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Intralcio alla giustizia: non serve la ritrattazione

Un individuo è stato condannato per resistenza a pubblico ufficiale e doppio intralcio alla giustizia. In Cassazione, sosteneva che l’intralcio alla giustizia richiedesse la preesistenza di dichiarazioni da ritrattare. La Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, specificando che il reato sussiste anche quando la minaccia è volta a influenzare una futura testimonianza, proteggendo così l’integrità del processo fin dalle sue fasi iniziali.

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Pubblicato il 27 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Intralcio alla giustizia: quando la minaccia al testimone è reato?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23618 del 2024, torna a pronunciarsi sul delitto di intralcio alla giustizia, offrendo un chiarimento fondamentale sui presupposti necessari per la sua configurabilità. La Suprema Corte ha stabilito che per commettere questo reato non è necessario che la vittima abbia già reso dichiarazioni da ritrattare: è sufficiente che la minaccia sia volta a influenzare una testimonianza futura, anche se non ancora resa. Questa decisione rafforza la tutela del corretto funzionamento della giustizia, punendo qualsiasi tentativo di inquinamento probatorio fin dalle sue prime fasi.

I Fatti del Processo

Il caso trae origine dalla condanna di un uomo da parte della Corte di Appello, che aveva confermato la sentenza di primo grado. L’imputato era stato ritenuto colpevole di tre distinti reati:

1. Intralcio alla giustizia (art. 377 c.p.) ai danni di un Vice Brigadiere, che aveva redatto un’informativa a suo carico e doveva testimoniare nel relativo processo.
2. Resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) nei confronti dello stesso militare, durante la notifica di un provvedimento restrittivo.
3. Un secondo episodio di intralcio alla giustizia ai danni di un altro soggetto, anch’esso chiamato a rendere testimonianza in un processo a carico dell’imputato.

L’imputato, tramite i suoi difensori, ha proposto ricorso in Cassazione, contestando la sussistenza dei reati sotto diversi profili.

I motivi del ricorso e l’interpretazione del reato di intralcio alla giustizia

Il ricorrente basava la sua difesa su tre argomentazioni principali. Per quanto riguarda il reato di resistenza, sosteneva che la sua condotta fosse solo una manifestazione di astio personale, priva del nesso causale con l’atto d’ufficio del militare.

Ma il cuore del ricorso riguardava i due episodi di intralcio alla giustizia. La tesi difensiva era che tale reato potesse configurarsi solo in presenza di una condotta finalizzata a ottenere la ritrattazione di dichiarazioni già rese dalla persona offesa. Poiché in entrambi i casi i testimoni non avevano ancora deposto in modo tale da dover ritrattare, secondo la difesa mancava un presupposto essenziale del reato.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso nel suo complesso inammissibile, rigettando tutte le argomentazioni difensive e fornendo una lettura chiara e rigorosa della normativa.

Per quanto riguarda la resistenza a pubblico ufficiale, i Giudici hanno ritenuto l’argomentazione difensiva meramente assertiva, confermando che la condotta minacciosa e violenta dell’imputato aveva avuto un chiaro carattere oppositivo all’atto che il militare stava compiendo.

Il punto cruciale della sentenza risiede però nella disamina del reato di intralcio alla giustizia. La Corte ha definito ‘manifestamente infondato’ l’assunto secondo cui il delitto richieda necessariamente la preesistenza di dichiarazioni da ritrattare. La giurisprudenza, spiegano gli Ermellini, ha sì affrontato casi in cui la condotta era volta a ottenere una ritrattazione, ma questo non è l’unico né l’ineludibile presupposto del reato. La norma, infatti, punisce la violenza o minaccia volta a influenzare chi è ‘chiamato a rendere dichiarazioni’, con l’obiettivo di spingerlo a commettere uno dei reati contro l’amministrazione della giustizia (come la falsa testimonianza, art. 372 c.p.).

Di conseguenza, il reato si perfeziona anche quando la pressione è esercitata su un testimone per indurlo a rendere una deposizione non veritiera o ‘accomodante’ in una fase futura del processo, a prescindere dal fatto che abbia o meno reso dichiarazioni in precedenza.

Le Conclusioni

Con questa pronuncia, la Corte di Cassazione ribadisce un principio di fondamentale importanza per la salvaguardia del processo penale. La tutela della genuinità della prova testimoniale è assoluta e non può essere subordinata a formalismi come la preesistenza di dichiarazioni. Qualsiasi tentativo di intimidire un testimone, in qualunque fase del procedimento, costituisce un grave attacco all’amministrazione della giustizia e, come tale, integra il delitto di cui all’art. 377 c.p. La decisione ha quindi l’effetto di estendere la protezione penale a tutto il percorso di formazione della prova, condannando l’imputato al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria.

Per configurare il reato di intralcio alla giustizia, è necessario che il testimone minacciato abbia già reso dichiarazioni da ritrattare?
No. La Corte di Cassazione ha chiarito che il reato si configura anche quando la violenza o minaccia è volta a influenzare una deposizione futura, per indurre il testimone a rendere dichiarazioni false o accomodanti, a prescindere da dichiarazioni pregresse.

Qual è la differenza tra una semplice minaccia e il reato di resistenza a pubblico ufficiale?
Secondo la sentenza, si ha resistenza a pubblico ufficiale quando la condotta minacciosa o violenta è direttamente finalizzata a opporsi al compimento di un atto d’ufficio. Non si tratta di una mera manifestazione di astio, ma di un comportamento oppositivo con una precisa correlazione eziologica con l’attività del pubblico ufficiale.

Cosa succede quando un ricorso in Cassazione viene dichiarato inammissibile?
Quando un ricorso è dichiarato inammissibile, la Corte non lo esamina nel merito. La condanna precedente diventa definitiva e il ricorrente, a causa dei profili di colpa nell’aver proposto un ricorso infondato, viene condannato al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle ammende.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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