Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 18136 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 18136 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 27/03/2025
SENTENZA
Sui ricorsi proposti da:
NOME (CUI CODICE_FISCALE, nato in Albania il 03/03/1991
NOMECUI 03VRBUS), nato in Albania il 02/02/1988
COGNOME NOMECODICE_FISCALE, nato in Albania il 15/09/1986
COGNOME NOMECOGNOME nato a Modena il 09/05/1992
COGNOME NOMECOGNOME nato a Cerignola il 18/02/1939
COGNOME NOME COGNOMECODICE_FISCALE nato a Modena il 08/06/2000
COGNOME COGNOME (CUI 04BXRXK), nato in Kosovo il 07/01/1995
avverso la sentenza emessa il 27/05/2024 dalla Corte d’Appello di Bologna visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi di COGNOME COGNOME e COGNOME e la declaratoria di inammissibilità del ricorso del COGNOME;
uditi i difensori dei ricorrenti, avv. NOME COGNOME e avv. NOME COGNOMEper TUKU), avv. NOME COGNOME e avv. NOME COGNOMEper DEDA), avv. NOME COGNOMEper COGNOME), avv. NOME COGNOME (per COGNOME, COGNOME e NOME COGNOME), e
avv. NOME COGNOMEper BENGASI), i quali hanno concluso chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 27/05/2024, la Corte d’Appello di Bologna – per quanto qui rileva – ha confermato la sentenza di condanna alla pena di giustizia emessa con rito abbreviato dal G.u.p. del Tribunale di Modena, in data 03/02/2023, nei confronti degli odierni ricorrenti, in relazione al reato di associazione pe delinquere finalizzata al narcotraffico (capo 1) e ai reati-fine dettagliatamente descritti ai capi da 2 a 25 della rubrica.
In particolare, la “doppia conforme” ha avuto ad oggetto, quanto a COGNOME NOME, i reati di cui ai capi 1, 9, 10, 12, 14, 15, 16, 17, 24; quanto a COGNOME NOME i reat di cui ai capi 12, 14, 15, 16, 19; quanto a COGNOME NOME, i reati di cui ai capi 1, 16, 17, 18, 19; quanto a COGNOME NOME, i reati di cui ai capi 1, 2, 3, 4, 5, 10, 13, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25; quanto a COGNOME NOME, i reati di cui ai capi 1, 4, 5, 19, 23; quanto a COGNOME NOME COGNOME il reato di cui al capo 1; quanto a COGNOME Granit, i reati di cui ai capi 1, 25.
Ricorre il DEDA, a mezzo del proprio difensore, deducendo:
2.1. Violazione di legge con riferimento alla ritenuta utilizzabilità delle chat SKY ECC. Si deduce che, nonostante l’ordine europeo di indagine (d’ora in avanti: o.i.e.) emesso dal Pubblico Ministero avesse richiesto tutta la documentazione utile, era stata trasmessa la sola risposta di RAGIONE_SOCIALE con allegazione del supporto informatico, senza alcuna informazione in ordine alle modalità acquisitive da parte delle Autorità estere (risposta che peraltro aveva riguardato la sola attività dell’Autorità francese, mentre la captazione aveva coinvolto anche quelle olandesi e belghe). In tale situazione, la difesa evidenzia che la ricostruzione offerta sul punto (indagini estere, intercettazione dei criptofonini dopo averne compreso il funzionamento e scoperto le chiavi di cifratura ecc.) non risulta essersi fondata su atti acquisiti al fascicolo, sembrando essere frutto di una consultazione di fonti aperte. Si sottolinea inoltre che proprio la posizione del DEDA imponeva una particolare analisi delle modalità operative, avendo la stessa Corte territoriale richiamato il ripetuto uso del trojan per decrittare i server, acquisire le chiavi di cifratura ed avere così contezza dei contenuti comunicativi. Dalla impossibilità di operare tali verifiche deriva, per la difesa, l’inutilizzabilità delle captazioni.
2.2. Vizio di motivazione con riferimento alla valutazione delle chat quanto alla posizione del ricorrente. Si deduce che, già in appello, era stato evidenziato il fatto che, nel caso del DEDA, nella gran parte dei casi erano state acquisite solo le conversazioni ricevute dall’utenza con il PIN attribuito al suo cellulare, non anche
le comunicazioni in uscita. Di tale incompletezza, evidenziata anche dalla Polizia Giudiziaria, la Corte territoriale non si era occupata, evitando così di chiarire come fosse stato possibile affermare la responsabilità del DEDA, sia per il reato associativo che per i reati fine, “pur nella pressochè totale assenza” di messaggi a lui attribuibili. La difesa lamenta inoltre la mancata considerazione della valenza liberatoria di una conversazione con COGNOME NOME (soggetto al vertice dell’associazione) che era convinto di comunicare con altra persona, e non con il ricorrente. Sotto altro profilo, si censura la certezza con cui le conversazioni captate erano state attribuite al DEDA (non essendo sufficiente la mera affermazione per cui il codice IMEI del telefono in suo possesso corrispondeva a quello della chat criptata).
2.3. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al reato associativo. Si censura il mancato confronto con le deduzioni difensive circa l’estraneità del DEDA al sodalizio (non essendo emerso dalle chat che egli ne conoscesse la struttura, i partecipanti, le entrate, ecc.), essendo egli in rapporti con il solo COGNOME e non essendo neppure stato evocato dal collaboratore COGNOME NOME. Sotto altro profilo, si censura il mancato chiarimento della questione relativa all’arresto, e alla condanna irrevocabile, riportata dal DEDA per la partecipazione ad altra associazione operante nello stesso periodo, non potendo ritenersi sufficiente la mera esclusione di un bis in idem.
2.4. A tale ultimo proposito, si evidenzia anche l’erroneità della motivazione con cui la Corte territoriale aveva disatteso l’eccezione – motivazione imperniata sul fatto che la condanna irrevocabile sarebbe stata riportata per un reato associativo pregresso (commesso fino al 2018) – dal momento che, al contrario, la condotta era stata contestata, in quella sede, come permanente quantomeno a partire dai primi mesi del 2018.
2.5. Vizio di motivazione con riferimento all’affermazione della responsabilità per i reati fine. Si ribadisce l’anomalia della condanna sulla base delle sole chat ma senza acquisire la “voce” del DEDA, essendovi agli atti solo quella dell’interlocutore: sul punto, la Corte territoriale si era limitata a rinviare sentenza di primo grado, che aveva analizzato le chat senza disporre della messaggistica riconducibile al DEDA.
2.6. Violazione di legge quanto all’aggravante di cui al comma 6 dell’art. 73. Si censura la sentenza per non aver considerato che, venuto meno il TUKU nella compagine associativa dopo la sua assoluzione in primo grado, era rimasto solo il DEDA a “rappresentare” i fornitori dello stupefacente (circostanza che rendeva quindi non configurabile l’aggravante, che nella interpretazione giurisprudenziale postula la presenza di almeno tre concorrenti coinvolti “nel medesimo lato dello scambio commerciale”).
2.7. Violazione di legge e vizio di motivazione quanto al trattamento sanzíonatorio e alla mancata concessione delle attenuanti generiche. Si censura la carenza motivazionale, anche alla luce del breve arco temporale in cui il DEDA aveva intrattenuto rapporti con il sodalizio, e della sua immediata ammissione degli addebiti.
Ricorre per cassazione il TUKU, a mezzo dei propri difensori, deducendo:
3.1. Violazione di legge con riferimento alla ritenuta utilizzabilità del contenuto delle chat RAGIONE_SOCIALE nonostante l’illegittimità del percorso acquisitivo. Si evidenzia il carattere patologico dell’inutilizzabilità di tali risultanze – costituenti l elemento a carico del ricorrente, come riconosciuto dalla stessa Corte territoriale – in considerazione della modalità della perquisizione informatica espletata per l’apprensione delle chiavi di cifratura: era infatti stato utilizzato un captat informatico (trojan horse), non consentito dalla disciplina di cui all’art. 247, comma 1-bis, cod. proc. pen. Si deduce che tale perquisizione informatica da remoto doveva ritenersi abusiva, per la lesione dei diritti di difesa in materia coperta da riserva costituzionale di legge, e la violazione dell’art. 6 della Diretti 2014/41/UE, dal momento che tale atto di indagine non avrebbe potuto compiersi “alle stesse condizioni in un caso analogo”, ai sensi e per gli effetti di cui alla l b) del predetto articolo.
Al riguardo, i difensori censurano la Corte d’Appello per essersi limitata a richiamare il principio di equivalenza ed il carattere di “prove già acquisite” dell chat, senza cogliere la necessità di esaminare, in primo luogo, “l’atto di indagine” che aveva consentito l’acquisizione della prova, anche nella prospettiva del diritto interno. Solo così, infatti, potrebbe dirsi effettiva la verifica del rispetto dei fondamentali, che la Corte territoriale aveva effettuato, quanto ai passaggi successivi, alla luce dei principi affermati dalle Sezioni Unite, senza preoccuparsi della illegittimità, per il nostro sistema, di una perquisizione informatica occult effettuata senza garantire il diritto dell’interessato e del suo difensore a assistervi. La stessa pronuncia del Supremo Consesso, invocata in sentenza, aveva del resto riconosciuto sia il carattere relativo della presunzione di conformità a diritti fondamentali dell’attività svolta dall’Autorità estera, sia la necessit verificarne il rispetto (con particolare riguardo ai diritti di difesa e alla garanz un giusto processo) da parte del giudice ad quem. In tale prospettiva, si conclude per l’inutilizzabilità, in via diretta, del contenuto delle chat decrittate, essendo le chiavi di cifratura state acquisite attraverso una perquisizione illegittima precisando che quest’ultima non era servita al sequestro del server, ed era quindi svincolata (anche quanto alle conseguenze) da tale ulteriore attività.
3.2. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta utilizzabilità del contenuto delle chat nonostante la mancata documentazione delle
attività di estrazione e decrittazione dei dati. Si rileva che tale contenuto era stat trasmesso unitamente solo ad un verbale che attesterebbe la regolarità delle operazioni (verbale non tradotto dal francese e quindi inutilizzabile ai sensi degli artt. 109 e 143-bis cod. proc. pen.). Si evidenzia comunque il carattere meramente formale della regolarità attestata, essendo impossibile qualsiasi verifica atteso il segreto di Stato apposto, dalle Autorità francesi, sulle modalità acquisitive della prova (decrittazione mediante apposite chiavi), e la conseguente preclusione, per la difesa, all’accesso al relativo algoritmo: preclusione operante anche per l’A.G. italiana, destinataria solo di un link per scaricare in unica soluzione il contenuto delle chat.
Al riguardo, il ricorrente lamenta la violazione del diritto di difesa e contraddittorio teso alla falsificazione del dato d’accusa, e censura il contrario obiter dictum delle Sezioni Unite, anche quanto alla precisazione secondo cui sarebbero comunque possibili allegazioni di segno contrario, dal momento che alla difesa viene impedito “proprio quel controllo che permetterebbe le predette allegazioni contrarie”. Sul punto, si deduce che la contrarietà all’art. 14 dell Direttiva emergeva anche da una recente decisione della Corte di Giustizia (Grande Sezione, sent. 30 aprile 2024, causa C-670/22), secondo cui il par. 7 del predetto articolo doveva essere interpretato nel senso di imporre l’espunzione delle prove, di rilievo preponderante, sulle quali l’imputato non sia stato in grado di svolgere efficacemente le proprie osservazioni. Tale principio doveva ritenersi prevalente, anche perché alla difesa erano state fornite solo alcune delle conversazioni riferibili al PIN attribuito al TUKU, selezionate dalla Polizia francese: con conseguente impossibilità di prendere in considerazione eventuali conversazioni a discarico. Si osserva altresì che, alla luce della stessa ricostruzione operata dalle Sezioni Unite (secondo cui l’inquadramento delle acquisizioni delle chat andava ricondotto all’art. 270 cod. proc. pen.), la possibilità di accedere all’intero patrimonio conoscitivo acquisito nel procedimento a quo viene espressamente riconosciuta al comma 3 del predetto articolo, con la previsione della facoltà, per le parti, di esaminare verbali e le registrazioni in precedenza depositati nel procedimento in cui furono autorizzate. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
3.3. In via subordinata, la difesa sollecita una nuova rimessione alle Sezioni Unite della questione relativa alla possibilità di acquisire le conversazioni tramite o.i.e. senza la previa autorizzazione del giudice, avuto riguardo all’evoluzione interpretativa, anche da parte della giurisprudenza costituzionale, in ordine alla nozione di corrispondenza e alla riserva di legge e di giurisdizione ad essa correlata.
3.4. Violazione di legge con riferimento al trattamento sanzionatorio. Si censura la mancata applicazione dell’art. 62 n. 6 cod. pen. nonostante la
spontanea condotta riparatoria posta in essere dal TUKU (versamento della somma di Euro 10.000 ad una cooperativa per il recupero dei tossicodipendenti). Si lamenta, in particolare, la mancanza di considerazione dell’effetto che tale iniziativa poteva aver prodotto sulla attenuazione dell’offesa al bene giuridico protetto, avendo la Corte d’Appello svolto considerazioni solo di ordine economico, limitate al raffronto tra la somma versata e l’entità del profitto illecito.
Si osserva inoltre che il predetto versamento doveva essere considerato almeno per l’applicazione delle attenuanti generiche, anche perché la gravità del fatto, enfatizzata dalla Corte nel disattendere il corrispondente motivo di appello, non risultava in linea con la mancata contestazione dell’aggravante speciale.
Si censura inoltre il difetto di motivazione in ordine alla misura di sicurezza, applicata sulla sola base della ritenuta gravità del reato senza argomentare in ordine alla concreta pericolosità sociale del condannato.
Ricorre per cassazione il COGNOME a mezzo del proprio difensore, deducendo:
4.1. Vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta utilizzabilità delle cha SKY ECC. Si lamenta il carattere astratto della motivazione, che aveva ripercorso il dibattito giurisprudenziale senza peraltro applicare i principi nel caso concreto, visto che nulla era dato sapere in ordine alla specifica procedura tecnicoinformatica utilizzata per la captazione, né alle concrete modalità di acquisizione e trasmissione dei dati. Si evidenzia, al riguardo, che il PALI aveva dedotto in appello alcune “specifiche allegazioni di segno contrario”, come richiesto dalle Sezioni Unite, segnalando che, di numerose chat, erano stati riportati i soli messaggi in uscita e non anche le eventuali risposte (chat decisive al fine di verificare la fondatezza dell’ipotesi accusatoria, secondo cui il COGNOME aveva assunto il nickname COGNOME).
4.2. Vizio di motivazione quanto alla identificazione del ricorrente in LAMBRUSCO. A tale proposito, si evidenzia che, dalla conversazione tra COGNOME e COGNOME valorizzata dalla Corte territoriale relativa al sequestro subito in Svizzera dell’autovettura, doveva evincersi che COGNOME fosse non già il ricorrente, ma il fratello COGNOME NOME; si censura poi l’argomento imperniato sul viaggio di andata e ritorno compiuto dal ricorrente in Albania, non essendo stato verificato se, in quelle occasioni, fosse stato presente anche COGNOME NOME.
4.3. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta partecipazione del ricorrente al sodalizio, e alla effettiva configurabilità del rea di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990.
Si censura l’affermazione relativa all’esistenza di rapporti diretti tra il COGNOME lo COGNOME, dato che quest’ultimo, tramite la fidanzata, aveva consegnato il criptofonino con il nickname COGNOME nelle mani del DEDA, e non di quelle del
ricorrente, che ne era un mero destinatario. Nessun elemento era poi in atti quanto all’affermata presenza di “colloqui successivi” tra il COGNOME e lo COGNOME.
Si evidenzia poi che la partecipazione del COGNOME doveva ragionevolmente essere esclusa, sulla scorta della conversazione in cui lo COGNOME aveva chiesto al DEDA la sua disponibilità in futuro: dovendo tale passaggio essere ritenuto indicativo del coinvolgimento del ricorrente solo per compiere singoli trasporti come corriere. Del resto, la Corte territoriale aveva utilizzato parametri ben diversi quanto alla posizione del TUKU, assolto dal reato associativo in quanto – pur essendo egli in grado di garantire al gruppo del DEDA consistenti acquisti con cadenza settimanale – ben poteva rapportarsi, al contempo, con altri acquirenti.
4.4. Violazione di legge con riferimento al diniego delle attenuanti generiche. Si lamenta l’erronea applicazione dei principi giurisprudenziali in materia, non avendo la Corte tenuto conto dell’essere il PALI un mero corriere per poche migliaia di euro.
Ricorre per cassazione il COGNOME a mezzo del proprio difensore, deducendo:
5.1. Violazione di legge con riferimento alla ritenuta utilizzabilità delle chat SKY ECC. Dopo aver richiamato le caratteristiche del sistema di comunicazione, per come descritte da una delle informative in atti, la difesa evidenzia la assoluta necessità di conoscere i provvedimenti alla base dell’acquisizione dei dati, censurando le argomentazioni svolte dalla Corte territoriale sulla base dei principi affermati dalle Sezioni Unite. Si sottolinea, in particolare, che la difesa era stat estromessa dalla ostensione delle modalità con cui nel procedimento a quo si era proceduto all’attività captativa, nonostante l’art. 270 cod. proc. pen. contempli, proprio a questo fine, il necessario deposito dei verbali e consenta l’accesso agli atti autorizzativi. La difesa evidenzia che era stato in tal modo impedito di comprendere, tra l’altro, in quale momento l’Autorità francese si fosse avveduta del fatto che gli utilizzatori delle utenze erano persone stabilmente dimoranti in Italia, e richiama i principi espressi dalla Corte di Giustizia con la sentenza C670/22 del 30/04/2024 proprio con la necessità di garantire un processo equo assicurando alle parti di poter svolgere efficacemente le proprie osservazioni su elementi di prova idonei ad influire in modo preponderante sulla valutazione dei fatti. Si lamenta, in tale prospettiva, non solo la mancata trasmissione dei provvedimenti autorizzativi, ma anche l’impossibilità di verificare la genuinità e completezza dell’acquisizione dei flussi comunicativi, attesa la certa avvenuta interpolazione desumibile sia dall’identificazione di taluni soggetti già nei messaggi, sia dall’inserimento di espresse diciture quali “N.d.T.”.
Quanto poi alla mancata conoscenza dell’algoritmo, si rileva che le stesse Sezioni Unite avevano precisato che ciò non costituisce violazione dei diritti
fondamentali “in linea di principio”, con ciò legittimando un sindacato laddove emergano dubbi sull’avvenuta alterazione dei dati: non potendo quindi condividersi la tautologica affermazione della sentenza impugnata, che non aveva tenuto conto dei principi affermati dalla Corte di Giustizia anche quanto all’obbligo, gravante sullo Stato in cui vengono eseguite le intercettazioni, di notifica allo Stato in cui si trovano le persone intercettate. Tale obbligo, previsto dall’art. 31 dell Direttiva del 2014, è stato interpretato appunto nel senso che esso mira anche a tutelare i diritti degli utenti interessati dall’attività captativa.
La difesa evidenzia ancora che la prima indagine era stata avviata non per “gravi reati” come affermato dalla Corte territoriale, ma per l’utilizzo di cellula criptati in quanto tali (difettando quindi la condizione della possibilità intercettare in un caso interno analogo). Quanto poi al segreto di Stato opposto dalle Autorità francesi (del quale non era stata fornita alcuna altra indicazione anche quanto al provvedimento impositivo), se ne sottolinea la diretta incidenza sui diritti di difesa emergendo, dall’informativa in atti, il fatto che le conversazio erano state trasmesse in modo incompleto (presumibilmente per non essere stato autorizzato l’invio integrale), ledendo il diritto della difesa all’accesso a tutt materiale probatorio in possesso delle Autorità competenti. Tutto ciò, ad avviso della difesa, non consentiva neppure al giudice ad quem un adeguato vaglio in ordine alla legittimità delle acquisizioni, anche avuto riguardo alla mancata trasmissione dei provvedimenti genetici da parte dell’Autorità francese (avvenuta in altro procedimento).
In via subordinata, la difesa sollecita il rinvio pregiudiziale alla Corte Giustizia per la valutazione delle compatibilità, con la Direttiva di riferimento, dell condizioni di trasmissione ed utilizzo delle prove acquisite in sede transfrontaliera enunciate dalle Sezioni Unite.
5.2. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990. Si lamenta la mancata considerazione di quanto dedotto in appello circa la mancanza di prove in ordine alla consapevolezza, in capo al RAGIONE_SOCIALE, di fornire un contributo alle azioni criminose riconducibili al sodalizio, elemento non confondibile con la ricostruzione dei dati fattuali relativi all’esisten dell’associazione.
5.3. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza del reato associativo. Si censura il percorso argomentativo della Corte territoriale, che aveva valorizzato elementi (disponibilità dei c.d. criptofonini, diverse utenze telefoniche, di vetture modificate per celare il carico di droga, ecc.) non decisivi e comunque non rilevanti per il COGNOME, che tra l’altro svolgeva legittimamente l’attività di assicuratore.
5.4. Vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta configurabilità dell’associazione armata. Si censura la sentenza per avere la Corte territoriale sostenuto, del tutto apoditticamente, che l’arma detenuta dal COGNOME fosse stata da questi messa a disposizione del sodalizio.
5.5. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’affermazione di responsabilità per il capo 2). Si lamenta la mancata considerazione dell’incertezza derivante dall’utilizzo del PIN CODICE_FISCALE da parte sia del ricorrente, sia dall’altro imputato COGNOME e dalla frase “sei con NOME?” che lo COGNOME aveva rivolto – in una conversazione intercettata cui si riteneva avesse partecipato il COGNOME – all’utente identificato con il predetto PIN, dal momento che il nickname asseritamente attribuito al ricorrente era BOBO-BOBO NEW.
5.6. Violazione di legge con riferimento alla misura del trattamento sanzionatorio ed al diniego delle attenuanti generiche. Si lamenta l’eccessività della pena inflitta, anche quanto agli aumenti per la continuazione (rimasti privi di motivazione alcuna) nonostante il percorso intrapreso al SERT, lo svolgimento di alternativa lecita, il rispetto delle prescrizioni imposte (elementi non considerati neanche agli effetti di cui all’art. 62-bis cod. pen.). Quanto poi al calcolo dell pena, si censura il riferimento alla “mera svista” in cui, secondo la Corte territoriale, sarebbe incorso il primo giudice nella determinazione della pena base.
Ricorre per cassazione il COGNOME a mezzo del proprio difensore, deducendo:
6.1. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla nullità del capo di imputazione per indeterminatezza. Si censura la motivazione alla base del diniego dei rilievi svolti nei gradi precedenti in ordine alla necessità di conoscere i dies a quo della consumazione: motivazione che risultava contraddittoria nella parte in cui, da un lato, aveva richiamato le origini risalenti del sodalizio, evolutos nel tempo in varie formazioni, e – d’altro lato – aveva ritenuto che il periodo considerato nel capo di accusa fosse stato individuato con precisione dall’ottobre 2019 al marzo 2021.
6.2. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta partecipazione del NOME COGNOME al sodalizio. Si censura la mancata considerazione dei limitati contatti tenuti dal ricorrente con i soli COGNOME e COGNOME, del marginale apporto consistito nel mettere a disposizione del COGNOME il proprio appartamento, nonché della irrilevanza di tale apporto per la prosecuzione e la vitalità del sodalizio. Si lamenta altresì la mancata considerazione della fragilità e dell’età avanzata del DE COGNOME la cui condotta poteva essere al più ritenuta sufficiente per ritenerlo responsabile, in concorso, detenzione della droga presente nel suo appartamento, ma non anche per considerarlo un appartenente al sodalizio.
Ricorre per cassazione il COGNOME a mezzo del proprio difensore, deducendo:
7.1. Violazione di legge con riferimento all’affermazione di responsabilità del ricorrente per il reato associativo. Si censura la sentenza che, per un verso, aveva limitato il periodo considerato nel capo di accusa a quello intercorso tra l’ottobre 2019 e il marzo 2021 e, per altro verso, aveva condannato il ricorrente in relazione a condotte poste in essere anteriormente a tale periodo, ovvero tra il marzo e il settembre 2019. Alle stesse conclusioni doveva giungersi quanto alle dichiarazioni del collaboratore NOMECOGNOME che riguardavano condotte antecedenti a quelle di interesse.
7.2. Vizio di motivazione con riferimento alla sussistenza della partecipazione del BEDHIAFI. Fermo quanto dedotto con il primo motivo, si evidenzia che comunque gli elementi valorizzati erano privi di univocità (contatti con COGNOME e poi con NOMECOGNOME possesso di cellulare con sim olandese, non riconducibile a quelli dotati del sistema SKY ECC; arresto nel settembre 2019 per la detenzione in casa di un chilo di marijuana, rispetto al quale doveva ritenersi irrilevante il fatto che fossero stati arrestati, insieme al ricorrente, anche COGNOME ed il COGNOME).
Con riferimento alle dichiarazioni del collaboratore COGNOME si sottolinea che il giudice di primo grado aveva assolto il BEDHIAFI dal reato di cui al capo 4), non ritenendo che quelle dichiarazioni fossero sufficienti; tuttavia, l’apporto collaborativo dell’COGNOME era stato valorizzato dai giudici di merito, senza peraltro soffermarsi sui necessari elementi di riscontro e soprattutto senza chiarire come il predetto collaboratore, ritenuto non sufficientemente attendibile per il reato fine, potesse esserlo per il reato associativo, specie considerando che la sua partecipazione doveva essere desunta proprio dalla cessione di cui al capo 4), asseritamente posta in essere per conto dello RAGIONE_SOCIALE
Ricorre per cassazione il COGNOME a mezzo del proprio difensore, deducendo:
8.1. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’affermazione di responsabilità del ricorrente per il reato associativo. Si deduce l’insufficienza degli elementi acquisiti per ritenere configurabile un sodalizio ex art. 74, e per ritenere la partecipazione del COGNOME, il cui apporto (autista dello COGNOME) era marginale e facilmente sostituibile: non potendo comunque la disponibilità palesata in favore di un solo soggetto, quand’anche apicale, essere sufficiente per la prova della partecipazione, potendo al più rilevare nella prospettiva di un concorso esterno.
CONSIDERATO IN DIRITTO
È anzitutto opportuno evidenziare che gli odierni ricorsi, proposti dagli imputati che avevano optato per il giudizio abbreviato, hanno ad oggetto una “doppia conforme” di condanna relativa ad una intensa attività di narcotraffico posta in essere nel Modenese, il cui accertamento ha dato luogo – all’esito della valutazione congiunta di una pluralità di filoni investigativi – ad una imputazione associativa compiutamente descritta nel capo 1) della rubrica (per la quale è intervenuta condanna per tutti gli odierni ricorrenti, ad eccezione del TUKU), e alla contestazione di una serie di reati-fine meglio specificati ai capi da 2) a 25), rispettivamente ascritti – in concorso anche con altri imputati separatamente giudicati – secondo quanto specificato in ciascun capo di accusa.
È poi utile fin d’ora porre in rilievo il fatto che, con riferimento all’ultima f dell’attività illecita, il compendio probatorio risulta integrato – oltre che dagli di attività investigative “tradizionali” (servizi di o.c.p., intercettazioni telefo ed ambientali, perquisizioni, sequestri, verbali di dichiarazioni, ecc.) – da contenuto delle chat intercorse tra alcuni coimputati, i quali si erano avvalsi di altrettanti “criptofonini” abilitati all’utilizzo della messaggistica cifrata SKY EC contenuto decrittato nell’ambito di procedimenti pendenti dinanzi all’A.G. francese, e da quest’ultima trasmesso in esecuzione di un o.i.e. emesso dalla Procura della Repubblica procedente.
La valenza accusatoria di tali risultanze captative – soprattutto con riferimento alla posizione di alcuni imputati, identificati grazie all’abbinamento, operato in sede investigativa interna, delle conversazioni decrittate ai numeri IMEI delle utenze cellulari già emerse nel corso delle intercettazioni – è stata concordemente valorizzata dai giudici di merito in termini estremamente marcati, anche per il tenore più che esplicito delle conversazioni medesime, evidentemente dovuto alla ragionevole certezza, in capo ai partecipanti, di comunicare in un contesto non intercettabile.
Peraltro, la possibilità di utilizzare tali elementi di prova è stata contestata d quasi tutti i difensori, con la varietà di accenti di cui si è cercato di dar conto, precedenza, sintetizzando il contenuto dei motivi di ricorso.
Converrà pertanto seguire, in linea di massima (con riserva cioè di ulteriori precisazioni, da parte di questo Collegio, nella disamina di alcuni ricorsi) lo schema espositivo seguito dalla Corte d’Appello, la quale, prima dell’analisi degli altr motivi di impugnazione proposti da ciascun imputato, ha esaminato congiuntamente tali ordini di censure, risultate in parte comuni a più di un ricorrente (cfr. pag. 37 segg. della sentenza impugnata).
Esula dai confini della presente trattazione un’analisi, anche sommaria, delle questioni dibattute in dottrina e in giurisprudenza sul tema dei c.d. criptofonini e della utilizzabilità delle relative conversazioni, decrittate nell’ambito procedimenti esteri ed inviate in esecuzione di un o.i.e.: questioni involgenti
anche le ricadute sull’ordinamento interno, con particolare riguardo alla necessità di coordinare, con le disposizioni del codice di procedura penale, quelle contenute nelle fonti sovranazionali (in particolare, la direttiva 2014/41/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 3 aprile 2014, relativa all’ordine europeo di indagine: d’ora in avanti, la Direttiva) e in quelle interne (in particolare, il d.lgs. n. 10 21/06/2017, contenente appunto le norme di attuazione della predetta Direttiva).
Ci si limita pertanto a ricordare che la diversità di vedute – manifestatesi soprattutto in ordine alle modalità di ingresso del materiale probatorio oggetto di un o.e.i. (in particolare, alla necessità di un previo intervento di un giudice, all’individuazione delle norme del codice di rito di volta in volta applicabili), nonch alla definizione dell’orizzonte valutativo riservato al giudice ad quem (in relazione soprattutto alla necessità di verificare che tale acquisizione non contrasti con il rispetto dei diritti fondamentali, tra cui quello ad un processo equo) – ha dato luogo ad un duplice, coevo intervento delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte (Sez. U, n. 23755 del 29/02/2024, Gjuzi, e n. 23756 del 29/02/2024, Giorgi).
Si riportano qui di seguito, per maggior chiarezza delle considerazioni che verranno successivamente svolte con riferimento ai motivi di ricorso, i principi affermati dalle Sezioni Unite che maggiormente rilevano ai fini dell’odierna decisione:
«in materia di ordine europeo di indagine, la trasmissione del contenuto di comunicazioni scambiate mediante criptofonini, già acquisite e decrittate dall’autorità giudiziaria estera in un procedimento penale pendente davanti ad essa, non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 234-bis cod. proc. pen., che opera al di fuori delle ipotesi di collaborazione tra autorità giudiziarie, bensì nel disciplina relativa alla circolazione delle prove tra procedimenti penali, quale desumibile dagli artt. 238 e 270 cod. proc. pen. e 78 disp. att. cod. proc. pen.» (Fattispecie in tema di prove, costituite da messaggi scambiati su chat di gruppo mediante un sistema cifrato, già in possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione) (sent. COGNOME, Rv. 286573 – 01);
«in materia di ordine europeo di indagine, le prove già in possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione possono essere legittimamente richieste ed acquisite con un ordine europeo di indagine emesso dal pubblico ministero italiano, senza la necessità della preventiva autorizzazione da parte del giudice del procedimento nel quale si intende utilizzarle» (sent. COGNOME Rv. 286589 – 02);
«in materia di ordine europeo di indagine, la sua emissione da parte del pubblico ministero con la richiesta di acquisizione dei risultati di intercettazio disposte da un’autorità giudiziaria straniera in un procedimento penale pendente davanti ad essa, ed effettuate attraverso l’inserimento di un captatore informatico sui server di una piattaforma criptata, è ammissibile perché attiene ad esiti investigativi ottenuti con modalità compatibili con l’ordinamento giuridico italiano, senza necessità di una preventiva autorizzazione del giudice italiano, non essendo
ciò previsto dalla disciplina nazionale e non risultando come condizione necessaria ai sensi dell’art.6 Direttiva 2014/41/UE» (sent. COGNOME Rv. 286589 – 03);
«in materia di ordine europeo di indagine, l’utilizzabilità dei risultati intercettazioni disposte da un’autorità giudiziaria straniera in un procedimento penale pendente davanti ad essa, ed effettuate su una piattaforma informatica criptata e su criptofonini, deve essere esclusa se il giudice del procedimento nel quale dette risultanze istruttorie vengono acquisite rileva che, in relazione ad esse, si è verificata la violazione dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e, tra questi, del diritto d difesa e della garanzia di un giusto processo, fermo restando che l’onere di allegare e provare i fatti da cui inferire tale violazione grava sulla parte interessata» (sent COGNOME Rv. 286589 – 04);
«in materia di intercettazioni telematiche, l’impossibilità per la difesa di accedere all’algoritmo, utilizzato nell’ambito di un sistema di comunicazioni per criptare il testo delle stesse, non determina una violazione dei diritti fondamentali di difesa, dovendo escludersi, salvo specifiche allegazioni di segno contrario, il pericolo di alterazione dei dati in quanto il contenuto di ciascun messaggio è inscindibilmente abbinato alla sua chiave di cifratura, e l’utilizzo di una chiave errata non ha alcuna possibilità di decriptarlo anche solo parzialmente» (sent. COGNOME, Rv. 286589 – 05).
In forza di tali principi – e delle ulteriori puntualizzazioni contenute ne “sentenze gemelle”, alle quali si farà riferimento nel corso della presente esposizione – ritiene il Collegio che le censure difensive siano nel complesso infondate.
2.1. Deve anzitutto essere disatteso il rilievo di ordine per così dire preliminare, formulato dalla difesa del DEDA in ordine all’esposizione, da parte della Corte territoriale, delle circostanze alla base dell’acquisizione delle chat. Si tratterebbe, secondo la difesa, di una esposizione basata su “fonti aperte”, dato che il supporto contenente le conversazioni decrittate era stato trasmesso da RAGIONE_SOCIALE unitamente ad una mera nota di accompagnamento.
L’assunto non può essere condiviso. Deve invero osservarsi che la Corte d’Appello, nel ripercorrere la sentenza di primo grado, ha descritto in sintesi (pag. 3 segg.) quanto più diffusamente esposto sul punto dal G.u.p. (pag. 274 segg.): quest’ultimo, anche richiamando la ricostruzione contenuta in una decisione cautelare riguardante altro coimputato (Sez. 6, n. 48330 del 20/12/2022, COGNOME), aveva chiarito che la richiesta iniziale ad RAGIONE_SOCIALE riguardava l’eventuale coinvolgimento, nelle chat criptate, di utenze relative a numeri IMEI monitorati nell’indagine interna (si è fatto espresso riferimento all’utenza trovata al COGNOME in occasione del suo arresto in flagranza).
I giudici di merito hanno quindi fatto concorde riferimento all’informativa del 13/09/2021, nella quale si era dato atto delle modalità acquisitive delle chat trasmesse, evidenziando in particolare “il rispetto della regola ISO/IEC 27037 in
passaggi del download e la specificazione che è stato generato il doppio codice hash che attesta la genuinità dei dati acquisiti presso l’autorità giudiziaria italiana Le chat genuine si trovavano nel supporto ottico in atti e tramite le password fornite dalla P.G. francese che materialmente le forniva, risultava possibile arrivare alle chat grezze che poi la P.G. poteva elaborare abbinando gli IMEI noti ed abbinati ai vari indagati ai PIN e ai nickname che i soggetti utilizzavano in chat” (cfr. pagg. 3 e 274, cit.).
Il G.u.p. aveva inoltre richiamato le considerazioni svolte dalla sentenza COGNOME quanto all’avvenuto rispetto, nella fattispecie concreta, della normativa di settore (sovranazionale ed interna), evidenziando altresì: che doveva aversi riguardo, nella valutazione della legittimità della fase di acquisizione della prova, alle norme dell’ordinamento francese; che la richiesta aveva avuto ad oggetto “dati già esistenti, non soggetti a procedure dinamiche di acquisizione come le intercettazioni”; che l’Autorità francese si era resa garante del rispetto dell procedure dello Stato di esecuzione; che risultava dagli atti, “con positiva verifica da parte dello scrivente”, delle modalità di conservazione dei dati nel supporto ottico acquisito, con la genuinità e l’inesistenza di manomissioni assicurate dal doppio codice hash (cfr. pag. 276 della sentenza di primo grado, pag. 4 della sentenza impugnata).
Appare quindi evidente che la ricostruzione delle fasi di acquisizione delle chat, lungi dall’essere stata effettuata sulla base di “fonti aperte”, appare ancorata ad elementi in atti (con particolare riguardo all’informativa citata), e risu ampiamente idonea ai fini che qui interessano, anche perché non contrastata da specifici elementi di segno contrario da parte della difesa ricorrente.
2.2. Per ciò che riguarda poi le varie censure formulate prospettando la violazione dei diritti fondamentali dei ricorrenti, deve osservarsi che – come già ricordato sintetizzando i motivi di ricorso, e salvo quanto si dirà in seguito proposito di una specifica eccezione di inutilizzabilità patologica sollevata nell’interesse del TUKU (cfr. infra, § 2.3.1) – i difensori hanno posto l’accento, di volta in volta, sulla mancanza di ulteriori informazioni in ordine alle concrete modalità acquisitive delle chat, sulla carenza documentale circa le attività di estrazione e decrittazione dei dati informatici, sulla impossibilità di accedere all’algoritmo utilizzato per la decrittazione delle chiavi di cifratura, sulla manca ostensione dei provvedimenti autorizzativi, nonché sulla impossibilità di verificare sia la genuinità e completezza dei flussi comunicativi, sia anche le modalità di identificazione dei vari conversanti.
Si tratta di doglianze suscettibili di una trattazione unitaria, per il ril dirimente che deve attribuirsi ai due principi congiuntamente affermati, in proposito, dalle richiamate decisioni delle Sezioni Unite: da un lato, la presunzione relativa di conformità ai diritti fondamentali dell’attività svolta dall’auto giudiziaria estera, nell’ambito di rapporti di collaborazione ai fini dell’acquisizio
di prove; dall’altro, l’onere per la difesa di allegare e provare il fatto dal qua dipende la violazione denunciata (cfr. Sez. U, sent. COGNOME, § 10.6, pag. 32 segg.).
2.2.1. In particolare, quanto alla presunzione di conformità dell’attività svolta dall’Autorità estera nell’ambito della collaborazione, il Supremo Consesso ha valorizzato non solo i costanti richiami al principio rinvenibili sia nel giurisprudenza di legittimità, sia in quella sovranazionale (cfr. rispettivamente, tra le pronunce richiamate, Sez. 6, n. 44882 del 04/10/2023, COGNOME, Rv. 285386, anch’essa relativa ad un’acquisizione di messaggistica criptata RAGIONE_SOCIALE, e Corte giustizia, 11/11/2021, Gavanozov, C-852/19, § 54), ma anche il puntuale riferimento contenuto nella Direttiva, il cui Considerando (19) è del seguente tenore: «La creazione di uno spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia nell’Unione si fonda sulla fiducia reciproca e su una presunzione di conformità, da parte di tutti gli Stati membri, al diritto dell’Unione e, in particolare, ai diritti fondamenta Tuttavia, tale presunzione è relativa. Di conseguenza, se sussistono seri motivi per ritenere che l’esecuzione di un atto di indagine richiesto in un o.e.i. comporti la violazione di un diritto fondamentale e che lo Stato di esecuzione venga meno ai suoi obblighi in materia di protezione dei diritti fondamentali riconosciuti nella Carta, l’esecuzione dell’o.e.i. dovrebbe essere rifiutata».
Anche quanto al secondo principio, che definisce e limita l’ambito del controllo riservato al giudice ad quem, le Sezioni Unite hanno sottolineato il suo consolidato radicamento nell’elaborazione giurisprudenziale, anche a Sezioni Unite. Tra le pronunce richiamate dalla sentenza COGNOME, cfr. Sez. U. n. 39061 del 16/07/2009, De brio, Rv. 244329 – 01, secondo cui «nel caso in cui una parte deduca il verificarsi di cause di nullità o inutilizzabilità collegate ad atti non rinvenibil fascicolo processuale (perché appartenenti ad altro procedimento o anche qualora si proceda con le forme del dibattimento – al fascicolo del pubblico ministero), al generale onere di precisa indicazione che incombe su chi solleva l’eccezione si accompagna l’ulteriore onere di formale produzione delle risultanze documentali – positive o negative – addotte a fondamento del vizio processuale».
Nel riaffermare la fondatezza e l’attualità del principio, la sentenza COGNOME ha richiamato anche l’ulteriore insegnamento secondo cui «per i fatti processuali, a differenza di quanto avviene per i fatti penali, ciascuna parte ha l’onere di provare quelli che adduce, quando essi non risultino documentati nel fascicolo degli atti di cui il giudice dispone» (così Sez. U, n. 45189 del 2004, COGNOME, in motivazione), ed ha altresì precisato che «l’osservazione deve essere ribadita perché l’art. 187, comma 2, cod. proc. pen. prevede che i fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali sono oggetto di prova, né vi sono dati normativi da cui inferire l’inversione, in questo specifico ambito, della regola generale secondo cui chi afferma l’esistenza di un fatto è gravato dell’onere della relativa prova» (Sez. U, sent. COGNOME, pag. 33).
Quel che interessa sottolineare, in questa sede, è l’approdo interpretativo raggiunto dalle Sezioni Unite, in termini del tutto inequivoci, attraverso
l’applicazione congiunta dei suddetti principi: «appare ragionevole concludere che l’onere di allegare e provare i fatti da cui inferire la violazione di diritti fondamen grava sulla difesa, quando è questa a dedurre l’inutilizzabilità o l’invalidità di a istruttori acquisiti dall’autorità giudiziaria italiana mediante o.e.i.» (Sez. U, se COGNOME, pag. 33 cit.).
2.2.2. In tale condivisibile prospettiva ermeneutica, non può non attribuirsi una rilevanza decisiva al mancato attivarsi da parte dei ricorrenti – a quanto consta – nel senso appena indicato.
Non si allude, evidentemente, alla scelta di essere giudicati con il rito abbreviato (opzione, com’è ovvio, del tutto insindacabile in questa sede), ma alla assoluta assenza di iniziative – pur compatibili con quel rito, ed in parte anzi espressamente previste – volte ad integrare la piattaforma probatoria a disposizione del giudicante, al fine di far emergere la prospettata violazione dei diritti fondamentali.
Non risulta, in particolare, che le difese si siano attivate anzitutto sollecitand il P.M. (e poi il giudice) all’emissione di un ulteriore o.i.e., ai sensi dell’art. 31 n. 108 del 2017, finalizzato ad ottenere presso lo Stato di esecuzione elementi di prova ulteriori a quelli trasmessi, ovvero ad acquisire informazioni sulle concrete attività espletate dagli investigatori esteri; né risulta che abbiano condizionato a tali ordini di richieste la propria scelta del giudizio abbreviato, ovvero abbian successivamente sollecitato il giudice procedente ad avvalersi dei poteri integrativi di cui all’art. 441, comma 5, cod. proc. pen., per far emergere la violazione dei diritti fondamentali, ovvero ancora abbiano prospettato la necessità di procedere, allo stesso fine, ad una rinnovazione istruttoria in appello, ai sensi dell’art. 60 cod. proc. pen.
I ricorrenti si sono invece limitati – salvo quanto si dirà nelle pagine seguenti a proposito del TUKU – a sollecitare l’annullamento della sentenza impugnata per l’inutilizzabilità delle conversazioni acquisite con o.i.e., lamentando (con le variant argomentative già ricordate richiamando i motivi di ricorso) di non aver potuto controdedurre efficacemente sulle modalità acquisitive, sulla completezza ed integrità del materiale trasmesso, ecc.
Si ripete peraltro che i ricorrenti non hanno corredato tali doglianze con la dimostrazione di non essersi “accontentati” di un giudizio allo stato degli atti, ma di avere – al contrario – adeguatamente tentato, prima e/o durante tale giudizio, di esercitare (senza riuscirvi) il proprio diritto all’acquisizione completa d compendio intercettativo decrittato dall’Autorità francese e della documentazione relativa alle modalità di acquisizione della prova, al fine – rispettivamente – d ovviare alla prospettata incompletezza dell’invio delle conversazioni, e di far emergere possibili manipolazioni del materiale, ovvero altre criticità idonee a prospettare, in termini di apprezzabile concretezza, il superamento della presunzione relativa di conformità di cui si è detto.
2.2.3. In tali termini, tra l’altro, si ritiene che debba essere affrontata e riso anche la questione della mancata messa a disposizione dell’algoritmo utilizzato per la decrittazione delle chiavi di cifratura delle conversazioni.
Si è visto infatti (cfr. supra, § 2) che le Sezioni Unite hanno escluso la sussistenza di una violazione dei diritti fondamentali, «in quanto il contenuto di ciascun messaggio è inscindibilmente abbinato alla sua chiave di cifratura, e l’utilizzo di una chiave errata non ha alcuna possibilità di decriptarlo anche solo parzialmente» (sent. COGNOME, Rv. 286589 – 05).
Si è però anche contestualmente e del tutto condivisibilmente chiarito, da parte del Supremo Consesso, che a tali conclusioni deve pervenirsi «salvo specifiche allegazioni di segno contrario»: spettava quindi alla difesa introdurre elementi idonei a far emergere, anche sul piano strettamente tecnico, la fallacia o quantomeno l’opinabilità del predetto assunto, e a prospettare quindi al giudicante l’opportunità o la necessità di procedere ad approfondimenti peritali in tal senso, ovvero a formulare richieste integrative allo Stato di esecuzione dell’o.i.e.
2.3. Anche la difesa del TUKU ha svolto considerazioni critiche imperniate sulla mancanza di documentazione in ordine alle attività di estrazione e decrittazione dei dati, che devono essere disattese sulla scorta delle argomentazioni svolte nei precedenti paragrafi.
Altrettanto infondata appare l’ulteriore eccezione di nullità, proposta con riferimento alla mancata traduzione, dal francese, del verbale di accompagnamento attestante la regolarità delle operazioni. Al riguardo, deve porsi in evidenza il fatto che è stata la stessa difesa ricorrente, subito dopo aver dedotto la nullità, a sottolineare e a lamentare il carattere meramente formale di quella attestazione di regolarità, con ciò dimostrando di aver ben compreso il contenuto dell’atto non tradotto, con ogni conseguenza ai sensi dell’art. 183, lett. b), cod. proc. pen.
2.3.1. Il TUKU ha peraltro anche dedotto una specifica questione di inutilizzabilità – prospettata come “patologica”, come tale rilevabile nonostante l’opzione per il giudizio abbreviato – evidenziando che l’apprensione delle chiavi di cifratura, da parte delle Autorità francesi, era avvenuta grazie all’introduzione nei server di captatori informatici (c.d. trojan), come esplicitamente ammesso dalla stessa Corte territoriale in un passaggio ricostruttivo dell’attività investigati svolta (pag. 38 seg.).
Al riguardo, la difesa ha preso le mosse dal tenore dell’art. 247, comma 1-bis, cod. proc. pen., che non contempla l’utilizzo del captatore nell’espletamento di una perquisizione informatica, e ha concluso nel senso della illegittimità dell’acquisizione e della inutilizzabilità delle conversazioni, avuto riguardo all disposizioni dell’art. 6 della direttiva, secondo cui la legittimità dell’o.i.e. è anco non solo al rispetto dei principi di necessità e proporzionalità (art. 6, lett. a), anche dell’ulteriore condizione per cui l’atto o gli atti di indagine richiesti nell’o
avrebbero potuto essere emessi alle stesse condizioni in un caso interno analogo (cfr. art. 6, lett. b della Direttiva).
2.3.2. La prospettazione difensiva non può essere condivisa, per un duplice ordine di considerazioni.
2.3.2.1. Va anzitutto posto in evidenza che non si verte, nel caso di specie, di un o.i.e avente ad oggetto l’assunzione di elementi probatori, ma di un o.i.e. con cui il P.M. procedente ha richiesto la trasmissione di prove già acquisite, nella disponibilità dello Stato di esecuzione. Con l’o.i.e., in altri termini, non è sta chiesto alla Francia di procedere ad attività captativa, né di effettuare perquisizioni informatiche o compiere atti altrimenti invasivi: l’oggetto della richiesta all Autorità francesi, come già più volte evidenziato, era costituito (nei limit ovviamente delineati dai numeri IMEI emersi nel corso dell’attività investigativa interna) dagli esiti dell’attività di intercettazione, che le predette Autorità avevan già decrittato.
Si tratta di un rilievo tutt’altro che marginale, in quanto – come efficacemente chiarito dalla sentenza COGNOME (cfr. § 12, pag. 34 ss.) – tale tipologia di richieste per un verso autonomamente regolata sul piano sovranazionale, con disposizioni volte a facilitarne la circolazione.
In particolare, da un lato, la Direttiva esclude che la richiesta possa essere evasa con un atto di indagine alternativo a quello richiesto qualora, «in base al diritto dello Stato di esecuzione, tali informazioni o prove avrebbero potuto essere acquisite nel quadro di un procedimento penale o ai fini dell’o.e.i.» (art. 10). D’altro lato, gli artt. 12 e 13 della Direttiva evidenziano che “quando le prove richieste mediante o.e.i. siano già in possesso dello Stato di esecuzione, la loro trasmissione allo Stato di emissione dovrebbe avvenire con immediatezza, perché non vi è alcun atto di indagine da compiere” (sent. COGNOME, pag. 34).
Sul piano interno, le Sezioni Unite hanno poi posto in evidenza il fatto che le norme in tema di “circolazione” delle prove sono diverse e meno stringenti di quelle che regolano la loro “assunzione”: e ciò “anche nel caso di prove, come le intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni, per la cui formazione è indispensabile la preventiva autorizzazione del giudice competente. Ovviamente, resta impregiudicato il potere del giudice competente per il procedimento penale nel quale le parti intendono avvalersi delle prove già separatamente formate o acquisite in altra sede di valutare se vi siano i presupposti per ammetterle ed utilizzarle ai fini della decisione” (sent. COGNOME, pag. 34, cit.).
In tale prospettiva (desunta dalle disposizioni contenute negli artt. 238, 270 cod. proc. pen., 78 disp. att. cod. proc. pen.), si è conclusivamente inteso sottolineare che il giudice, dinanzi alle prove trasmesse dall’Autorità estera, è tenuto a controllare “se vi fossero le condizioni per emettere l’o.e.i., così da assicurare il pertinente diritto di ‘impugnazione’ nello Stato di emissione previsto dall’art. 14, paragrafo 2, Direttiva 2014/41/UE, nonché se vi sia stata violazione dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione e dalla Carta di Nizza, e
quindi, del diritto di difesa e della garanzia di un giusto processo, in linea con quanto stabilito dall’art. 14, paragrafo 7, Direttiva cit., fermo restando che l’onere dell’allegazione e della prova in ordine ai fatti da cui desumere la violazione di tali diritti grava sulla parte interessata” (sent. COGNOME, pag. 37).
2.3.2.2. Occorre poi porre in evidenza che la questione sollevata dalla difesa COGNOME sembra postulare una piena sovrapponibilità non solo dei due sistemi giuridici (quello dello Stato di emissione dell’o.i.e., e quello dello Stato della su esecuzione), ma anche delle specifiche disposizioni dettate nei due sistemi per disciplinare ogni momento dell’attività investigativa: sicchè dalla mera constatazione dell’assenza di riferimenti al captatore informatico, all’interno dell’art. 271, comma 1-bis, cod. proc. pen., dovrebbe necessariamente concludersi – nella prospettiva della difesa ricorrente – per l’illegittimità dell’o.i.e. ricorrendo il presupposto della possibilità di una sua emissione “alle stesse condizioni in un caso interno analogo”, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 6 de Direttiva.
Anche a tale specifico riguardo, si ritiene di dover pienamente condividere i principi affermati dalle Sezioni Unite.
In particolare, con riferimento al presupposto qui da ultimo richiamato, il Supremo Consesso ha chiarito in termini espressi quanto inequivoci che “in forza del coordinamento normativo tra il d.lgs. n. 108 del 2017 e la Direttiva 2014/41/UE, sembra ragionevole affermare che, ai fini dell’utilizzabilità di atti acquisiti mediante o.e.i. dall’autorità giudiziaria italiana, è necessario garantire rispetto dei diritti fondamentali previsti dalla Costituzione e dalla Carta dei diri fondamentali dell’Unione Europea, e, tra questi, del diritto di difesa e della garanzia di un giusto processo, ma non anche l’osservanza, da parte dello Stato di esecuzione, di tutte le disposizioni previste dall’ordinamento giuridico italiano in tema di formazione ed acquisizione di tali atti” (sent. COGNOME, § 10.5, pag. 31).
A tali conclusioni, le Sezioni Unite sono pervenute sia analizzando le disposizioni della Direttiva e dello stesso d.gs. n. 108 del 2017, sia richiamando analoghi principi affermati da questa Suprema Corte in tema di rogatoria internazionale (cfr. Sez. 2, n. 2173 del 22/12/2016, dep. 2017, Crupi Rv. 269000 – 01; Sez. 6, n. 43534 del 24/04/2012, Lubiana, Rv. 253797 – 01).
2.3.3. Altrettanto chiare sono state le considerazioni espresse dalle Sezioni Unite, in tale prospettiva, con riferimento al captatore informatico.
Si è infatti escluso (sent. COGNOME, § 15.4.1, pag. 43) «che l’inserimento di un captatore informatico sul server di una piattaforma di un sistema informatico o telematico costituisca mezzo ‘atipico’ di indagine o di prova, come tale non consentito dall’ordinamento italiano perché incidente sui diritti fondamentali della persona. In proposito, non assume valenza dirimente il fatto che, nel codice di rito, in materia di intercettazioni, si faccia menzione della sola ipotes dell’inserimento di un captatore informatico su un dispositivo elettronico portatile’. Il captatore informatico, infatti, non è un autonomo mezzo di ricerca della prova,
e tanto meno un mezzo di prova, bensì uno strumento tecnico attraverso il quale esperire il mezzo di ricerca della prova costituito dalle intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni. Sicché non è indispensabile che il legislatore preveda dove lo stesso possa essere ‘inserito’. E una conferma di questa conclusione può essere desunta dall’elaborazione della giurisprudenza di legittimità, anche delle Sezioni Unite, la quale, già prima che venisse previsto dalla legge l’utilizzo del captatore informatico come strumento per effettuare attività di intercettazione, ne aveva ritenuto legittimo l’impiego a tali fini, precisandone anche l’ammissibilità, nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata, con riguardo a captazioni di conversazioni o comunicazioni tra presenti in luoghi di privata dimora (così, per tutte, Sez. U, n. 26889 del 28/04/2016, COGNOME, Rv. 266905 – 01)».
Gli insegnamenti delle Sezioni Unite, qui appena testualmente riportati, consentono di cogliere il punto nodale della questione sollevata.
Ritiene il Collegio che una inutilizzabilità deducibile anche nel giudizio abbreviato, in quanto “patologica”, avrebbe forse potuto essere fondatamente ipotizzata qualora il captatore informatico fosse stato espunto dal nostro ordinamento, perché ad es. ritenuto un mezzo eccessivamente invasivo della sfera della persona, con ogni conseguenza in tema di violazione dei diritti fondamentali (allo stesse conclusioni potrebbe anche giungersi ad es. nell’ipotesi in cui risulti che le prove, trasmesse in esecuzione di un o.i.e., siano state assunte con metodi o tecniche incidenti sulla libertà dF autodeterminazione della persona, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 188 cod. proc. pen.).
Nulla di tutto ciò è invece sostenibile con riferimento al captatore informatico, che non solo non è stato espunto dall’ordinamento, ma è stato anzi esplicitamente disciplinato nell’ambito delle disposizioni dedicate dal codice di rito all’attiv captativa, sia pure nella diversa prospettiva della possibilità del suo inserimento in dispositivi portatili (cfr. art. 266, commi 2 e 2-bis, cod. proc. pen.). E’ peral evidente che tale diversa modalità di regolazione dello strumento non può in alcun modo far ritenere configurabile, alla luce della sentenza COGNOME, una illegittimità dell’o.i.e. né, tanto meno, una violazione dei diritti fondamentali della persona.
2.4. La stessa difesa del TUKU, come quella dell’altro ricorrente COGNOME ha poi prospettato la necessità di una nuova rimessione alle Sezioni Unite, e comunque il sostanziale superamento dei principi affermati dalle “sentenze gemelle”, avuto riguardo alla necessità di dare prevalenza a quanto affermato in una recentissima pronuncia della Corte di Giustizia (Grande Sezione, 30 aprile 2024) emessa – sulle questioni interpretative della Direttiva proposte, con rinvio pregiudiziale, dal Tribunale di Berlino nel procedimento a carico di NOMECOGNOME – proprio con riferimento all’acquisizione, in forza di un o.e.i., di elementi di prova già i possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione: elementi costituiti, in questo caso, da conversazioni intercorse avvalendosi di un sistema di nnessaggistica cifrato (“ENCROCHAT”).
In particolare, i difensori hanno posto l’accento sul par. 104 e 105 della sentenza, dedicati alla necessaria verifica, ai sensi dell’art. 14 della Direttiva, de rispetto dei diritti della difesa e della garanzia di un giusto processo: la Corte d Giustizia ha invero affermato che, «un organo giurisdizionale, qualora consideri che una parte non sia in grado di svolgere efficacemente le proprie osservazioni in merito a un elemento di prova idoneo ad influire in modo preponderante sulla valutazione dei fatti, deve constatare una violazione del diritto ad un processo equo ed escludere tale mezzo di prova al fine di evitare una violazione di questo tipo» (par. 105).
2.4.1. Le conclusioni tratte dai difensori, sulla scorta di tale passaggio argomentativo della Corte di Giustizia, non possono essere condivise.
Deve anzitutto porsi in rilievo il fatto che i principi affermati dalle Sezioni Uni hanno trovato alcune importanti conferme nella decisione della Grande Sezione: si allude, in particolare, alla non necessità di un previo intervento del giudice per l’emissione di un o.i.e avente ad oggetto prove già acquisite dallo Stato di esecuzione, anche quando, nel diritto interno, la raccolta di quelle prove avrebbe imposto l’adozione di un provvedimento del giudice (cfr. il § 77 della sentenza). Altrettanto significativa risulta poi la precisazione, contenuta nel § 96 della sentenza, per cui l’art. 6 della Direttiva non richiede che l’emissione di un o.i.e. “diretto alla trasmissione di prove già in possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione sia soggetta alle stesse condizioni sostanziali applicabili, nello Stato di emissione, in materia di raccolta di tali prove”.
Quel che peraltro interessa sottolineare, per il dirimente rilievo che assume nell’apprezzamento della questione sollevata sulla scorta del § 105 della sentenza, è il fatto che la necessità di espungere gli elementi di prova, sui quali la difesa non sia “in grado di svolgere efficacemente le proprie osservazioni”, deve essere interpretata alla luce anche dei principi poco prima affermati dalla Corte di Giustizia.
Viene in rilievo, in particolare, il § 99 della sentenza, nel quale l’o.i.e. vie ricondotto tra gli strumenti della cooperazione giudiziaria in materia penale, ai sensi dell’art. 82 TFUE: cooperazione che «è fondata sul principio del reciproco riconoscimento delle sentenze e delle decisioni giudiziarie. Orbene, tale principio, che costituisce la ‘pietra angolare’ della cooperazione giudiziaria in materia penale, è a sua volta fondato sulla fiducia reciproca nonché sulla presunzione relativa che gli altri Stati membri rispettino il diritto dell’Unione e, in particolare, i fondamentali».
In buona sostanza, la centralità del principio della fiducia reciproca tra gli Stati e della presunzione relativa del rispetto del diritto dell’Unione e dei diri fondamentali, già sottolineato a chiare lettere dalle Sezioni Unite, non avrebbe potuto essere ribadito in termini più inequivoci.
Immediate, e non meno dirompenti, appaiono le conseguenze che, da tali premesse, la Corte di Giustizia ha tratto nel paragrafo successivo: si afferma infatti
«che, qualora mediante un o.i.e. l’autorità di emissione intenda ottenere la trasmissione di prove già in possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione, tale autorità non è autorizzata a controllare la regolarità del distinto procedimento con il quale lo Stato membro di esecuzione ha raccolto le prove di cui essa chiede la trasmissione» (§ 100).
2.4.2. Quanto precede consente di concludere nel senso che i principi affermati dalle Sezioni Unite hanno trovato piena conferma nel successivo intervento della Corte di Giustizia, non solo quanto ai profili già in precedenza evidenziati e alla massima valorizzazione (in termini, addirittura, di “pietra angolare” della cooperazione) del riconoscimento reciproco e della presunzione relativa di rispetto dei diritti fondamentali, ma anche quanto alla necessità che sia la parte interessata ad attivarsi per far emergere il superamento di tale presunzione.
È invero evidente – a meno di non voler giungere a paradossali conclusioni di intrinseca contraddittorietà motivazionale – che se l’Autorità dello Stato di emissione “non è autorizzata” a controllare il procedimento di acquisizione delle prove raccolte dallo Stato di esecuzione, il successivo controllo riservato al giudice ad quem, chiamato a valutare l’utilizzabilità del materiale trasmesso anche quanto al rispetto dei diritti ad un processo equo, non può assumere connotazioni meramente esplorative.
Conseguentemente, la deduzione volta a prospettare in sede di legittimità una violazione di diritti fondamentali, correlata all’acquisizione di elementi di prov mediante o.i.e., deve necessariamente fondarsi su situazioni patologiche rilevabili ictu oculi (cfr. quanto già ipotizzato a proposito di prove raccolte in palese violazione dell’art. 188 cod. proc. pen.), ovvero sull’ingiustificato rigetto pretermissione di specifiche allegazioni o sollecitazioni difensive, aventi connotazioni di concretezza idonee a far ritenere superata la presunzione relativa di conformità: elementi che, nella fattispecie in esame, difettano totalmente.
Si ritiene conclusivamente, sulla scorta di quanto finora esposto in ordine ai principi espressi dalle Sezioni Unite e dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia, di non dover accogliere le richieste di nuova rimessione e di rinvio pregiudiziale, rispettivamente formulate dalle difese ricorrenti.
Le pagine che seguono saranno dedicate all’esame delle residue censure proposte da ciascun ricorrente, alla luce del compendio argomentativo desumibile (secondo i noti principi in tema di “doppia conforme”) dalla valutazione congiunta delle sentenze di primo e di secondo grado.
Prendendo le mosse dalla posizione del DEDA, ritiene il Collegio che i motivi di ricorso siano infondati.
3.1. La censura concernente la prospettata incompletezza delle acquisizioni è generica.
È invero sufficiente scorrere la sentenza di primo grado per comprendere che le frasi pronunciate dal DEDA sono ampiamente riportate, anche nella loro inequivocabile valenza accusatoria: solo a titolo esemplificativo, basti qui
richiamare le conversazioni concernenti i capi 12 e 13 (pag. 324 segg. della sentenza), in cui il DEDA dialoga intensissimamente sia con il TUKU (che inoltra al fornitore ALIBABA le richieste del ricorrente su quantitativo, prezzo ecc., chiedendogli foto della merce), sia con lo SCARANTINO, anche per l’individuazione del luogo migliore per effettuare lo scambio; DEDA tra l’altro si offre di garantire personalmente la “sicurezza” dell’uscita autostradale (pag. 331: “la controllo io la zona quando sarà per uscire…se ci sono i posti di blocco o no”). Allo stesso modo, quanto al capo 14), le numerosissime conversazioni SKY ECC riportate dal giudice di primo grado (pag. 346 segg.) sono precedute dall’invio da parte del TUKU avvalendosi della stessa tecnologia criptata – di fotografie raffiguranti cinque panetti di cocaina al DEDA, il quale risponde dicendosi sicuro di riuscire a piazzarli. Cfr. anche pag. 348, in cui si riporta il messaggio con cui il DEDA esegue gli ordini appena ricevuti dallo SCARANTINO, invitando il TUKU a non aver confezionare la droga con le buste da freezer, per evitare discussioni con i clienti.
È allora evidente, in tale inequivocabile contesto, che la difesa avrebbe dovuto indicare puntualmente le conversazioni mancanti, evidenziandone la decisività sia con riferimento all’affermazione di responsabilità per i reati-fine, sia co riferimento alla contestazione associativa. Nulla di tutto ciò è avvenuto, con conseguente genericità della doglianza.
3.2. Per ciò che riguarda la conferma della condanna per il reato associativo, rileva il Collegio che il sintetico riferimento della Corte territoriale alla possib di desumere la sussistenza del sodalizio, e la partecipazione ad esso, anche dalle modalità di commissione dei reati-fine (pag. 51 della sentenza impugnata), deve essere integrato non solo dalle ulteriori indicazioni relative all’identificazione n DEDA del soggetto conversante nel sistema RAGIONE_SOCIALE con lo pseudonimo “FERRARI” (pag. 52), ma anche con quanto ben più diffusamente precisato nella sentenza di primo grado.
Il G.u.p. ha invero posto in evidenza, dall’analisi dei reati-scopo, l’emersione della figura del DEDA quale soggetto a disposizione dello COGNOME (soggetto al vertice del sodalizio) sia per assicurare continue forniture di important quantitativi di sostanza stupefacente (per lo più interfacciandosi con il TUKU), sia anche per lo svolgimento, attraverso il COGNOME (noto nelle chat criptate come “LAMBRUSCO”), dei compiti di trasporto della sostanza stupefacente commissionati dallo COGNOME (cfr. sul punto pag. 266 seg.). Sempre dalla sentenza di primo grado, emergono poi sia gli elementi che avevano consentito di identificare nel DEDA uno dei soggetti coinvolti nelle conversazioni RAGIONE_SOCIALE (l’utenza usata da COGNOME era stata rinvenuta nella perquisizione presso il ricorrente: cfr. pag. 265), sia l’importanza di tali conversazioni nella “rilettura” acquisizioni investigative tradizionali (cfr. pag. 266 in ordine alla conferma che uno degli incontri monitorati era «effettivamente finalizzato ad una consegna di sostanza stupefacente, nella quale COGNOME funge da corriere e COGNOME da staffetta, operazione che viene coordinata da COGNOME NOME e che vede
l’intervento di COGNOME quale custode della droga acquistata e di NOME COGNOME come venditore o intermediario e della quale viene messo al corrente anche COGNOME NOME»).
Si è dunque in presenza di un compendio argomentativo ampiamente idoneo ad inquadrare anche in chiave associativa la figura del DEDA. Le censure difensive si risolvono, in realtà, in rilievi sul merito delle valutazioni concordemente espresse dai giudici di merito, e nella prospettazione di una diversa e più favorevole lettura delle risultanze acquisite, il cui apprezzamento, in questa sede, è evidentemente precluso.
3.3. Anche le doglianze concernenti la conferma della condanna per il reato associativo, nonostante la configurabilità di un bis in idem (essendo il DEDA stato nel frattempo condannato con sentenza irrevocabile, in altro procedimento, per il reato di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990), non possono essere condivise.
Risulta invero assorbente – al di là delle puntualizzazioni di ordine temporale operate dalla difesa – il fatto che il reato associativo per il quale il DEDA h riportato condanna irrevocabile era stato contestato, oltre che al TUKU, ad altri due soggetti (COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME) che risultano totalmente estranei alla compagine associativa ipotizzata nel presente procedimento. Si tratta, evidentemente, di una circostanza radicalmente ostativa alla possibilità di ritenere che il DEDA sia stato condannato due volte per lo stesso fatto, e di accogliere quindi l’eccezione difensiva.
3.4. Prive di fondamento sono anche le censure concernenti la conferma dell’affermazione di responsabilità per i reati-fine, alla luce del già richiamat tenore, totalmente inequivoco, delle conversazioni coinvolgenti il DEDA. Quanto alla prospettata incompletezza delle conversazioni acquisite, non può che rinviarsi a quanto già precedentemente osservato (cfr. supra, § 3.1).
3.5. Del tutto inconsistente appare la censura concernente l’aggravante di cui al comma 6 dell’art. 73, contestata al DEDA nei reati fine: censura imperniata sull’avvenuta assoluzione del TUKU dal reato associativo, circostanza che nell’ottica difensiva – determinerebbe il venir meno del numero minimo di tre persone sul “fronte acquirenti” (cfr. sul punto, tra le altre, Sez. 1, n. 37686 de 17/06/2022, Avila, Rv. 283511 – 01, secondo cui «in tema di sostanze stupefacenti, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante del concorso di tre o più persone di cui all’art. 73, comma 6, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, è necessario che la pluralità dei soggetti sia riferibile a una delle condotte previst per l’integrazione del reato (offerta, eventuale intermediazione, acquisto, detenzione o altre), non essendo sufficiente l’indistinta attribuzione della pluralit delle condotte ai concorrenti, a prescindere dallo specifico ruolo di ciascuno di essi»).
È sufficiente evidenziare, al riguardo, che i vari reati ascritti allo RAGIONE_SOCIALE sono stati contestati in concorso anche con altri soggetti, separatamente giudicati, coinvolti anch’essi come “parte acquirente” (cfr. ad es. capo 10, contestato anche
al COGNOME e agli COGNOME; capo 12, contestato anche, tra gli altri, al COGNOME e agli COGNOME).
3.6. Ad analoghe conclusioni di infondatezza deve pervenirsi per le residue censure.
Invero, l’esposizione dei plurimi motivi alla base della ritenuta congruità del trattamento sanzionatorio («…alla luce dell’estrema gravità del fatto, della capacità a delinquere dimostrata, dell’attivazione da parte dell’imputato per il reperimento di altri sodali, come rilevato dalla presentazione allo COGNOME in qualità di possibile corriere»: cfr. pag. 52 della sentenza impugnata) deve ritenersi implicitamente espressiva anche della valutazione di insussistenza di elementi favorevolmente apprezzabili nel senso auspicato dalla difesa (sulla possibilità di desumere implicitamente la motivazione del diniego delle attenuanti generiche, alla luce del rigetto della richiesta di mitigazione del trattamento sanzionatorio, cfr. Sez. 1, n. 12624 del 12/02/2019, COGNOME, Rv. 275057 – 01).
Il ricorso del TUKU è nel suo complesso infondato.
4.1. Per ciò che riguarda le censure concernenti l’utilizzo, a carico del ricorrente, delle conversazioni svolte con il sistema cifrato SKY ECC, non può che farsi integrale rinvio a quanto già esposto sia in generale (§ 2), sia con specifico riferimento alle ulteriori doglianze proposte dal TUKU (§ 2.3).
4.1.1. È solo opportuno precisare, da un lato, che quanto esposto in quella sede in ordine alle conseguenze preclusive, derivanti dal mancato attivarsi dei ricorrenti nel corso del giudizio abbreviato, deve ritenersi applicabile anche per ciò che riguarda l’omessa trasmissione dei verbali e delle registrazioni, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 270 cod. proc. pen.
Occorre infatti richiamare, anche a tale specifico proposito, quanto affermato dalle Sezioni Unite (sent. Giorgi, § 15.1, pag. 40 seg.) sulla scorta di principi de tutto consolidati nella giurisprudenza di legittimità, secondo i quali «ai fi dell’utilizzabilità degli esiti di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni procedimento diverso da quello nel quale esse furono disposte, non occorre la produzione del relativo decreto autorizzativo, in quanto l’art. 270 cod. proc. pen. prevede esclusivamente il deposito, presso l’autorità giudiziaria competente per il “diverso” procedimento, dei verbali e delle registrazioni delle intercettazioni medesime, né sono altrimenti previste sanzioni di inutilizzabilità (Sez. U, n. 45189 del 17/11/2004, COGNOME, Rv. 229244 – 01, e Sez. 1, n. 49627 del 14/11/2023, COGNOME, Rv. 285579 – 02). Sempre secondo il costante orientamento di questa Corte, grava sulla parte che eccepisce l’invalidità o l’inutilizzabilità dell intercettazioni provenienti da altro procedimento l’onere di allegare e provare il fatto dal quale dipende la patologia denunciata (Sez. U, n. 45189 del 17/11/2004, COGNOME, Rv. 229245 – 01), e, quindi, nel caso di censura concernente il vizio di motivazione apparente, di produrre sia il decreto di autorizzazione emesso nel procedimento diverso sia il documento al quale esso rinvia (Sez. U, n. 45189 del
17/11/2004, COGNOME Rv. 229246 – 01, nonché Sez. 1, n. 11168 del 18/02/2019, COGNOME, Rv. 274996 – 01)».
4.1.2. Con riferimento poi alle doglianze relative alla mancata integrale trasmissione delle conversazioni captate e decrittate, va anzitutto evidenziato che la questione non risulta esser stata dedotta in appello: né la difesa ha contestato, in questa sede, il riepilogo dei motivi operato dalla Corte territoriale (cfr. sul punt Sez. 2, n. 31650 del 03/04/2017, COGNOME, Rv. 270627 – 01).
In ogni caso, le censure appaiono generiche per le stesse ragioni evidenziate con riferimento alla posizione del DEDA: nella sentenza di primo grado, sono state infatti riportate numerosissime conversazioni, dal contenuto inequivocabile, che vedono protagonista il TUKU: si richiama, per tutte, la conversazione riportata a pag. 354, nella quale il DEDA esterna al ricorrente i rischi connessi agli spostamenti in periodo di lockdown, per il numero di posti di blocco trovati nei viaggi di andata (“quando sono andato a prendere”) e ritorno, ed il COGNOME risponde facendo riferimento alla grande richiesta di droga del momento (“c’è tanto lavoro adesso ti giuro”), e citando suo il consolidato rapporto con un cliente bolognese (“a portarglielo a 37 i soldi in mano sei pezzi due volte al mese”).
Dinanzi alle numerosissime conversazioni di analogo tenore, la difesa del TUKU avrebbe dovuto evidentemente formulare, nel corso del giudizio abbreviato, le proprie richieste integrative del compendio probatorio, evidenziandone ovviamente la decisività.
4.2. Le censure imperniate sul versamento, da parte del TUKU, della somma di Euro 10.000 in favore di una cooperativa per il recupero dei tossicodipendenti appaiono reiterative, e comunque manifestamente infondate.
La Corte territoriale ha infatti motivato, in termini del tutto incensurabili questa sede, la propria valutazione di inidoneità di tale versamento ad integrare l’attenuante di cui all’ad 62, n. 6, cod. pen.: avendo in particolare escluso sia la possibilità di attribuire, al predetto versamento, alcuna valenza di efficace attenuazione delle conseguenze derivanti dall’immissione del mercato di complessivi 23 chili di cocaina (calcolati sommando i quantitativi oggetto dei capi di accusa ascritti al TUKU), sia anche la possibilità di considerare tale iniziativa un indice di resipiscenza, avuto riguardo agli ingentissimi profitti incassati con l’attività illecita, comprovati dalla partecipazione del TUKU ad un’asta on line per l’acquisto di un immobile di valore superiore ad Euro 350.000 (cfr. pag. 47 della sentenza impugnata).
Altrettanto incensurabile risulta la motivazione volta ad escludere la rilevanza del predetto versamento ai fini della concessione delle attenuanti generiche, avendo la Corte d’Appello legittimamente ritenuto tale iniziativa “soccombente” rispetto al disvalore correlato alla entità e continuità del commercio illecito (emersi con assoluta chiarezza ad onta della mancata contestazione dell’aggravante di cui all’art. 80), ai legami internazionali nel settore del narcotraffico vantati dal TUKU,
nonché al sistematico ricorso a “raffinate” tecniche di comunicazione cifrata (cfr. pag. 48).
4.3. Anche la residua censura è manifestamente infondata.
Lungi dall’essersi limitata a considerare la gravità dei reati ascritti, la Cor d’Appello ha motivato la conferma dell’espulsione del TUKU valorizzando anche la pericolosità sociale del ricorrente, “quale dimostrata dal suo inserimento in ambiti dediti ai più alti livelli del traffico internazionale di stupefacenti, inserimento c TUKU potrebbe coltivare in futuro, essendo rimasti ignoti i suoi collegamenti all’estero” (pag. 48, cit.).
Il ricorso proposto nell’interesse del PALI è nel suo complesso infondato.
5.1. Anche per la posizione del predetto ricorrente, può farsi integrale rinvio a quanto in precedenza osservato (cfr. supra, § 2) con riferimento alle doglianze relative all’utilizzo delle conversazioni SKY ECC trasmesse in esecuzione dell’o.i.e., e alle conseguenze derivanti dal mancato tempestivo attivarsi, con richieste integrative, nel corso del giudizio abbreviato.
5.2. Le censure concernenti l’identificazione, nel PALI, del “COGNOME” coinvolto in numerose conversazioni SKY ECC, si risolvono in censure del merito delle valutazioni concordemente espresse dai giudici di primo (pag. 288 segg.) e di secondo grado (pag. 52 seg.).
Al di là della conversazione tra COGNOME e COGNOME comprovante il sequestro in Svizzera dell’auto intestata e in uso al ricorrente (conversazione contestata nella sua univocità dalla difesa, essendo emerso che alla guida era stato sorpreso COGNOME NOME, fratello del ricorrente), i giudici di merito hanno identificato COGNOME nel “COGNOME” costantemente in contatto con il DEDA, e talora anche con lo COGNOME, sulla base di ulteriori convergenti risultanze. Da un lato, il fatto che il DEDA avesse in un’occasione detto al proprio interlocutore di “trovarsi in cantiere con COGNOME“, essendo pacifico che il DEDA lavorava all’epoca presso la RAGIONE_SOCIALE, unitamente ad altri soggetti tra i quali, appunto, COGNOME (cfr. pag. 291 sent. primo grado); tra l’altro, il titolare dell’azien aveva confermato che i due avevano eseguito lavori nella zona di Cremona proprio nei giorni in cui le corrispondenti utenze RAGIONE_SOCIALE avevano fatto registrare alcuni simultanei “sconfinamenti” nella zona predetta (pag. 292). Infine, è stata valorizzata la perfetta coincidenza delle date di un viaggio di andata e ritorno in Albania, riferite da COGNOME al DEDA in una conversazione SKY ECC, con le date del controllo di COGNOME NOME nelle zone di arrivi e partenze dell’aeroporto di Bologna (pag. 292, cit.).
Si è in definitiva in presenza di concordi valutazioni di merito espresse in termini tutt’altro che illogici, che la difesa ha inteso contrastare prospettando una diversa lettura delle risultanze acquisite, ovvero prospettando, in termini del tutto congetturali, l’eventualità che al viaggio predetto potesse aver partecipato anche il fratello del ricorrente.
5.3. Considerazioni analoghe devono essere svolte con riferimento ai rilievi difensivi concernenti la partecipazione del PALI al sodalizio di cui al capo 1).
Anche in questo caso, i giudici di merito hanno dato adeguatamente conto delle loro conformi valutazioni, sottolineando in primo luogo la valenza anche associativa del fatto che era stato lo COGNOME – soggetto pacificamente al vertice del sodalizio – a cedere il proprio cellulare al ricorrente (tramite il DEDA), e a riservargli l’appellativo di COGNOME (cfr. sul punto pag. 288 della sentenza del G.u.p.).
Si è poi fatto riferimento all’attività di corriere, continuativamente svolta da COGNOME mettendosi a disposizione dello COGNOME tramite il DEDA (cfr. pag. 53 della sentenza impugnata): dalle conversazioni RAGIONE_SOCIALE, di tenore assolutamente univoco, emerge tra l’altro che il COGNOME interloquiva frequentemente anche per ottenere un guadagno maggiore per tale attività (cfr. le specifiche richieste rilevate nelle conversazioni di cui al capo 18, subito girate dal DEDA allo COGNOME: pag. 407 della sentenza di primo grado), e ed era stato convinto da quest’ultimo con la prospettiva di ulteriori viaggi da effettuare a breve.
La difesa ha censurato l’inquadramento di tali condotte in chiave associativa, da un lato contestando l’affermata esistenza di contatti diretti tra il COGNOME e lo COGNOME, dall’altro argomentando dall’intervenuta assoluzione del TUKU dal reato in questione.
Si tratta di rilievi infondati. Quanto al primo aspetto, è sufficiente richiamare la conversazione in cui COGNOME si rivolge a COGNOME dicendogli “niente ho parlato con COGNOME per domani e dopodomani…sì domani altri tre chili…e dopodomani 300″ (cfr. pag. 406 della sentenza di primo grado).
Del tutto improprio appare poi l’accostamento con la posizione del TUKU, assolto dal reato associativo perché considerato – nelle concordi valutazioni dei giudici di merito – un mediatore per conto di tale ALIBABA e di altri fornitori olandesi, con il quale era il DEDA ad interfacciarsi per conto del sodalizio. La figura del PALI è invece emersa in termini tutt’affatto diversi, quale appunto quella di un corriere costantemente a disposizione del DEDA e dello stesso COGNOME per il trasporto di stupefacente nei vani appositamente ricavati dalla propria auto: figura che peraltro era in grado di contrattare il proprio compenso, e di interloquire sulle modalità del trasporto (cfr. la conversazione richiamata a pag. 408 in cui il PALI si raccomanda con il DEDA di spiegare “che facciano in modo che soldi e merce entrino nel posto”).
5.4. Anche la residua censura deve essere disattesa.
La Corte territoriale ha invero ritenuto irrilevanti, alla luce di quant complessivamente emerso, gli elementi valorizzati dalla difesa per la concessione delle attenuanti generiche (incensuratezza, regolare soggiorno, rispetto delle prescrizioni imposte in sede cautelare). Si tratta di una motivazione sintetica ma incensurabile, avuto riguardo al disposto dell’ultimo comma dell’art. 62-bis cod. pen., alla commistione tra attività lecita e condotte delittuose con il collega d
lavoro DEDA, nonché alla irrilevanza – se non per evitare aggravamenti – d rispetto della misura cautelare applicata.
Il ricorso del COGNOME è nel suo complesso infondato.
6.1. Anche in relazione a tale imputato, è necessario fare integrale rin quanto precedentemente osservato in ordine alle censure di inutilizzabilità d conversazioni SKY ECC, anche quanto alle conseguenze preclusive correlate al mancato attivarsi nel corso del giudizio abbreviato (cfr. supra, § 2 e, quanto alla mancata trasmissione dei verbali e delle registrazioni di cui all’art. 270 cod pen., § 4.1.1.).
Deve solo aggiungersi, con riferimento all’ulteriore rilievo concernent mancanza di informazioni sul momento in cui l’A.G. francese ebbe contezza del fatto che l’attività captativa riguardava, almeno in parte, persone stabi dimoranti in Italia, che la censura chiama in causa le disposizioni dettate specifico riguardo dall’art. 31 della Direttiva e dall’art. 24 d.lgs. n. 108 d
Anche in questo caso, la questione è stata affrontata e risolta dalle Se Unite, le cui considerazioni è opportuno riportare testualmente.
Si è in particolare osservato (sent. COGNOME, § 15.5.2, pag. 47) che «l’ Direttiva cit. prevede che lo Stato nel quale sono state disposte le intercet dia ‘notifica’ di tali attività all’autorità competente nello Stato nel quale è l’indirizzo di comunicazione sottoposto a controllo, quando viene a conoscenza tale circostanza, e che quest’ultima possa vietare il compimento o la prosecuz delle operazioni, nonché l’utilizzazione dei risultati già ottenuti. Sulla bas disciplina, deve rilevarsi, innanzitutto, che l’obbligo di notifica sorge l’autorità procedente viene a conoscenza che l’intercettazione riguarda perso cui ‘indirizzo di comunicazione’ è utilizzato nel territorio di un altro S segnalato, poi, che l’eventuale intempestività della comunicazione no sanzionata di per sé, e che, in ogni caso, opera la garanzia della pos dichiarazione di inutilizzabilità da parte dell’autorità competente dello Stato è fatto uso dell”indirizzo di comunicazione’. Occorre considerare, ancora, divieto della Direttiva 2014/41/UE di iniziare o proseguire le attività di capt ovvero di utilizzarne i risultati, è previsto solo lq]ualora l’intercettazio ammessa in un caso interno analogo’. E, nella disciplina italiana di attuazione Direttiva cit., l’art. 24 d.lgs. n. 108 del 2017 prevede un’unica ipotesi vi le intercettazioni sono state disposte in riferimento a un reato per il quale, l’ordinamento interno, le intercettazioni non sono consentite’. Può qu concludersi che, nell’ordinamento italiano, sulla base della disciplina di cui 31 Direttiva 2014/41/UE, l’inutilizzabilità dei risultati di intercettazioni di autorità di altro Stato ed effettuate nei confronti di persone il cui ‘ind comunicazione’ è attivato in Italia sussiste solo se l’autorità giudiziaria rileva che le captazioni non sarebbero state consentite ‘in un caso interno ana perché disposte per un reato per il quale la legge nazionale non preved possibilità di ricorrere a tale mezzo di ricerca della prova».
Sulla scorta di tali insegnamenti, non può che concludersi per l’infondatezza della censura.
Invero, anche la mancata individuazione del momento in cui l’Autorità estera avrebbe dovuto notificare lo svolgimento di attività captativa nei confronti di persone presenti in Italia, deve essere posta in relazione al mancato tempestivo attivarsi delle parti interessate, nel senso precedentemente illustrato. È peraltro utile chiarire, alla luce dei principi dalle Sezioni Unite qui poc’anzi richiamati, ch tale mancata individuazione sarebbe stata comunque priva della valenza demolitoria auspicata dalla difesa, dal momento che, ai sensi dell’art. 24 d.lgs. n. 108, il G.i.p., una volta ricevuta la notifica, può disporre l’interruzione de operazioni di intercettazione, con conseguente inutilizzabilità dei risultati gi ottenuti, “solo se le intercettazioni sono state disposte in riferimento a un reato per il quale, secondo l’ordinamento interno, le intercettazioni non sono consentite” (cfr. il comma 2 dell’art. 24). Tale ipotesi non si è verificata nel caso di specie, in cui l’intercettazione delle conversazioni poi trasmesse in esecuzione dell’o.i.e., e le relative operazioni di decrittazione, sono state espletate nell’ambito di indagini relative ad associazione finalizzata al narcotraffico (cfr. sul punto pag. 37 della sentenza impugnata).
6.2. Le censure concernenti la conferma della condanna del COGNOME per il reato associativo presentano connotazioni reiterative, e sono comunque attinenti al merito delle valutazioni motivatamente e concordemente espresse dai giudici di merito.
6.2.1. Per ciò che riguarda l’elemento oggettivo del reato, la difesa ha in questa sede reiterato la tesi dell’irrilevanza degli elementi acquisiti a sostegno dell’ipote accusatoria, e comunque della loro irrilevanza quanto alla posizione del COGNOME.
Al riguardo, non può che ritenersi pienamente esaustiva e convincente l’affermazione della Corte territoriale (pag. 56 della sentenza impugnata) secondo cui gli elementi sintomatici della sussistenza di un sodalizio operante nel narcotraffico, al di là degli specifici reati-fine, non deve essere necessariamente verificata con riferimento a ciascun soggetto ritenuto partecipare al sodalizio medesimo. Elementi che del resto, nella fattispecie in esame, sono stati enucleati e valorizzati in termini tutt’altro che illogici, con il riferimento: alla creazi una rete di comunicazioni riservate correlata all’utilizzo di criptofonini abilitati messaggistica SKY ECC; alla disponibilità di locali adibiti al deposito e al confezionamento della droga, nonché di vetture opportunamente modificate per occultare il carico di stupefacente di volta in volta trasportato; alla accertata reiterata disponibilità di importanti quantitativi di droga da parte di soggetti costante contatto tra loro; alla disponibilità manifestata in caso di arresto di talun dei partecipanti (cfr. pag. 56, cit.).
6.2.2. Quanto poi alla partecipazione del RAGIONE_SOCIALE, deve osservarsi che i sintetici riferimenti della Corte territoriale al tenore dei messaggi captati, passaggi di involucri e documenti, nonché all’importante quantitativo di diverse
tipologie di droga rinvenuto in occasione dell’arresto del ricorrente, devono essere valutati congiuntamente alle ben più diffuse considerazioni svolte nella sentenza di primo grado.
Il G.u.p. ha invero posto in evidenza: la continuità di rapporti tra il COGNOME e gli COGNOME, emersa già in epoca precedente all’acquisizione delle esplicite conversazioni RAGIONE_SOCIALE grazie a servizi di appostamento e controllo (cfr. pag. 65 segg.); gli stretti contatti anche con l’altro associato COGNOME la chiamata in correità del collaboratore COGNOME, che aveva indicato il COGNOME quale stretto collaboratore dei fratelli COGNOME; i versamenti del COGNOME su un conto corrente per l’utilizzo del criptofonino; le circostanze dell’arresto in dat 14/01/2021 del ricorrente, il quale – poco prima dell’irruzione degli operanti nell’appartamento di INDIRIZZO dove si trovava – aveva tentato di disfarsi, lanciandolo dalla finestra, di un borsone contenente oltre tre chili di cocaina, quasi un chilo e mezzo di hashish, 80 grammi di crack e di una importante somma contante (cfr. pag. 260).
Proprio le circostanze dell’arresto del COGNOME sono state diffusamente analizzate dal G.u.p. (pag. 215 segg.), che ne ha evidenziato le connotazioni per così dire “associative”, anche alla luce della sopravvenuta disponibilità delle conversazioni RAGIONE_SOCIALE.
Già nei momenti che avevano preceduto l’arresto, ovvero nel corso della perquisizione espletata nell’appartamento di INDIRIZZO dove il COGNOME viveva con la compagna NOMECOGNOMENOME (unica presente in quel momento), gli operanti avevano notato, in primo luogo, un “disperato” tentativo del ricorrente di avvisare la compagna con due messaggi telefonici (che la donna aveva tentato di occultare), affinchè gettasse nel water quanto custodito nella cassaforte: il COGNOME aveva inviato i messaggi dall’altro immobile nella sua disponibilità, sito in INDIRIZZO poco prima dell’irruzione degli operanti. Inoltre, uno dei militi aveva notato, durante le operazioni, il sopraggiungere in monopattino di COGNOME NOME, il quale – accortosi della situazione – di era dileguato a piedi attraverso il parco (cfr. pag. 217). Successivamente, la lettura delle conversazioni RAGIONE_SOCIALE aveva consentito agli operanti (pag. 220 segg.) di apprendere che gli COGNOME erano venuti a conoscenza “pressochè in tempo reale” della perquisizione in INDIRIZZO ed avevano perciò tentato di contattare ed avvisare il COGNOME, avvalendosi dell’apporto di un soggetto albanese (che aveva notato per primo la presenza di “auto civetta” della polizia, ed aveva segnalato allo COGNOME l’opportunità di “ripulire” i depositi cui il COGNOME accedeva: cfr. pag. 221). Al momento poi dell’irruzione nell’appartamento di INDIRIZZO, lo COGNOME aveva tentato vanamente di contattare il COGNOME, il cui PIN cesserà quello stesso pomeriggio di essere attivo (cfr. pag. 222).
Appare superfluo evidenziare, sulla scorta di tali convergenti risultanze, la congruità della notazione di sintesi formulata dal G.u.p., secondo cui “la vicenda dell’arresto del COGNOME è del tutto calata nella vicenda del reato associativo” (cfr.
pag. 222, cit.). Altrettanto evidente appare l’inconsistenza delle argomentazioni difensive, volte a sostenere la mancanza di consapevolezza, in capo al COGNOME, di operare nel contesto del sodalizio di cui al capo 1), tentando di giustificare passaggi di danaro e documenti, comprovato dalle conversazioni, con la propria asserita attività di assicuratore.
6.3. Anche la doglianza relativa alla conferma dell’aggravante dell’associazione armata appare priva di fondamento.
La Corte territoriale ha invero adeguatamente motivato tale decisione, richiamando l’elaborazione giurisprudenziale che non richiede la prova di una correlazione tra la disponibilità dell’arma e gli scopi perseguiti (con ci distinguendosi dalla corrispondente disposizione in tema di associazione di stampo mafioso: cfr. Sez. 6, n. 15528 del 12/01/2021, COGNOME, Rv. 281212 – 01), nonché la già ricordata presenza dello COGNOME nei pressi dell’immobile in cui il COGNOME venne tratto in arresto.
Si tratta di un percorso argomentativo immune da censure qui deducibili, tenuto anche conto del fatto che il revolver in possesso del ricorrente era stato trovato nella cassaforte dell’appartamento di INDIRIZZO unitamente ad ulteriori quantitativi di sostanze stupefacente meglio descritti a pag. 216 della sentenza di primo grado (sostanze di cui la COGNOME avrebbe dovuto disfarsi, se avesse avuto il tempo di seguire le “istruzioni” inviate dal COGNOME poco prima dell’irruzione degli operanti in INDIRIZZO COGNOME: cfr. supra, § 6.2).
6.4. Le censure concernenti il capo 2) sono infondate.
Il coinvolgimento del COGNOME nelle fasi finali dell’acquisto dei dieci chili di cocaina è stato contestato dalla difesa sulla base di una conversazione in cui il COGNOME chiede all’interlocutore se si trovasse insieme a “NOME” (nickname identificativo del COGNOME): circostanza ritenuta decisiva, secondo la difesa, per escludere che, in quel momento, il COGNOME stesse chattando con l’odierno ricorrente.
La Corte territoriale ha disatteso la censura con argomenti che appaiono immuni da censure deducibili in questa sede. Si è infatti ritenuto “pacifico” (pag. 57) che l’utenza RAGIONE_SOCIALE fosse utilizzata sia dal COGNOME, sia dall’altro imputato COGNOME e si è ritenuto decisivo il fatto che, nelle successive conversazioni, il COGNOME avesse usato la forma plurale, per fornire indicazioni operative e logistiche (“al benzinaio formula uno in tangenziale, lo conoscete…venite al bar e mi seguite”..”caricate dal camion e mi seguite a posare il Golf”).
Le conclusioni della Corte d’Appello risultano pienamente in linea con quelle raggiunte nella sentenza di primo grado (pag. 294 seg.), dalla quale emerge non solo che le operazioni di acquisto erano state coordinate dallo COGNOME e che il COGNOME – in un primo momento indisponibile – si era invece palesato “al duo COGNOME” fornendo, sulla loro utenza (PIN CODICE_FISCALE) le indicazioni già richiamate, ma anche che il predetto duo era stato tempestato di messaggi durante le operazioni di stoccaggio della droga (pag. 294).
6.5. Ad analoghe conclusioni di infondatezza deve pervenirsi quanto alle residue censure.
6.5.1. Per ciò che riguarda la mancata concessione delle attenuanti generiche, la decisione della Corte territoriale è stata motivata con la estrema gravità dei fatti, con i preponderanti motivi di lucro alla base anche delle ultime condotte delittuose monitorate (il COGNOME si era lamentato di avere in casa solo 1.000 Euro, pretendendo di riceverne a breve altri 2.500 dal proprio interlocutore) e con la dedizione, prolungata nel tempo, all’attività illecita: elementi ritenuti prevalen su altre circostanze quali il rispetto delle misure cautelari applicate (cfr. pag. 59 della sentenza impugnata). Si tratta, all’evidenza, di una motivazione immune da censure proponibili in questa sede.
6.5.2. Quanto invece alla misura del trattamento sanzionatorio, deve per un verso osservarsi – con riferimento alla misura della pena base – che la Corte territoriale ha ritenuto che la personalità del COGNOME e l’intensità del dolo avessero orientato il giudicante nella fissazione della pena base in anni quindici, a nulla rilevando il fatto che, per una svista, il G.u.p. avesse identificato in quel misura il minimo della pena previsto per l’associazione armata (in realtà stabilito dalla legge in anni dodici).
Si tratta di una spiegazione plausibile della discrasia rilevata a pag. 473 della sentenza di primo grado, la cui lettura consente peraltro di escludere che il G.u.p. avesse inteso riferirsi ad una pena di dodici anni (dal momento che dalla pena base, aumentata di complessivi anni tre, mesi sei per i reati in continuazione, si era pervenuti alla pena finale di anni diciotto e mesi sei, da ridurre per il rito Quel che peraltro risulta dirimente è che la Corte d’Appello ha condiviso quella fissazione (cfr. l’ultimo paragrafo della sentenza, in cui si definisce “altrettant condivisibile” l’applicazione della libertà vigilata), con una decisione di merito che sfugge a rilievi deducibili in sede di legittimità.
6.5.2. Quanto poi alla misura degli aumenti per la continuazione, deve osservarsi che la censura di eccessività di un aumento di anni tre, mesi sei appare formulata in una prospettiva non condivisibile.
Il COGNOME è stato invero ritenuto responsabile di ben quattordici reati fine, in relazione ai quali – nonostante quasi tutti avessero ad oggetto movimentazioni di stupefacente dell’ordine di svariati chilogrammi – è stato applicato un aumento di soli tre mesi per ciascun delitto.
In tale diversa e preferibile prospettiva, ritiene il Collegio che la motivazione complessivamente dedicata alla personalità del BENGASI (oltre quanto già evidenziato, cfr. le ulteriori considerazioni svolte in tema di libertà vigilata, su rilevanza del ruolo svolto, e il suo pieno inserimento in ambienti dediti professionalmente ad alti livelli del narcotraffico) consenta di ritenere la sentenza immune da censure (cfr. le precisazioni operate da Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, COGNOME, Rv. 282269 – 01, in ordine alla necessità di parametrare l’impegno motivazionale, richiesto per gli aumenti ex art. 81 cod. pen., all’entità
degli aumenti medesimi, onde consentire di verificare il rispetto del rapporto di proporzione tra le pene, anche in relazione agli altri illeciti accertati).
Il ricorso del COGNOME è nel suo complesso infondato.
7.1. Con il primo motivo, la difesa ha reiterato l’eccezione di nullità del capo di imputazione per indeterminatezza del reato associativo contestato al capo 1).
Al riguardo, deve ritenersi del tutto immune da censure il percorso argomentativo tracciato dalla Corte d’Appello, la quale – pur dando atto dell’evoluzione del sodalizio nel corso del tempo sin da epoca risalente, come dimostrato dalla pluralità e complessità delle attività investigative – ha peraltro affermato in termini netti che “la imputazione indica precisamente che il periodo preso in considerazione decorre dall’ottobre 2019 al marzo 2021, oltre al riferimento alla datazione delle singole condotte, ciò che è esauriente al fine di definire la imputazione con estrema chiarezza” (cfr. pag. 48 della sentenza impugnata).
In definitiva, la Corte territoriale ha operato una delimitazione temporale inequivocabile, quanto al periodo preso in considerazione per il reato di cui al capo 1), consentendo di escludere qualsiasi possibilità di lesione dei diritti di difesa. Né tale chiarezza può in alcun modo ritenersi offuscata dai riferimenti, contenuti nelle sentenze di primo e secondo grado, ad una linea di continuità della struttura operativa dell’associazione, emergente dalle indagini collegate, dal subentro di nuovi soggetti, dalla individuazione di ulteriori basi operative, ecc. (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata).
7.2. Le residue censure prospettate nell’interesse del COGNOME attengono chiaramente al merito delle valutazioni operate dai giudici di primo e di secondo grado, e si risolvono nella prospettazione di una diversa e più favorevole lettura delle risultanze acquisite, che in questa sede non può evidentemente trovare ingresso.
Invero, con i richiami al numero limitato di contatti con i soli COGNOME e COGNOME, alla marginalità dell’apporto consistito nella messa a disposizione del proprio appartamento, nonché alla fragilità e all’età avanzata dal ricorrente, la difesa ha tentato di minimizzare la consistenza degli elementi acquisiti in chiave associativa. Si tratta appunto di una lettura alternativa a quanto esposto sia dalla Corte territoriale (con la valorizzazione non solo del ruolo di “magazziniere” svolta consentendo il deposito della droga nel proprio appartamento, ma anche della messa a disposizione di telefoni al COGNOME e della eloquente conversazione con quest’ultimo, in cui il COGNOME si dichiarava in grado anche di intercedere con il COGNOME per un maggior coinvolgimento del COGNOME nei traffici: pag. 49, cit.), sia – più diffusamente – dal giudice di primo grado.
Va infatti evidenziato che la valutazione di sintesi espressa dal G.u.p. a pag. 261, del tutto in linea con quella della Corte d’Appello, si fonda anche sull’accertata regolare frequentazione dell’appartamento, da parte anche del COGNOME per la
gestione dello stupefacente: attività cui il COGNOME collabora fattivamente, contribuendo al confezionamento della droga.
La valutazione di intraneità del ricorrente al sodalizio appare poi eloquentemente confermata da quanto illustrato dal G.u.p. con riferimento alle richieste di aumento del proprio compenso, formulate dal ricorrente al COGNOME (cfr. pag. 138 della sentenza) e soprattutto dalla conversazione con il COGNOME in cui il COGNOME si mostra pienamente a conoscenza dei meccanismi organizzativi del sodalizio, e riceve dal proprio interlocutore il consiglio di non fa nomi in caso di controlli, e di limitarsi ad ammettere di aver fornito uno spazio nell’appartamento, per la precaria situazione economica cfr. pag. 148).
8. Per ciò che riguarda la posizione del COGNOME, ritiene il Collegio che il primo motivo di ricorso sia fondato, ed assuma valenza assorbente delle altre censure prospettate.
8.1. Si è già poc’anzi accennato, analizzando i motivi di ricorso proposti dal COGNOME, al fatto che la Corte d’Appello ha tracciato in termini netti ed inequivocabili i confini temporali dell’imputazione associativa contestata al capo 1): confini compresi tra l’ottobre 2019 ed il marzo 2021 (cfr. supra, § 7.1), come confermato, con altrettanta chiarezza, trattando l’analogo motivo di appello che era stato proposto nell’interesse del COGNOME (cfr. pag. 50 della sentenza impugnata). I
I
Muovendosi in stretta aderenza a tale precisazione – che deve ovviamente ritenersi applicabile alle posizioni di tutti gli imputati, e non solo di quell avevano proposto l’eccezione di nullità per indeterminatezza del capo di accusa la difesa dal ricorrente ha dedotto una carenza motivazionale dovuta al fatto che l’affermazione di penale responsabilità del COGNOME (chiamato a rispondere, nell’odierno giudizio, del solo reato associativo) era stata motivata con il richiamo a condotte ed episodi anteriori al periodo considerato.
Il rilievo merita accoglimento, in quanto – pur essendo ovviamente apprezzabili anche le condotte risalenti ad un periodo diverso da quello considerato nel capo di accusa, per meglio inquadrare la figura di ciascun soggetto imputato della partecipazione al sodalizio – nessun dubbio può porsi sulla necessità che la condanna si fondi sulla valorizzazione di condotte ricadenti nell’ambito temporale rilevante, o quanto meno su una adeguata illustrazione delle ragioni per cui la valenza associativa di una determinata condotta possa essere “proiettata” anche in un periodo successivo a quello della sua commissione.
Sul punto, la motivazione della sentenza impugnata risulta carente: ciò impone l’annullamento della sentenza impugnata, quanto al COGNOME con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di Appello di Bologna. Restano ovviamente impregiudicate le ulteriori questioni proposte anche con riferimento alle dichiarazioni accusatorie del collaboratore COGNOME ritenute insufficienti già in primo grado per condannare il ricorrente per il reato di cui al capo 4), e tuttavia
considerate idonee a fondare l’affermazione di responsabilità del BEDHIAFI qua al reato associativo.
Il ricorso del COGNOME è infondato.
9.1. La difesa ricorrente ha limitato le proprie doglianze all’afferma responsabilità per il reato associativo (il COGNOME è stato condannato anche concorso nel reato di cui al capo 25), svolgendo considerazioni che diversamente da quanto già notato a proposito di altre posizioni – int censurare il merito delle valutazioni espresse nelle sentenze di primo e di grado, e prospettare una lettura alternativa delle risultanze acquisite: o non consentita in questa sede.
Ciò che occorre sottolineare, e che risulta decisivo nel valutare la posiz VESELI in termini diversi da quella del BEDHIAFI (cfr. supra, § 8), è il fatto che con riferimento al primo, e a differenza di quanto si è visto per il secondo di merito hanno fondato le proprie convergenti decisioni valorizzando sia el anteriori al periodo da considerare per il capo 1), sia elementi di prov all’interno di quel perimetro temporale.
Vengono infatti in rilievo, da un lato, l’iniziativa dello COGNOME d assumere la difesa del COGNOME (nel pregresso procedimento a suo carico) proprio legale di fiducia; lo svolgimento nella pizzeria dello COGNOME festeggiamenti per la scarcerazione del COGNOME (pag. 50 della sent impugnata); gli strettissimi rapporti e l’affidabilità del COGNOME emergen conversazioni con gli COGNOME (pag. 258 della sentenza di primo grado). D’altro lato, ovvero con specifico riferimento all’arco temporale rilevan capo 1), assumono rilevanza: la ripresa dei contatti tra COGNOME e COGNOME dopo la scarcerazione; l’illustrazione al ricorrente, da parte del COGNOME modifiche apportate per il trasporto della droga alla propria auto, che verr ed intestata alla madre del COGNOME; le vicende dell’arresto di quest’ult 2021, comprovanti – ancora una volta – il suo ruolo di tramite per cont COGNOME (cfr. pag. 50 e pag. 258, cit.). A tutto ciò deve poi aggiunger concreto coinvolgimento del COGNOME nel trasporto dei tre chili di cocaina o del capo 25 (cfr. sul punto pag. 441 seg.).
Si tratta, in definitiva, di una “doppia conforme” del tutto immune da c qui deducibili, che la difesa ha – si ripete – inteso contestare con rili al merito delle valutazioni motivatamente espresse dalla Corte territorial in questo caso in linea con la sentenza di primo grado.
10. Le considerazioni fin qui svolte impongono l’annullamento della sente impugnata quanto alla posizione del BEDHIAFI, con rinvio per nuovo giudizio altra Sezione della Corte di Appello di Bologna.
Devono essere invece rigettati i ricorsi proposti dagli altri impu conseguente condanna di questi ultimi al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME COGNOME con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di Appello di Bologna. Rigetta
i ricorsi di COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME
NOME COGNOME che condanna al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 27 marzo 2025
Il Consigli
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Presidente