il ricorrente lamenta la contraddittorietà della motivazione laddove non vengono utilizzati a carico dell’COGNOME gli indizi emersi dalle dichiarazioni rese dai parenti della vittima, dal Messina e dall’COGNOME ed acquisiti nella prima indagine avviata e poi archiviata e vengono utilizzati i medesimi indizi a carico del Messina, sebbene anche quest’ultimo fosse stato sottoposto alle indagini poi archiviate.
2.4.2. Nel secondo paragrafo si eccepisce la inutilizzabilità, ex art. 63 cod.
proc. pen., delle dichiarazioni rese da NOME COGNOME il 9 aprile 1990 quale persona informata sui fatti, con le quali egli rende una versione dei propri spostamenti contrastante con quella di NOME COGNOME.
2.4.3. Nel terzo paragrafo si evidenzia che le dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME contrastano con quelle di NOME COGNOME e sono smentite da quelle di NOME COGNOME.
NOME COGNOME ha dichiarato di avere appreso dell’omicidio di NOME COGNOME da NOME COGNOME, deceduto, e poi da NOME COGNOME, appartenente ad un sodalizio criminale opposto al suo, ma suo confidente. Il Bellinvia gli aveva riferito che il COGNOME era stato ucciso perché autore, unitamente a NOME COGNOME e a NOME COGNOME, di un furto di pneumatici ai danni di una impresa protetta dal gruppo criminale del Bellinvia; secondo quanto affermato da quest’ultimo, il COGNOME era stato prelevato da NOME COGNOME che lo aveva condotto da NOME COGNOME e quindi i tre si sarebbero diretti in località Gala, ove erano attesi da NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e lo stesso NOME COGNOME oltre ad altri soggetti; il COGNOME ha affermato che forse i COGNOME gli aveva riferito che prima di essere ucciso il COGNOME aveva avuto un confronto con NOME COGNOME nello stesso posto in cui era stato commesso l’omicidio.
Secondo NOME COGNOME il Bellinvia non aveva partecipato all’omicidio.
Inoltre, il racconto del COGNOME era contraddetto dalle dichiarazioni del Siracusa. Il ricorrente non mette in dubbio l’attendibilità di entrambi i collaboratori di giustizia, il COGNOME ed il Siracusa, che hanno beneficiato dell’attenuante della collaborazione con sentenza passata in giudicato, ma sostiene che le confidenze effettuate dal COGNOME sono inattendibili, come accertato e confermato nella sentenza qui impugnata (pag. 13), in relazione all’omicidio di NOME COGNOME.
Risulta, quindi, illogica la motivazione della sentenza qui impugnata laddove afferma che le confidenze del Bellinvia sono attendibili.
La motivazione, aggiunge il ricorrente, è illogica anche laddove si afferma che NOME COGNOME sarebbe inattendibile. La illogicità è conseguenza del travisamento dell’interrogatorio di NOME COGNOME, avendo i Giudici del merito ritenuto che egli, nell’interrogatorio del 20 novembre 2019, avesse affermato di essersi trasferito in Liguria dopo la scomparsa del COGNOME, mentre NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno riferito che egli era partito per la Liguria prima della scomparsa della vittima e dunque deve ritenersi che il confronto sia avvenuto prima del giorno dell’omicidio.
In realtà il Siracusa non ha precisato se egli fosse partito prima o dopo l’omicidio. È il Pubblico ministero che ha introdotto una circostanza di fatto mai
menzionata dal collaboratore di giustizia, ossia che quando egli comunicò al padre le sue preoccupazioni per il comportamento degli Ofria, il suo genitore lo mandò in Liguria «anche in considerazione della recente scomparsa del COGNOME». Egli si era recato dall’Ofria per acquistare un motore di un’autovettura dopo la scomparsa del COGNOME e si era insospettito poiché, pur essendo possibile consegnargli immediatamente il motore da lui richiesto, era stato invitato a tornare nel pomeriggio; su suggerimento di suo padre, si era definitivamente trasferito in Liguria, dove lavorava e disponeva di un’abitazione e dalla quale era solito scendere in Sicilia per poi risalire al Nord.
Manifestamente illogica è quindi la affermazione dell’inattendibilità del Siracusa per avere mentito, specie ove si consideri che NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno sostenuto che egli era partito prima dell’omicidio.
In ogni caso il COGNOME ha espressamente negato di avere assistito all’omicidio e le sue dichiarazioni sono riscontrate proprio dai testi appena indicati, mentre il Bellinvia ha affermato che egli era presente.
Costituisce, poi, una mera congettura l’affermazione del Giudice di primo grado secondo la quale il Siracusa avrebbe mentito per non far sapere ai parenti della vittima che il COGNOME era stato ucciso proprio in conseguenza della rivelazione da parte dello stesso Siracusa, in occasione del confronto, che la vittima aveva partecipato al furto degli pneumatici. Peraltro, una sua condotta menzognera sarebbe stata del tutto irrazionale, perché avrebbe potuto mettere a rischio i risultati da lui ottenuti attraverso la sua collaborazione con l’autorit giudiziaria.
2.4.4. Nel quarto paragrafo il ricorrente evidenzia che le dichiarazioni di NOME COGNOME restano prive di riscontro.
NOME COGNOME ha affermato di avere appreso dell’omicidio di NOME COGNOME dallo stesso NOME COGNOME e da un soggetto deceduto NOME COGNOME cosicché le sue dichiarazioni, nella parte in cui si riferiscono allo stesso COGNOME quale fonte di conoscenza, non possono valere come riscontro.
In ogni caso, le dichiarazioni rese da NOME COGNOME non appaiono attendibili, poiché nelle sue iniziali dichiarazioni il collaborante aveva accusato il Messina solo di occultamento di cadavere e solo successivamente lo aveva accusato di avere partecipato all’omicidio, con la conseguenza che le sue dichiarazioni non potevano ritenersi costanti; nel corso del tempo il collaborante ha modificato le fonti da cui avrebbe appreso le circostanze da lui riferite ed anche il ruolo da lui attribuito all’imputato.
Neppure può pervenirsi ad un giudizio di attendibilità frazionata del COGNOME, poiché risulterebbero violati i principi affermati dalle Sezioni Unite nella sentenza «Aquilina» sopra richiamata, in quanto non sono state spiegate le ragioni per le
quali il COGNOME avrebbe falsamente o erroneamente accusato NOME COGNOME
Peraltro, il COGNOME afferma di avere appreso della partecipazione del COGNOME e dell’COGNOME dallo stesso NOME COGNOME il cui racconto, quindi, sarebbe da ritenere attendibile nella parte in cui incolpa se stesso ed inattendibile laddove accusa l’COGNOME.
Non può, quindi, ritenersi che non vi sia interferenza fattuale o logica tra le accuse che il COGNOME rivolge all’COGNOME e quelle a carico del Messina con la conseguenza che non è possibile una loro valutazione frazionata e comunque sulla mancanza di interferenza non vi è motivazione.
Sussiste anche contrasto tra le dichiarazioni rese dal COGNOME in data 3 dicembre 2020 e quelle precedenti.
Nelle dichiarazioni del 22 luglio 2014 il COGNOME ha affermato che il COGNOME era stato prelevato dal Messina presso la sua abitazione e poi condotto nel luogo ove era stato ucciso e che in occasione della conversazione all’interno della jeep NOME COGNOME e NOME COGNOME nel riferirsi all’omicidio, non avevano menzionato altri soggetti. Tali dichiarazioni sono smentite da quelle dei parenti della vittima, che hanno affermato che fu l’COGNOME a prelevare il COGNOME e che egli non fu prelevato presso la sua abitazione, ma a casa di NOME COGNOME.
Nelle dichiarazioni del 25 settembre 2020 il COGNOME, dopo che gli sono state lette le sue precedenti dichiarazioni, afferma che il Messina gli ha confidato di avere prelevato il COGNOME e di averlo portato a coloro che lo avrebbero ucciso, ribadendo di non sapere se l’COGNOME abbia partecipato all’omicidio.
Infine, il 3 dicembre 2020 il COGNOME afferma che il COGNOME venne prelevato presso la sua abitazione dal Messina e dall’Abbate, ciascuno dei quali era a bordo di una motocicletta, e che gli stessi erano consapevoli di condurre la vittima dai suoi carnefici.
Inoltre, il COGNOME fornisce una causale dell’omicidio, la guerra tra clan, diversa da quella indicata dal COGNOME.
La Corte di merito non ha spiegato perché, nonostante detti contrasti, il collaboratore di giustizia sarebbe comunque attendibile.
Tali questioni erano state sollevate con l’atto di appello, ma la Corte di merito è rimasta silente.
Dalle dichiarazioni del 2014 emerge anche che la partecipazione dell’COGNOME all’omicidio non viene da quest’ultimo riferita al COGNOME, ma è lo stesso collaborante che arriva ad affermarla sulla base di una deduzione logica, ossia che l’avere l’COGNOME provveduto a spostare il corpo del COGNOME per nasconderlo alle forze dell’ordine stava necessariamente a significare che egli aveva partecipato all’omicidio, atteso che solo detta partecipazione poteva giustificare un suo interesse allo spostamento del cadavere. Tale sua deduzione contrasta però con
l’affermazione di avere appreso già in precedenza, poco dopo l’omicidio, che il Messina aveva preso parte, insieme all’COGNOME, al delitto.
Infine, il ricorrente evidenzia che il COGNOME, laddove aveva sostenuto di avere partecipato all’omicidio di COGNOME e COGNOME e durante il quale avrebbe ricevuto le confidenze del COGNOME, è stato smentito dal collaborante NOME COGNOME che ha attribuito il duplice delitto ad altri soggetti, senza menzionare il COGNOME.
Anche NOME COGNOME ha affermato di avere appreso dal Bellinvia che i mandanti del duplice omicidio erano gli stessi soggetti indicati dall’Avola, tra i quali non era compreso il COGNOME.
2.4.5. Nel quinto paragrafo il ricorrente affronta la questione relativa alle dichiarazioni rese da NOME COGNOME il 5 aprile 2023.
Evidenzia che le sue dichiarazioni sono successive all’arresto dell’imputato ed alla pubblicazione delle notizie relative alle indagini.
Inoltre, il COGNOME riferisce di avere appreso da NOME COGNOME e NOME COGNOME le circostanze relative all’omicidio; di conseguenza, le sue dichiarazioni non possono fungere da riscontro a quelle del COGNOME; a tale proposito il ricorrente richiama i principi affermati dalle Sezioni Unite nella sentenza «Aquilina» sopra richiamata, secondo la quale la chiamata in correità o in reità de relato, anche se non asseverata dalla fonte diretta, il cui esame risulti impossibile, può avere come unico riscontro, ai fini della prova della responsabilità penale dell’accusato, altra o altre chiamate di analogo tenore, purché siano rispettate le seguenti condizioni: a) risulti positivamente effettuata la valutazione della credibilità soggettiva di ciascun dichiarante e dell’attendibilità intrinseca di ogni singola dichiarazione, in base ai criteri della specificità, dell coerenza, della costanza, della spontaneità; b) siano accertati i rapporti personali fra il dichiarante e la fonte diretta, per inferirne dati sintomatici de corrispondenza al vero di quanto dalla seconda confidato al primo; c) vi sia la convergenza delle varie chiamate, che devono riscontrarsi reciprocamente in maniera individualizzante, in relazione a circostanze rilevanti del thema probandum; d) vi sia l’indipendenza delle chiamate, nel senso che non devono rivelarsi frutto di eventuali intese fraudolente; e) sussista l’autonomia genetica delle chiamate, vale a dire la loro derivazione da fonti di informazione diverse (Sez. U., n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 255143).
Peraltro, il COGNOME ha affermato di avere appreso dal COGNOME solo che quest’ultimo aveva determinato lo spostamento del cadavere del COGNOME prima che venisse scoperto dall’autorità giudiziaria e che il Messina per tale spostamento avrebbe dovuto ringraziarlo. Il COGNOME, invece, non ha dichiarato di avere disposto lo spostamento, ma solo che questo era stato attuato
direttamente dall’COGNOME e dal Messina, il quale non aveva, quindi, alcun motivo di ringraziarlo.
Tale divergenza trova causa nel fatto che le dichiarazioni del COGNOME erano state mal riportate dalla stampa, come emerge anche dalla copia di un quotidiano prodotto dalla difesa del Messina nel corso del giudizio di primo grado, ed il COGNOME si è limitato a fare proprio tale errore, ripetendolo nelle sue dichiarazioni all’autorità giudiziaria.
Per affermare la veridicità delle dichiarazioni del COGNOME, il Giudice di primo grado ha affermato che egli non si era fatto suggestionare dalle dichiarazioni del COGNOME riportate dalla stampa che accusavano anche NOME COGNOME ma il Giudice non ha considerato che quando il COGNOME è stato interrogato, l’COGNOME era già stato scarcerato dal Tribunale del riesame.
Neppure la Corte di merito ha affrontato il tema dell’attendibilità del COGNOME, fonte di riferimento del Micale. Risulta, anzi, che il COGNOME aveva riferito al Micale che il Messina e l’COGNOME avevano svolto un servizio di vigilanza armata in occasione del matrimonio del COGNOME, venendo sul punto smentito dai verbali relativi ai servizi di osservazione, pedinamento e controllo svolti dalle forze dell’ordine.
2.4.6. Nel sesto paragrafo, relativo alle conversazioni intercettate tra NOME COGNOME, zio di NOME COGNOME e NOME COGNOME e NOME COGNOME il ricorrente sostiene che si tratti di meri pettegolezzi non aventi valore probatorio; né il Giudice di primo grado poteva dolersi della circostanza che NOME COGNOME non proclami la innocenza del nipote. La stessa Corte di merito non attribuisce a tali conversazioni il valore di riscontro alle dichiarazioni dei collaboratori giustizia.
2.5. Con il quinto motivo, corrispondente al secondo motivo dell’atto di impugnazione sottoscritto dall’avv. NOME COGNOME il ricorrente lamenta la carenza di motivazione in ordine al rigetto del motivo di appello con il quale si chiedeva l’esclusione dell’aggravante della premeditazione. Si sottolinea che essa non emerge dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia diversi dal COGNOME, da ritenersi inattendibile in relazione a quanto riferito nel secondo e nel terzo verbale di interrogatorio; anche il COGNOME fonte di conoscenza del COGNOME, è smentito dalle dichiarazioni del Siracusa.
2.6. Con il sesto motivo, corrispondente al terzo motivo dell’atto di impugnazione sottoscritto dall’avv. NOME COGNOME il ricorrente si duole della carenza di motivazione in ordine alla estinzione per prescrizione del reato associativo anche in relazione alla sua posizione; il collaboratore NOME COGNOME ha affermato che il Messina si era «messo da parte» già nel 2009 e non è smentito da alcuna prova contraria.
2.7. Con il settimo motivo, corrispondente al quarto motivo dell’atto di impugnazione sottoscritto dall’avv. NOME COGNOME il ricorrente eccepisce la carenza di motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
La Corte di merito, sul punto, si è limitata ad affermare che dagli atti non emerge alcun elemento utile ai fini della loro concessione, in tal modo omettendo di confrontarsi con le specifiche deduzioni contenute nell’atto di appello.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Il termine di durata delle indagini preliminari decorre dalla data in cui il pubblico ministero ha iscritto, nel registro delle notizie di reato, il nome della persona cui il reato è attribuito, senza che al giudice per le indagini preliminari sia consentito stabilire una diversa decorrenza, sicché gli eventuali ritardi indebiti nella iscrizione, tanto della notizia di reato che del nome della persona cui il reato è attribuito, pur se abnormi, sono privi di conseguenze agli effetti di quanto previsto dall’art. 407, comma 3, cod. proc. pen., fermi restando gli eventuali profili di responsabilità disciplinare o penale del magistrato del P.M. che abbia ritardato l’iscrizione (Sez. U, n. 40538 del 24/09/2009, COGNOME, Rv. 244376).
La censura contenuta nel primo paragrafo del quarto motivo, con il quale il ricorrente si duole contraddittorietà della motivazione, per avere la Corte di assise di appello ritenuto probanti nei suoi confronti le sommarie informazioni rese dai parenti della vittima, valutandole invece inidonee a sostenere l’accusa nei confronti del coimputato COGNOME, è manifestamente infondato.
La Corte di assise di appello, al pari del giudice di primo grado, ha ritenuto che le dichiarazioni dei parenti della vittima non fossero idonee, sia pure unite agli altri elementi di prova a carico dell’COGNOME, a giustificare una pronuncia di condanna in virtù della diversità della posizione dell’COGNOME rispetto a quella dell’odierno ricorrente. Tale diversità trova causa, secondo i Giudici del merito, nella inattendibilità delle sole dichiarazioni rese dal COGNOME in data 3 dicembre 2020, le sole in cui quest’ultimo accusa l’COGNOME dell’omicidio, e quindi nell’inidoneità delle stesse a valere quale riscontro alle dichiarazioni di COGNOME NOME, mentre il COGNOME sarebbe attendibile laddove, nelle propalazioni anteriori a quelle del 3 dicembre 2020, avrebbe costantemente accusato il COGNOME.
Non è quindi ravvisabile alcuna illogicità o contraddizione, atteso che la
diversa valutazione delle prove discende dalla ritenuta inattendibilità delle sole dichiarazioni in cui il COGNOME accusa l’COGNOME.
3. È, invece, fondata la censura, contenuta nel secondo paragrafo del quarto motivo, con la quale si deduce l’inutilizzabilità, ex art. 63 cod. proc. pen., delle sommarie informazioni rese in data 9 aprile 1990 dall’odierno ricorrente ai Carabinieri della Stazione di Barcellona.
La Corte di merito, per rigettare l’appello di NOME COGNOME ha utilizzato, quale elemento di natura indiziaria a suo carico (vedi pag. 28 della motivazione della sentenza di secondo grado), la «posizione ambigua assunta dal COGNOME e dall’COGNOME» ed in particolare la «circostanza che essi abbiano reso ai Carabinieri, in sede di sommarie informazioni, versioni tra loro decisamente incompatibili in ordine ai loro movimenti nelle ultime ore in cui il COGNOME NOME fu visto» (vedi pag. 30 della motivazione di secondo grado); la Corte di assise di appello afferma che i primi elementi di sospetto a carico dell’Abbate e del Messina sono sorti proprio dalla contraddizione tra le versioni dei fatti da essi raccontate alla polizia giudiziaria.
Ai sensi dell’art. 53, comma 1, cod. proc. pen., se davanti all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria una persona non imputata ovvero una persona non sottoposta alle indagini rende dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico, l’autorità procedente ne interrompe l’esame, avvertendola che a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti e la invita a nominare un difensore di fiducia e le precedenti dichiarazioni non possono essere utilizzate «contro la persona che le ha rese».
Da tale ultimo inciso si ricava che le precedenti dichiarazioni possono essere utilizzate contro altri soggetti imputati o indagati.
Le dichiarazioni rese innanzi alla polizia giudiziaria da una persona non sottoposta ad indagini, ed aventi carattere autoindiziante, non sono utilizzabili contro chi le ha rese ma sono pienamente utilizzabili contro i terzi, in relazione ai quali non opera la sanzione processuale di cui all’art. 63, comma 1, cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 5823 del 26/11/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 280640).
L’art. 63, comma 2, cod, proc. pen. esclude, invece, che le precedenti dichiarazioni possano essere utilizzate contro soggetti diversi dal dichiarante se quest’ultimo avrebbe dovuto essere sentito sin dall’inizio quale imputato o indagato, a prescindere dal dato formale della sua iscrizione nel registro degli indagati.
Orbene, nel caso di specie, applicando i principi sopra esposti, deve concludersi che sono utilizzabili a carico di NOME COGNOME le dichiarazioni rese dal coimputato COGNOME quando quest’ultimo è stato sentito quale persona
informata dei fatti, atteso che, secondo quanto affermato dalla Corte di merito, ancora non erano emersi a carico di NOME COGNOME concreti indizi di reità.
Del resto, neppure il ricorrente contesta tale conclusione, atteso che egli si duole, in realtà, dell’utilizzazione contro se stesso delle proprie dichiarazioni rese quale persona informata dei fatti.
La Corte di assise di appello, onde affermare l’utilizzabilità a carico di NOME COGNOME delle dichiarazioni da lui rese quando è stato sentito a sommarie informazioni, invoca i principi affermati dalle Sezioni Unite con la sentenza «Lo Presti», secondo la quale, in virtù del principio di conservazione degli atti e della regola, ad esso connessa, del tempus regit actum, sono legittimamente utilizzabili le dichiarazioni del soggetto che, al momento della deposizione, rivestiva ancora e soltanto lo status di persona informata sui fatti, a nulla rilevando, in contrario, la circostanza che abbia successivamente assunto la condizione di indagato o di imputato (Sez. U, n. 33583 del 26/03/2015, COGNOME, Rv. 264482).
La Corte di merito trascura di considerare che il precedente richiamato riguarda il valore probatorio di una deposizione testimoniale, ossia di una dichiarazione resa da un soggetto necessariamente terzo rispetto al soggetto a carico del quale si vogliono utilizzare le dichiarazioni rese in qualità di testimone.
Nel caso che ci occupa, invece, vengono in rilievo le dichiarazioni rese da un soggetto nel medesimo procedimento penale nell’ambito del quale egli ha, in un momento successivo a quello in cui le dichiarazioni sono state rese, assunto la qualità di indagato e poi di imputato.
Il discrimine tra dichiarazioni rese agli inquirenti quando il dichiarante non aveva ancora assunto la posizione sostanziale di indagato e dichiarazioni rese in un momento successivo rileva solo ai fini dell’utilizzabilità delle propalazioni a carico dei terzi.
L’utilizzabilità GLYPH delle GLYPH dichiarazioni GLYPH rese GLYPH dall’indagato GLYPH nell’ambito GLYPH del procedimento in un momento anteriore all’assunzione sostanziale di tale qualità è disciplinata dal comma 1 dell’art. 63 cod. proc. pen. che esclude che tali dichiarazioni possano essere utilizzate a carico del medesimo indagato.
Tale disposizione, peraltro, non limita la inutilizzabilità a carico dell’indagato dichiarante alle sole dichiarazioni autoindizianti che valgono a far sorgere, per gli inquirenti, l’obbligo di avvisare l’indagato che potranno essere avviate indagini nei suoi confronti e di invitarlo a nominare un difensore, ma ha ad oggetto tutte le dichiarazioni anteriori.
Essa costituisce attuazione del generale principio nemo tenetur se detegere, in forza del quale nessuno può essere costretto a rendere dichiarazioni autoaccusatorie.
Né può trovare applicazione nel caso di specie l’art. 350, comma 7, cod. proc. pen.
Nel giudizio abbreviato sono utilizzabili a fini di prova le dichiarazioni spontanee rese dalla persona sottoposta alle indagini alla polizia giudiziaria, perché l’art. 350, comma 7, cod. proc. pen. ne limita l’inutilizzabilità esclusivamente al dibattimento (Sez. 5, n. 32015 del 15/03/2018, COGNOME, Rv. 273642), ma la disposizione appena citata disciplina le dichiarazioni spontanee rese dall’imputato o dIall’indagato, mentre nel caso di specie, sulla base della motivazione rese dalla Corte di merito, NOME COGNOME quando è stato sentito dai Carabinieri, non aveva ancora assunto, né formalmente né sostanzialmente, la veste di indagato e comunque deve trattarsi di dichiarazioni spontanee, non potendo l’indagato, in applicazione del principio sopra indicato, essere costretto a rendere dichiarazioni autoaccusatorie, mentre nel caso in esame NOME COGNOME ha reso dichiarazioni quale persona informata dei fatti su sollecitazione dei Carabinieri, che lo avevano convocato presso i propri uffici per rivolgergli le domande sulle circostanze di loro interesse.
L’inutilizzabilità a carico di NOME COGNOME delle dichiarazioni da lui rese quale persona informata dei fatti alla polizia giudiziaria non avrebbe consentito alla Corte di assise di appello di affermare che vi fosse un contrasto tra la sua versione dei fatti e quella, pienamente utilizzabile, riferita da NOME COGNOME atteso che a tal fine è necessario operare un raffronto tra il contenuto delle dichiarazioni rese da NOME COGNOME e quello delle sommarie informazioni testimoniali di NOME COGNOME, che è invece precluso a causa dell’inutilizzabilità delle prime.
Ne deriva che le dichiarazioni rese da NOME COGNOME sono assolutamente inutilizzabili a carico del predetto e che il contrasto tra le versioni rese dai du imputati nel corso delle indagini non può essere utilizzato quale indizio utile a riscontrare le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.
Il secondo motivo di ricorso e le censure contenute nel terzo, nel quarto, nel quinto e nel sesto paragrafo del quarto motivo, che possono essere trattati congiuntamente in quanto strettamente connessi, perché tutti diretti a mettere in evidenza la carenza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione della sentenza di secondo grado in ordine all’affermazione della penale responsabilità del ricorrente per il delitto di concorso in omicidio, sono fondati nei limiti e per le ragioni di seguito esposte.
4.1. Secondo la motivazione della sentenza di primo grado, la prova della responsabilità di NOME COGNOME dovrebbe ricavarsi dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME che a sua volta, per la conoscenza
dei fatti si riferisce a NOME COGNOME e ad NOME COGNOME che apparteneva alla cosca dei Barcellonesi’ contrapposta a quella del COGNOME, ma era solito confidarsi con quest’ultimo su quanto avveniva all’interno del suo clan.
Secondo quanto riportato dal collaborante COGNOME, NOME COGNOME gli aveva riferito che NOME COGNOME era stato ucciso dai «barcellonesi», perché, unitamente a NOME COGNOME e a NOME COGNOME, aveva commesso il furto di un camion carico di pneumatici ai danni della impresa gestita dai fratelli COGNOME.
Successivamente il COGNOME aveva ricevuto informazioni sull’omicidio anche da NOME COGNOME che, oltre a confermargli la causale del delitto, aveva aggiunto di avere preso parte all’omicidio, raccontandogli ulteriori dettagli. NOME COGNOME era stato prelevato a casa di un suo compare, presso il quale si trovava unitamente alla famiglia, da tale COGNOME un affiliato alla famiglia dei barcellonesi, su incarico di NOME COGNOME il capo dei barcellonesi; i due si erano poi recati da NOME Messina e i tre si erano recati in INDIRIZZO di Barcellona, ove erano attesi da NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, dallo stesso Bellinvia e da altri soggetti. Al COGNOME era stato, quind contestato il furto degli pneumatici e sebbene egli avesse negato l’addebito, era stato comunque ucciso poiché coloro che lo avevano atteso in quel luogo per ucciderlo già sapevano con certezza della sua partecipazione al furto, che gli era stata confermata da NOME COGNOME che si era salvato affermando che egli non era a conoscenza della circostanza che i fratelli COGNOME godessero della protezione della famiglia mafiosa.
Il COGNOME afferma la sentenza di primo grado, ha anche aggiunto di ricordare, sia pure non in modo «chiaro», che il Bellinvia gli aveva riferito che il COGNOME era stato sottoposto ad un vero e proprio confronto con il Siracusa sul luogo dell’omicidio; in seguito, anche NOME COGNOME aveva subito la stessa sorte del COGNOME.
Già nel corso del giudizio di primo grado la difesa del ricorrente aveva evidenziato che il racconto del COGNOME, riportato dal COGNOME, si poneva in contrasto con le dichiarazioni di NOME COGNOME anch’egli divenuto collaboratore di giustizia, l’attendibilità del quale era stata accertata in numerosi processi.
Nella sentenza di primo grado si legge che il Siracusa ha spiegato che egli, unitamente a NOME COGNOME, NOME COGNOME e a NOME COGNOME, era solito commettere rapine per conto della famiglia mafiosa e che nel 1990 aveva saputo che NOME COGNOME era cercato dai suoi familiari; egli non aveva chiesto se la scomparsa del COGNOME fosse ascrivibile al clan dei barcellonesi, ma un episodio aveva destato in lui forte preoccupazione e lo aveva indotto ad allontanarsi da Barcellona. Una mattina, avendo la necessità di acquistare un
motore usato per un’automobile, aveva contattato NOME COGNOME titolare di un’impresa di autodemolizioni e appartenente alla famiglia mafiosa, il quale aveva affermato di avere la disponibilità del pezzo di ricambio, ma di poterglielo consegnare solo nel pomeriggio dello stesso giorno; tale comportamento aveva allertato il Siracusa che aveva confidato i suoi timori a suo padre, il quale, atteso che anche NOME COGNOME era scomparso, gli aveva consigliato di recarsi a Rapallo, dove la sua famiglia già disponeva di un’abitazione. Egli aveva accolto il consiglio, trasferendosi a Rapallo e facendo ritorno di tanto in tanto a Terme Vigliatore. Aveva in seguito appreso dai sodali NOME COGNOME e NOME COGNOME che l’avevano invitato a non interessarsi della vicenda, che l’omicidio trovava causa nella relazione allacciata da NOME COGNOME con la moglie di NOME COGNOME, altro esponente del clan dei barcellonesi.
Mentre il Bellinvia colloca NOME Siracusa sul luogo dell’omicidio di NOME COGNOME e riferisce, sia pure in modo non certo, di un confronto tra Nunziato Siracusa e a vittima prima che questa venisse soppressa, Nunziato Siracusa esclude la verità di tali circostanze.
Il Giudice di primo grado, nel tentativo di rendere compatibili le propalazioni del Caliri con quelle del Siracusa, dapprima colloca il confronto tra in un momento anteriore ma prossimo alla esecuzione del delitto, ma il contrasto rimane, poiché il Sirac:usa non parla affatto del confronto e sostiene di non avere in alcun modo preso parte al delitto, essendo venuto a conoscenza della scomparsa di NOME COGNOME solo dopo che i suoi parenti avevano iniziato a cercarlo, e poi, consapevole dell’incompatibilità tra le propalazioni dei due collaboratori, arriva a sostenere che NOME COGNOME era stato reticente, in quanto intenzionato a celare ai parenti della vittima, di cui era intimo amico, di averlo incolpato del furto cagionandone indirettamente la morte.
Tale conclusione sarebbe avvalorata dalle dichiarazioni di NOME COGNOME, compagna di NOME COGNOME, la quale ha segnalato che NOME COGNOME si era allontanato da Barcellona già da prima della sparizione della vittima e neppure si era fatto sentire con i suoi parenti, pur essendo stato da loro informato della sua scomparsa.
Con l’atto di appello l’odierno ricorrente aveva sostenuto che la falsità del racconto che NOME COGNOME aveva riportato a NOME COGNOME emergeva chiaramente dalle dichiarazioni di Nunziato COGNOME la cui credibilità risultava ormai verificata all’esito di numerosi processi avviati a seguito della sua collaborazione e che, in ogni caso, dal racconto del COGNOME riferito da NOME COGNOME emergeva con chiarezza che il primo gli aveva dato per certa la circostanza che il Siracusa fosse stato presente sul luogo ove NOME COGNOME era stato ucciso e che l’omicidio era stato eseguito subito dopo il
confronto, mentre il Giudice di primo grado aveva travisato le dichiarazioni del COGNOME. Con il suo gravame l’odierno ricorrente aveva anche evidenziato che, contrariamente a quanto sostenuto dal Giudice di primo grado, le dichiarazioni rese dai parenti della vittima si ponevano anch’esse in contrasto con il racconto del Bellinvia, atteso che secondo costoro il Siracusa si era allontanato da Barcellona già da prima della scomparsa del loro congiunto, mentre per il Bellinvia e secondo la ricostruzione operata dal Giudice di primo grado il confronto tra la vittima ed il Siracusa si collocherebbe in un momento anteriore ma prossimo alla scomparsa del COGNOME.
La Corte di merito, ribadendo il contenuto della motivazione della sentenza di primo grado, ha affermato che anche il COGNOME era un collaborante di provata affidabilità (mentre l’appellante non aveva contestato la attendibilità del collaborante, ma quella della sua fonte, il COGNOME, segnalando anche che le confidenze rese da quest’ultimo al COGNOME erano state smentite da NOME COGNOME che, avendo partecipato all’omicidio di NOME COGNOME, aveva negato la partecipazione al delitto, quale esecutore, di NOME COGNOME affermata invece dal Bellinvia) e che in relazione all’omicidio di NOME COGNOME le dichiarazion di NOME COGNOME erano contraddette da quelle dei parenti della vittima, che avevano affermato che egli si era allontanato già prima della scomparsa del suo amico, ma non ha affrontato le censure formulate con l’atto di appello con le quali si sosteneva che, secondo il racconto reso dal Bellinvia al COGNOME, NOME COGNOME era stato presente all’omicidio, avvenuto subito dopo il confronto, e che non era verosimile che questo fosse avvenuto a distanza di molto tempo dal confronto.
Peraltro, laddove il Giudice di primo grado afferma che il contrasto tra il racconto del Bellinvia e quello del Siracusa andrebbe risolto facendo prevalere il primo, egli sostiene che tale conclusione troverebbe giustificazione nell’esigenza del Siracusa di nascondere ai parenti della vittima la sua responsabilità morale per la soppressione del loro congiunto, responsabilità che dovrebbe ricavarsi proprio dalla partecipazione del Siracusa a detto confronto che è invece un dato non accertato, in quanto viene riferito esclusivamente dal Bellinvia, la cui credibilità è da dimostrare.
Peraltro, come osservato dal ricorrente, la credibilità del Bellinvia non può logicamente trovare riscontro nelle dichiarazioni dei parenti della vittima, atteso che NOME COGNOME, sentita in data 30 aprile 1990, afferma che NOME Siracusa si era allontanato da Barcellona già diversi mesi prima; la scomparsa di NOME COGNOME è avvenuta in data 8 aprile 1990, cosicché se, come evidenziato dai giudici del merito, il Siracusa si era allontanato già diversi mesi prima dal territorio di Barcellona, egli non solo non poteva essere stato presente al
momento dell’omicidio, ma neppure poteva aver preso parte al confronto che il Giudice di primo grado colloca temporalmente in un momento anteriore ma prossimo alla soppressione del COGNOME. Paradossalmente, proprio le dichiarazioni dei parenti della vittima valgono a riscontrare quelle del Siracusa, laddove quest’ultimo nega di avere assistito all’omicidio o di avere partecipato, nella sua imminenza, ad un confronto con la vittima.
Né in questa sede può essere invocata un’efficacia vincolante della sentenza di questa Corte di cassazione che ha deciso a seguito di ricorso di NOME COGNOME avverso il provvedimento del Tribunale del riesame che ha confermato l’ordinanza che ha applicato la misura cautelare personale.
La precedente sentenza di questa Corte di cassazione che è intervenuta nel corso del procedimento è stata emesse a seguito di impugnazione di ordinanza del Tribunale del riesame, ossia in una fase diversa da quella del giudizio, cosicché essa non poteva vincolare il Giudice dell’udienza preliminare prima e la Corte di assise di appello poi all’applicazione di alcun principio di diritto.
L’obbligo di uniformarsi, nella valutazione del materiale probatorio, alla sentenza di annullamento con rinvio pronunciata della Corte di cassazione sussiste, ai sensi dell’art. 627, comma 3, cod. proc. pen., solo per il giudice del rinvio e non anche per i giudici che, sia pure nel medesimo processo, siano chiamati a trattare distinte fasi o gradi dello stesso (Sez. 3, n. 23052 del 23/04/2013, S., Rv. 256170, che ha escluso la violazione di legge nell’ipotesi di sentenza di condanna emessa senza attendere il deposito della motivazione con la quale la Corte aveva annullato, rinviando al Tribunale del Riesame, il provvedimento di conferma di custodia cautelare in carcere, rilevando la carenza di motivazione in ordine alla valutazione degli elementi di fatto posti a fondamento della misura; vedi pure Sez. 1, n. 18215 del 11/12/2018, dep. 2019, Ammendola, Rv. 276527).
Peraltro, mentre ai fini della conferma del provvedimento cautelare personale è sufficiente che ricorrano gravi indizi di colpevolezza, ai fini della condanna è richiesta la prova della penale responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio, ossia la applicazione di un canone di valutazione probatoria ben più rigoroso.
Né l’obiezione sollevata dalla difesa del ricorrente, che ha segnalato che in altro processo per l’omicidio di NOME COGNOME il racconto del COGNOME è risultato del tutto smentito da quello del collaborante NOME COGNOME che ha escluso la partecipazione di NOME COGNOME quale esecutore, può essere superata facendo riferimento alla comprovata attendibilità di NOME COGNOME poiché in questa sede non rileva l’attendibilità di quest’ultimo, ma quella della sua fonte di riferimento.
I giudici del merito avrebbero dovuto valutare anche la attendibilità di NOME COGNOME in applicazione del principio affermato dalla sentenza delle Sezioni Unite «COGNOME», secondo la quale è necessario che siano accertati i rapporti personali fra il dichiarante e la fonte diretta, per inferirne sintomatici della corrispondenza al vero di quanto dalla seconda confidato al primo (Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 255141).
Sul punto la Corte di merito si è limitata ad affermare che non sono emerse ragioni per le quali il COGNOME avrebbe dovuto mentire a NOME COGNOME omettendo di motivare, come si è già detto, in ordine alla inattendibilità, dedotta dal ricorrente sulla base dell’esito del processo «RAGIONE_SOCIALE», delle dichiarazioni rese dal COGNOME al COGNOME in ordine alla partecipazione di NOME COGNOME all’omicidio di NOME COGNOME.
4.2. La Corte di assise di appello, confermando il ragionamento già esplicitato dal Giudic:e di primo grado, ha ritenuto di accordare prevalenza al racconto del Bellinvia, riportato dal COGNOME, anche perché ritenuto riscontrato, quanto alla partecipazione di NOME COGNOME dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME.
Dalla sentenza di primo grado emerge che quest’ultimo ha reso dichiarazioni sul delitto in tre diverse occasioni e precisamente in data 22 luglio 2014, in data 25 settembre 2020 ed in data 3 dicembre 2020.
In data 22 luglio 2014, nel periodo di centottanta giorni dall’inizio della su collaborazione, NOME COGNOME ha riferito che l’omicidio fu argomento di conversazione mentre egli era con NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME a bordo del fuoristrada di quest’ultimo, subito dopo la consumazione del duplice omicidio, avvenuto il 21 gennaio 1992, ai danni di NOME COGNOME e NOME COGNOME presso il cimitero di Barcellona Pozzo di Gotto. In tale occasione il COGNOME avrebbe rivolto allo COGNOME, con tono canzonatorio, la frase «ti scanti pure dei morti ora!», perché l’COGNOME si era rifiutato di frugare ne tasche dei pantaloni dei cadaveri per trovare le chiavi delle loro automobili onde sportarle e poi bruciarle; l’COGNOME aveva replicato affermando di avere dimostrato il proprio coraggio quando, dopo che i Carabinieri avevano trovato, in data 7 agosto 1991, quattro cadaveri sotterrati in località Migliardo, non aveva esitato a recarsi sul luogo per spostare il cadavere del COGNOME, che era stato sepolto nella stessa località, onde evitare che fosse rinvenuto e che NOME COGNOME venisse arrestato quale responsabile; era allora intervenuto nella discussione NOME COGNOME che aveva confermato che il cadavere era stato spostato «sennò mi attaccavano». Entrambi i Giudici di merito affermano che dalla conversazione emerge che NOME COGNOME ha confermato sia lo spostamento del cadavere, sia la sua partecipazione all’omicidio di NOME COGNOME.
Il COGNOME ha spiegato la frase «sennò mi attaccavano» da lui attribuita a NOME COGNOME affermando che poiché era stato lui a prelevare il COGNOME dalla sua abitazione e portarlo nel luogo ove era stato ucciso, il ritrovamento del cadavere avrebbe consentito agli inquirenti di procedere nei suoi confronti per il reato di omicidio; tuttavia, ha cura di precisare il Giudice di primo grado, questa è una spiegazione che non gli è stata riferita dai suoi compagni di viaggio, ma è stata elaborata dal COGNOME sulla base delle informazioni di cui egli disponeva.
Il movente dell’omicidio del COGNOME viene dal COGNOME ricondotto alla guerra in corso tra gli esponenti del gruppo criminale capeggiato da NOME COGNOME, suocero di NOME COGNOME e la famiglia dei barcellonesi ed alla circostanza che egli fosse da questi, sia pure erroneamente, ritenuto, assieme a NOME COGNOME un «chiofaliano».
Nel corso delle dichiarazioni rese da NOME COGNOME il 25 settembre 2020 il collaborante si limita ad affermare di non ricordare che NOME COGNOME avesse avuto un ruolo nell’omicidio di NOME COGNOME.
Tuttavia, in data :3 dicembre 2020, appena pochi mesi dopo il secondo interrogatorio, NOME COGNOME afferma che gli sono affiorati alla mente alcuni ricordi di cui si era dimenticato in occasione dell’interrogatorio del 22 luglio 2014. Più specificamente, ha dichiarato il COGNOME di essere assolutamente certo che, sia nell’immediatezza dell’omicidio, sia in occasione della conversazione avvenuta immediatamente dopo il duplice omicidio avvenuto il 21 gennaio 1992, NOME COGNOME aveva riferito c:he NOME COGNOME era stato prelevato presso la sua abitazione dallo stesso Messina e da NOME COGNOME a bordo di due motociclette Yamaha ed entrambi lo avevano condotto nel luogo ove era stato ucciso ed entrambi sapevano, in tale frangente, che il COGNOME sarebbe stato poi ucciso.
I Giudici del merito hanno ritenuto non attendibili le dichiarazioni rese dal COGNOME in data 3 dicembre 2020 – in quanto nettamente contrastanti sia con le precedenti dichiarazioni dello stesso collaboratore di giustizia, sia con le dichiarazioni, ritenute assolutamente attendibili, dei parenti della vittima, che hanno riferito che la vittima venne prelevato esclusivamente da NOME COGNOME, ma hanno ritenuto pienamente attendibili le altre, affermando di applicare i canoni ermeneutici in tema di valutazione frazionata.
Tuttavia, la Corte di merito, per affermare che, sulla base dei criteri in tema di valutazione frazionata, le dichiarazioni del COGNOME anteriori a quelle del 3 dicembre 2020 possono essere ritenute pienamente attendibili, si è limitata a richiamare le argomentazioni in proposito addotte dal Giudice di primo grado e a segnalare che le stesse erano state avallate anche da questa Corte di cassazione con la sentenza emessa in data 20 luglio 2023, emessa nell’ambito del
procedimento relativo alla posizione cautelare del Messina.
Occorre, allora, ribadire, anche a tale proposito, che l’obbligo di uniformarsi, nella valutazione del materiale probatorio, alla sentenza di annullamento con rinvio pronunciata della Corte di cassazione sussiste, ai sensi dell’art. 627, comma 3, cod. proc pen., solo per il giudice del rinvio e non anche per i giudici che, sia pure nel medesimo processo, siano chiamati a trattare distinte fasi o gradi dello stesso (Sez. 3, n. 23052 del 23/04/2013, S., Rv. 256170) e che in questa sede non si tratta di valutare la mera sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ma di accertare la responsabilità dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio.
In particolare, la Corte di merito, come segnalato dal ricorrente, avrebbe dovuto valutare se le palesi incongruenze presenti nelle dichiarazioni rese da NOME COGNOME in data 3 dicembre 2020 fossero tali da compromettere la complessiva credibilità del collaborante in ordine alla posizione di NOME COGNOME da valutarsi sulla base della precisione, coerenza, costanza e spontaneità delle dichiarazioni, a prescindere dalla presenza di eventuali riscontri alle stesse, atteso che i riscontri possono rilevare solo laddove sia stata accertata la intrinseca attendibilil:à del dichiarante.
Difatti, anche ai soli fini dell’applicazione di misure cautelari, ai fini di corretta valutazione della chiamata in correità, il giudice deve, in primo luogo, verificare l’attendibilità soggettiva del dichiarante in relazione, tra l’altro, all personalità, ai suoi rapporti con i chiamati in correità, alla genesi remota prossima della sua risoluzione alla confessione ed all’accusa dei complici; in secondo luogo, verificare l’intrinseca consistenza e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante, secondo i criteri della precisione, coerenza, costanza, spontaneità delle medesime, rapportate all’oggetto delle stesse in relazione all’accusa rivolta al chiamato in correità; infine, passare, applicazione del disposto dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., all’esame delle circostanze costituenti il riscontro esterno alle dichiarazioni del collaboratore giustizia (Sez. 1, n. 1647 del 17/03/1995, COGNOME, Rv. 201168).
Inoltre, la valul:azione frazionata delle dichiarazioni accusatorie rese dalla medesima persona è possibile a condizione, da un lato, che non sussista interferenza fattuale e logica tra la parte del narrato ritenuta falsa (o comunque inattendibile) e le rimanenti parti del racconto e, dall’altro, che l’inattendib non sia talmente macroscopica, per conclamato contrasto con altre sicure emergenze probatorie, da compromettere la stessa credibilità del dichiarante (Sez. 6 n. 35327 del 18/07/2013, Rv. 256097; Sez. 6 n. 6221 del 20/04/2005; Rv. 233095).
Ne deriva che la motivazione in proposito fornita dalla Corte di assise di
appello appare carente.
Neppure la Corte di merito’ha dato risposta ai rilievi formulati con l’atto di appello in ordine alle dichiarazioni del collaboratore NOME COGNOME
Nell’atto di appello si segnalava che questo collaborante avrebbe riferito che l’omicidio era stato commesso da NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME senza riferire della partecipazione del COGNOME, e che NOME COGNOME ha riferito di avere appreso da NOME COGNOME che i mandanti dell’omicidio erano i NOME COGNOME, i fratelli COGNOME, i fratelli COGNOME ed NOME COGNOME; si sosteneva che poiché i due collaboranti non riferivano della partecipazione del COGNOME al delitto, quest’ultimo doveva ritenersi inattendibile oppure doveva ritenersi che il Bellinvia avesse mentito al COGNOME e pertanto anche quanto da lui portato a conoscenza del COGNOME relativamente all’omicidio di NOME COGNOME non fosse credibile.
Anche in ordine a tale censura la Corte di assise di appello omette di pronunciarsi.
4.3. Le suddette carenze motivazionali sono sufficienti da sole a rendere il ragionamento logico-giuridico illustrato dalla Corte di merito nella motivazione della sentenza impugnata inidoneo a sorreggere la affermazione della penale responsabilità di NOME COGNOME in ordine al capo relativo all’omicidio di NOME COGNOME.
Ne deriva che la sentenza impugnata deve essere annullata in relazione a tale capo con rinvio ad altra sezione della Corte di assise di Messina, che provvederà anche alla regolamentazione tra le parti private delle spese processuali relative al giudizio di legittimità.
Le altre censure e gli altri motivi di ricorso attinenti a tale capo restano assorbiti, incluso il settimo motivo, relativo al diniego delle attenuanti generiche.
5. È, invece, manifestamente infondato il sesto motivo.
La Corte di assise di appello ha spiegato che risulta accertato che NOME COGNOME ha preso parte all’associazione di tipo mafioso almeno sino al febbraio 2009, mentre per NOME COGNOME l’appartenenza risulta dimostrata solo fino al tentato omicidio di NOME COGNOME avvenuto nel novembre del 2001 Conseguentemente, non solo per i due imputati il termine di prescrizione ha iniziato a decorrere da momenti diversi, ma poiché la condotta di NOME COGNOME si è protratta sino al 2009, soltanto nei suoi confronti è applicabile, per le ragioni già esplicitate nella sentenza qui impugnata, la più grave cornice edittale introdotta a a seguito della entrata in vigore della legge 5 dicembre 2005, n. 251, che ha pure modificato l’ultimo comma dell’art. 160 cod. pen. escludendo l’applicazione del limite massimo di cui all’ultimo comma dell’art. 161 cod. pen.
ai reati di cui all’art. 51, commi
3-bis
e
3-quater cod. proc. peri., tra i quali vi è
appunto il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al delitto di omicidio volontario, con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di assise di appello di Reggio Calabria.
Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
Così deciso il 15/10/2024.