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Intraneità associativa: la decisione della Cassazione

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4017/2024, ha respinto il ricorso di un individuo indagato per narcotraffico e partecipazione a un’associazione criminale. La Corte ha confermato la misura della custodia in carcere, ritenendo solidi gli indizi di una stabile ‘intraneità associativa’ e giudicando la misura detentiva come l’unica adeguata a prevenire il rischio di recidiva, data la profonda integrazione del soggetto nel tessuto criminale.

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Pubblicato il 28 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Intraneità Associativa: Quando un Indizio Diventa Prova?

La recente sentenza della Corte di Cassazione n. 4017/2024 offre un’analisi dettagliata dei criteri utilizzati per determinare la partecipazione stabile di un individuo a un’associazione per delinquere, la cosiddetta intraneità associativa. Questo concetto è cruciale nel diritto penale, poiché distingue il partecipe stabile dal concorrente esterno o occasionale, con conseguenze significative sull’applicazione delle misure cautelari e sulla pena. Il caso in esame riguarda un soggetto accusato di far parte di un’organizzazione dedita al narcotraffico, per il quale era stata disposta la misura della custodia cautelare in carcere.

I Fatti del Caso

Un individuo veniva sottoposto a indagini preliminari e successivamente colpito da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Le accuse erano pesanti: appartenenza a un’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti e commissione di svariati reati fine. La difesa presentava ricorso per Cassazione contro l’ordinanza del Tribunale del Riesame, che aveva confermato la misura, sollevando ben undici motivi di ricorso.

Tra le principali doglianze, la difesa lamentava la nullità dell’ordinanza originaria per mancanza di autonoma valutazione da parte del giudice, ritenendola una mera riproposizione della richiesta del Pubblico Ministero. Contestava inoltre nel merito il quadro indiziario, sostenendo un’errata interpretazione delle prove, in particolare riguardo al ruolo dell’indagato all’interno del gruppo criminale, e l’inadeguatezza della misura carceraria rispetto a soluzioni meno afflittive come gli arresti domiciliari.

La Decisione della Corte sulla valutazione dell’intraneità associativa

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, ritenendo le censure infondate. Secondo i giudici di legittimità, il Tribunale del Riesame aveva correttamente valutato il quadro indiziario, delineando un ruolo tutt’altro che marginale del ricorrente all’interno dell’associazione. L’analisi della Corte non si è fermata ai singoli episodi criminosi, ma ha ricostruito un quadro complessivo che dimostrava una partecipazione consapevole e stabile all’attività illecita del gruppo.

L’intraneità associativa non è stata desunta da un singolo atto, ma da una serie convergente di elementi. In particolare, è stato dato rilievo al fatto che l’indagato si fosse attivato per trovare una nuova sede logistica per le attività del gruppo, quando quella precedente era diventata insicura a causa delle indagini. Questo comportamento, secondo la Corte, dimostrava una profonda fiducia da parte dei vertici dell’associazione e un contributo decisivo alla continuità operativa del sodalizio criminale, superando la logica del mero aiuto occasionale.

le motivazioni

La motivazione della sentenza si concentra sulla necessità di una lettura logica e complessiva degli elementi probatori. La Corte ha sottolineato come i singoli reati fine contestati all’indagato (cessioni di stupefacenti, custodia di sostanze) non fossero episodi isolati, ma tasselli di un mosaico più ampio che ne rivelava il pieno inserimento nella struttura organizzativa.

Un punto chiave della motivazione riguarda la valutazione del pericolo di recidiva e l’adeguatezza della misura cautelare. La Cassazione ha confermato la scelta della custodia in carcere, evidenziando come la ‘centralità domestica’ delle condotte illecite (lavorazione, custodia e spaccio avvenivano spesso in abitazioni private) rendesse gli arresti domiciliari una misura inefficace. Il contributo del ricorrente nel garantire una nuova base logistica è stato interpretato come un sintomo evidente della sua inaffidabilità e della sua totale adesione al programma criminale, rendendo il rischio di reiterazione del reato concreto e attuale.

La Corte ha inoltre respinto la critica relativa alla mancanza di autonoma valutazione da parte del primo giudice, qualificandola come generica in assenza di una comparazione specifica tra gli atti che potesse dimostrare una mera ‘copiatura’.

le conclusioni

Questa sentenza ribadisce un principio fondamentale in materia di criminalità organizzata: la prova dell’intraneità associativa, ai fini cautelari, si costruisce attraverso la valorizzazione di condotte che, lette nel loro insieme, dimostrano un contributo stabile e funzionale alla vita dell’associazione. Non è necessario un ruolo di vertice; è sufficiente una partecipazione consapevole che si traduca in un apporto concreto al mantenimento e al perseguimento degli scopi del gruppo. La decisione sottolinea inoltre la severità del sistema cautelare nei confronti di reati associativi, dove la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere può essere superata solo con prove concrete di un effettivo allontanamento dal contesto criminale, prove che in questo caso non sono emerse.

Quando si può ritenere provata l’intraneità associativa ai fini della custodia cautelare?
L’intraneità associativa si ritiene provata quando una serie di elementi indiziari, letti in modo complessivo e logico, dimostrano una partecipazione consapevole, stabile e funzionale alle attività e agli scopi di un’associazione criminale. Singoli atti o contributi decisivi, come garantire la continuità operativa del gruppo, sono considerati indicatori forti di tale inserimento stabile.

Perché la Corte ha ritenuto inadeguati gli arresti domiciliari in questo caso?
La Corte ha giudicato gli arresti domiciliari inadeguati a causa della ‘centralità domestica’ delle attività criminali (lavorazione, custodia e spaccio avvenivano in luoghi privati) e del ruolo decisivo del ricorrente nel garantire una nuova base logistica al gruppo. Ciò dimostrava una profonda affidabilità criminale e un’inaffidabilità rispetto al rispetto delle misure cautelari meno afflittive, rendendo concreto il rischio di recidiva.

Può un ricorso basarsi sul fatto che l’ordinanza del giudice è troppo simile alla richiesta del Pubblico Ministero?
Sì, ma la contestazione non può essere generica. La difesa deve operare una comparazione specifica e puntuale tra il contenuto dell’ordinanza e quello della richiesta del PM, evidenziando capo per capo una sostanziale sovrapponibilità che dimostri in modo inequivocabile l’assenza di una valutazione autonoma da parte del giudice. In mancanza di tale analisi dettagliata, la censura viene ritenuta inammissibile.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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