Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 45616 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 45616 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 29/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME nato a Napoli il 30/6/1975 assistito e difeso dall’avv. NOME COGNOME di fiducia
avverso l’ordinanza in data 30 maggio 2024 del Tribunale di Napoli in funzione di giudice del riesame
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; preso atto che non è stata richiesta dalle parti la trattazione orale sentita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza in data 30 maggio 2024, a seguito di giudizio di riesame, il Tribunale di Napoli ha confermato l’ordinanza in data 29 aprile 2024 con la quale il Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale ha applicato a NOME COGNOME la misura cautelare personale degli arresti donniciliari in
relazione ai reati di cui agli artt. 110, 81 cpv., 512-bis, 416-bis.1 e 648-ter cod. pen.
In particolare, nell’ordinanza si contesta al COGNOME di avere concorso con COGNOME NOME e con NOME NOME (commercialista deputata a fornire le competenze tecniche per la riuscita dell’operazione) nell’operazione di fittizia attribuzione alla moglie del COGNOME, COGNOME NOME, della titolarità della società “RAGIONE_SOCIALE” avente sede legale in Napoli ed attiva nel settore della ristorazione, attività esercitata mediante la pizzeria “Dal Presidente” (capo 1 della rubrica delle imputazioni), nonché nella fittizia attribuzione alla medesima Capasso della titolarità della società “RAGIONE_SOCIALE avente sede legale in Napoli, attiva anch’essa nel settore della ristorazione (capo 2), attribuzione tesa ad eludere le disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniali e/o di agevolare la commissione dei delitti di cui agli articoli 648-bis e 648-ter cod. per.
Con l’aggravante di aver commesso i fatti avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis ed in particolare avendo agito con metodo mafioso facendo affidamento sul diffuso senso di assoggettamento e sulla conseguente omertà scaturente dalla ben nota consapevolezza della esistenza e predominio, sul territorio, di una pericolosa organizzazione criminale di tipo mafioso di CLIi faceva parte il COGNOME al fine di acquisire l’attività in oggetto nonché per agevolare il raggiungimento delle finalità illecite dell’associazione di tipo mafioso denominata “clan Confini”, per il sostentamento dei detenuti e delle rispettive famiglie, così da garantire la sopravvivenza del clan.
Ricorre per Cassazione avverso il predetto provvedimento il difensore dell’indagato, deducendo:
2.1. Violazione ed erronea applicazione della legge penale e processuale nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato ex art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 512-bis, 416-bis.1 cod. pen. e 192 e 273 cod. proc. pen. in relazione aii capi 1 e 2 della rubrica delle imputazioni.
Osserva parte ricorrente che secondo il ragionamento del Tribunale il concorso del COGNOME nelle attività di intestazione fittizia poste in essere da NOME COGNOME e dalla di lui moglie NOME COGNOME si evincerebbe dalla presunta richiesta di sostegno economico da parte dell’indagato.
Partendo dalla constatazione che il procedimento trova la sua origine nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME (riportate nei passaggi essenziali nel ricorso) il quale avrebbe riferito in merito alla riconducibilità della pizzeria “Dal Presidente” ad esponenti della criminalità organizzata, osserva parte ricorrente che il COGNOME non ha mai affermato che la pizzeria facesse
capo al COGNOME essendosi invece limitato a dire che quest’ultimo è legato da rapporti di parentela con il COGNOME che i successivi accertamenti investigativi hanno appurato essere il gestore di fatto dell’esercizio commerciale, formalmente intestato alla COGNOME, oltre che soggetto gravato da precedenti penali, già destinatario di misura di prevenzione in quanto considerato delinquente abituale e dotato di una capacità reddituale incompatibile con i beni di lusso nella disponibilità dello stesso.
Ciononostante – prosegue parte ricorrente – secondo i Giudici della cautela, il tenore delle conversazioni intercettate (anche ambientali in carcere) svelerebbe la riferibilità delle attività di ristorazione (e di panificazione) non solo al Di Cap ma anche al COGNOME.
In particolare – osserva parte ricorrente – i Giudici della cautela hanno erroneamente fondato tale affermazione sul contenuto di alcune intercettazioni riportate per stralcio e commentate alle pagine da 11 a 25 del ricorso nelle quali si evince, per contro, quanto segue:
nella prima delle conversazioni indicate (progr. 2779) non emerge alcun indizio della riferibilità dell’attività di ristorazione al COGNOME ed anz conversante NOME COGNOME, parlando con la commercialista NOME COGNOME della possibilità di trasformare la società di ristorazione RAGIONE_SOCIALE in una società immobiliare da utilizzare anche come “serbatoio” di tutte le possidenze immobiliari alla stessa intestate, non risulta porsi il problema dell’eventuale titolarità di fa anche del COGNOME di detta società come invece ritenuta tale dagli inquirenti, il che smentisce quanto affermato dal Tribunale del riesame sul punto che dà una interpretazione diversa alla conversazione slegata da dati di fatto;
b) nella seconda delle conversazioni richiamate (progr. n. 6113), intercorsa tra la Capasso e la Nappo, il COGNOME viene evocato per un intervento di natura familiare che non ha nulla a che vedere con la gestione delle società;
nella terza delle conversazioni richiamate (progr. 4888), intercorsa sempre tra la Capasso e la Nappo, non emerge nulla di processualmente rilevante;
anche nella quarta delle conversazioni intercettate (progr. 3115), intercorsa tra la COGNOME e la COGNOME, le due donne si limiterebbero a parlare di beghe familiari con riguardo al fatto che NOME (moglie del COGNOME e cognata del COGNOME) si recherebbe in pizzeria per risolvere contrasti familiari mentre i Giudici della cautela avrebbero dato una lettura distorta di tale conversazione affermando che “NOME” si sarebbe recata presso la pizzeria per rivendicare le pretese economiche che vanta (a nome dell’odierno ricorrente) sull’attività in questione;
nella quinta delle conversazioni intercettate (progr. 5379), sempre tra la COGNOME e la COGNOME, la prima si limiterebbe ad evidenziare il rapporto burrascoso con il proprio marito e secondo parte ricorrente tale conversazione sarebbe
dimostrativa del fatto della non riferibilità delle attività al COGNOME in quanto COGNOME parla della divisione al 50% dei proventi dell’attività con il marito COGNOME il che escluderebbe un ruolo dell’odierno ricorrente nella predetta attività;
f) in altra conversazione (progr. 6032), tra la COGNOME e tale NOME (donna delle pulizie), la prima parla di una lite tra lei ed il marito ed esprime la volontà “buttarlo fuori” dalle attività, situazione che anche in questo caso la difesa del ricorrente legge come idonea a provare la non riferibilità delle attività al COGNOME mentre il Tribunale avrebbe interpretato tali affermazioni come un mero sfogo di una donna “casalinga” con un livello culturale basso se non inesistente;
anche con riguardo ad ulteriori conversazioni (progr. 6041, 6113 e 7925) nelle quali il Tribunale avrebbe ritenuto di apprezzare delle “crepe” intercorse all’interno del sodalizio commerciale tra il COGNOME ed il COGNOME osserva la difesa del ricorrente che nulla di tutto ciò emergerebbe dalle stesse essendo stata data dai Giudici della cautela una lettura priva di fondamento reale e logico;
con riguardo, poi, alla conversazione (progr. 3206) tra la Capasso e la Nappo, valorizzata dai Giudici della cautela, la stessa non sarebbe stata analizzata completamente e sarebbe anch’essa da leggere nell’ottica di precedenti diatribe familiari e conterrebbe espressioni con le quali i Giudici non hanno ritenuto di confrontarsi;
con riguardo alla conversazione (progr. 4313) i Giudici della cautela sarebbero, poi, incorsi in errore nell’individuazione della persona alla quale si riferiscono le interlocutrici allorquando parlano di “NOME” che non sarebbe da individuarsi in COGNOME NOME quanto piuttosto in COGNOME NOME;
con riguardo alla conversazione (progr. 4529) non sarebbe dato comprendere da quali elementi i Giudici della cautela avrebbero tratto la convinzione che le colloquianti stanno parlando del reimpiego di capitali provenienti da attività illecite del COGNOME peraltro detenuto dal giugno 2019;
anche dalle conversazioni che vedono come uno degli interlocutori NOME COGNOME e commentate alle pagg. 32-34 del ricorso le stesse si riferirebbero a fatti non meglio precisati e comunque non riferibili con certezza all’odierno ricorrente;
altrettanto sarebbe a dirsi, secondo parte ricorrente, delle conversazioni che vedono come parte NOME COGNOME (pagg. 34 – 36 del ricorso) e quelle che secondo il Tribunale sarebbero indicative del trasferimento di rilevanti somme di denaro che il COGNOME avrebbe corrisposto a NOME COGNOME e parte delle quali quest’ultima avrebbe, poi, trasferito alla sorella “NOME“NOME“) moglie del COGNOME (pagg. 36 – 43 del ricorso) essendo dette conversazioni semplicemente dimostrative dell’esistenza di beghe familiari;
o) elementi non decisivi con riguardo alla intraneità del COGNOME al “clan COGNOME“, alle condizioni economiche del ricorrente ed all’interesse dello stesso alla pizzeria ed alle relative attività commerciali emergerebbero, poi, dalle conversazioni commentate alle pagg. 44-54 che la difesa del ricorrente ritiene debbano essere interpretate diversamente rispetto a quanto hanno fatto i Giudici della cautela che non si sarebbero adeguatamente confrontati con le osservazioni contenute nella memoria agli stessi depositata.
In punto di diritto, osserva parte ricorrente, che non sarebbero comunque stati rispettati nell’ordinanza impugnata i principi enunciati dalla più recente giurisprudenza di legittimità in base ai quali ai fini della configurabilità del reato cui all’art. 512-bis cod. pen. non basta avere assunto la qualità di socio occulto in certe attività ma occorre anche dimostrare la provenienza in capo a tale soggetto delle risorse economiche impiegate per l’acquisto delle attività stesse e la finalità di eludere l’applicazione delle misure di prevenzione.
Nel caso in esame, invece, i Giudici della cautela si sarebbero semplicemente soffermati sul fumus del reato di intestazione fittizia delle quote societarie della “La Regina dei Tribunali” e della “RAGIONE_SOCIALE” affermando una presunta gestione di fatto anche da parte del COGNOME solo perché lo stesso ha qualche volta chiesto un aiuto al COGNOME mentre al contrario è emerso che l’odierno ricorrente non si occupava della gestione delle società, non prendeva alcuna decisione sul punto e non v’è traccia che lo stesso abbia percepito utili da tali attività.
Nessun approfondimento sarebbe, poi, stato effettuato in ordine alla provenienza delle risorse economiche utilizzate nella gestione delle attività: la società precedente, poi fallita, era stata acquistata ad opera del COGNOME da tale NOME COGNOME a sua volta gravato da numerosi precedenti penali, e quella nuova è stata costituita tra soggetti diversi con un capitale di 450,00 euro.
La società “RAGIONE_SOCIALE” ha, poi un capitale di soli 950,00 euro mentre il capitale sociale della “RAGIONE_SOCIALE” è di 3.000,00 euro e nessuno dei dati relativi alla gestione ed alle movimentazioni delle quote di partecipazione delle predette società (richiamati alle pagg. 59 – 62 del ricorso) è riconducibile al COGNOME se non il fatto che quest’ultimo è legato a rapporti di parentela con gli altri indagati.
La motivazione dell’ordinanza impugnata – secondo parte ricorrente sarebbe altresì carente anche sotto il profilo della ricorrenza dell’elemento soggettivo dei reati in contestazione.
Inoltre, sempre secondo la difesa del ricorrente, la motivazione dell’ordinanza impugnata sarebbe contraddittoria e manifestamente illogica nella parte in cui si afferma che «senza la copertura del clan COGNOME, di cui il COGNOME
e membro da decenni, il COGNOME mai avrebbe potuto acquistare e condurre, senza ritorsioni di sorta, le attività di ristorazione in esame» e che «tale apporto doveva essere ripagato dal COGNOME con il mantenimento del cognato e della sua famiglia ed in tale mantenimento vanno individuati gli utili della fittizia intestazion dell’attività …» alla COGNOME, ciò in quanto, se così è, le eventuali movimentazioni di denaro sarebbero riconducibili al corrispettivo della “protezione” e non ad una partecipazione di fatto del COGNOME nella intestazione fittizia delle società.
Infine, sempre secondo la difesa del ricorrente, la motivazione dell’ordinanza impugnata sarebbe contraddittoria e manifestamente illogica nella parte in cui è stato condiviso acriticamente l’apparato argomentativo dell’ordinanza genetica ed è stata operata un erronea valutazione degli elementi indiziari, utilizzando mere congetture e rispondendo in maniera insufficiente e superficiale alle doglianze difensive, senza evidenziare seri e consistenti elementi fattuali, sia pure indiretti, che potessero risultare univocamente indicativi dell specifico e concreto ruolo del COGNOME nelle condotte delittuose allo stesso attribuite.
2.2. Mancanza di motivazione in relazione all’art. 274 cod. proc. pen. ex art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen.
Osserva parte ricorrente che l’ordinanza impugnata merita anche censura in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari essendovi un vuoto motivazionale al riguardo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Deve in via preliminare rilevarsi che sebbene nell’ordinanza del Tribunale del riesame si afferma che il Capozzoli è stato sottoposto alla misura cautelare personale non solo per i fatti-reato contestati come violazione dell’art. 512-bis cod. pen. (capi 1 e 2 della rubrica delle imputazioni) ma anche per il reato di cui all’art. 648-ter cod. pen. (capo 6), al punto che lo stesso Tribunale tratta nella propria ordinanza (pagg. 14 e segg.) anche la contestazione di “autoriciclaggio”, il ricorso qui in esame riguarda espressamente i soli reati di cui ai capi 1 e 2.
Il primo motivo di ricorso nella parte in cui si contesta la gravità indiziaria a carico del COGNOME in ordine al concorso nei fatti-reato di cui all’art. 512-bi cod. pen. (capi 1 e 2 della rubrica delle imputazioni) è manifestamente infondato.
Larga parte di detto motivo di ricorso è infatti basata sulla rilettura delle emergenze delle conversazioni intercettate rispetto a quella fornita dai Giudici della cautela, in particolare dal Tribunale del riesame che nel rispondere alle doglianze difensive allo stesso sottoposte ha anche, in plurimi passaggi,
evidenziato di condividere la medesima interpretazione alle stesse date dal Giudice emittente il provvedimento cautelare genetico.
E’ appena il caso di ricordare che le Sezioni Unite di questa Corte Suprema hanno già avuto modo di chiarire che «in tema di misure cautelari personali, allorché sia denunciato, con ricorso per cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla Corte Suprema spetta il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità ed ai limiti che ad ess ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi d diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie» (In motivazione, la S.C., premesso che la richiesta di riesame ha la specifica funzione, come mezzo di impugnazione, sia pure atipico, di sottoporre a controllo la validità dell’ordinanza cautelare con riguardo ai requisiti formali enumerati nell’art. 292 cod. proc. pen. e ai presupposti ai quali è subordinata la legittimità del provvedimento coercitivo, ha posto in evidenza che la motivazione della decisione del tribunale del riesame, dal punto di vista strutturale, deve essere conformata al modello delineato dal citato articolo, ispirato al modulo di cui all’art. 546 cod proc. pen., con gli adattamenti resi necessari dal particolare contenuto della pronuncia cautelare, non fondata su prove, ma su indizi e tendente all’accertamento non della responsabilità, bensì di una qualificata probabilità di colpevolezza) (Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, Audino, Rv. 215828).
Tale orientamento, dal quale l’odierno Collegio non intende discostarsi, ha trovato conforto anche in pronunce più recenti di questa Corte Suprema (ex ceteris: Sez. 4, n. 26992 del 29/05/2013, Tiana, Rv. 255460).
Ne consegue che «l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ex art. 273 cod. proc. pen. e delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 stesso codice è rilevabile in cassazione soltanto se si traduce nella violazione di specifiche norme di legge od in mancanza o manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo del provvedimento impugnato» (In motivazione, la S.C. ha chiarito che il controllo di legittimità non concerne né la ricostruzione dei fatti, né l’apprezzamento del giudice di merito circa l’attendibilità delle fonti e la rilevanza e concludenza dei dati probatori, onde sono inammissibili quelle censure che, pur investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione di circostanze già esaminate dal giudice di merito) (Sez. F, n. 47748 del 11/08/2014, COGNOME, Rv. 261400; Sez. 3, n. 40873 del 21/10/2010, COGNOME, Rv. 248698).
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In sostanza, nel motivo di ricorso in esame, parte ricorrente finisce inammissibilmente per richiedere a questa Corte di legittimità di rileggere gli elementi evidenziati – sostanzialmente le conversazioni intercettate alle quali si aggiungono alcuni passaggi delle dichiarazioni di collaboranti con la giustizia (in principalità il COGNOME) – al fine di accreditarne una interpretazione differente rispetto a quella attribuitagli dai giudici di merito attraverso motivazioni, che giudizio dell’odierno Collegio, si presentano congrue anche nelle risposte fornite alle doglianze difensive, non manifestamente illogiche e tantomeno contraddittorie.
Del resto «In tema di misure cautelari personali, il ricorso per cassazione che deduca insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, o assenza delle esigenze cautelari, è ammissibile solo se denuncia la violazione di specifiche norme di legge o la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, ma non anche quando propone censure che riguardano la ricostruzione dei fatti, o che si risolvono in una diversa valutazione degli elementi esaminati dal giudice di merito» (Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, COGNOME, Rv. 270628).
3. Non fondata è poi la doglianza contenuta sempre nel primo motivo di ricorso secondo il quale non sarebbero stati rispettati nell’ordinanza impugnai:a i principi enunciati dalla più recente giurisprudenza di legittimità in base ai quali a fini della configurabilità del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. non basta ave assunto la qualità di socio occulto in certe attività ma occorre anche dimostrare la provenienza in capo a tale soggetto delle risorse economiche impiegate per l’acquisto delle attività.
In realtà, sulla premessa che tale accertamento involge accertamenti di fatto, non sindacabili in sede di legittimità, v’è da dire che l’ordinanza impugnata risulta congruamente motivata anche sotto tale profilo laddove (v. pag 6 e 7 della stessa) è dato testualmente leggere: «Sulla riferibilità anche alla persona del COGNOME della prima attività di ristorazione avviata dal duo COGNOME/COGNOME vengono in rilievo (oltre a quello già riportato contenuto nella conv. 2779 del 22.3.2021) ulteriori scambi comunicativi tra la COGNOME NOME e la COGNOME NOME, che risultano eloquenti nel dimostrare come il “subingresso” nelle attività del COGNOME sia avvenuto per decisione e con l’apporto economico del COGNOME (cfr. in particolare la conv. 2969 che corrobora quanto dichiarato dal c.d.g. De Tommaso COGNOME RIT. 2969/2020 con progressivo n. 4888 del 2.8.2021, intervenuta tra COGNOME NOME (chiamata) sull’utenza n. 35115537267 e COGNOME NOME (chiamante) dall’utenza telefonica n. 3349225998».
Non fondata è, altresì, la doglianza contenuta sempre nel primo motivo di ricorso secondo il quale non sarebbero stati rispettati nell’ordinanza impugnata i principi enunciati dalla più recente giurisprudenza di legittimità in base ai quali fini della configurabilità del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. occorre anc dimostrare la finalità di eludere l’applicazione delle misure di prevenzione.
Al riguardo l’ordinanza impugnata risulta congruamente e correttamente motivata, sia in punto di fatto che di diritto, nella parte in cui è stato evidenzi che l’intestazione alla COGNOME appare come un momento iniziale di una più ampia operazione commerciale finalizzata ad eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale alle quali sia il COGNOME che il COGNOME risultavano esposti per le attività illecite per le quali hanno riportato condann definitiva e per quelle che coevamente ponevano in essere e si è contestualmente ricordato che ai fini della configurabilità del profilo oggettivo della fattispeci trasferimento fraudolento di valori non rileva la provenienza da delitto del denaro, beni od altre utilità che ne sono oggetto, cioè la derivazione causale di essi da condotte delittuose, ma il solo collegamento giuridico con ipotesi che quella provenienza postulano.
A ciò si aggiunge che «Il delitto di trasferimento fraudolento di valori può essere commesso anche da chi non sia ancora sottoposto a misure di prevenzione patrimoniali e ancora prima che il relativo procedimento sia iniziato, occorrendo solo, ai fini della configurabilità del dolo specifico di eludere le disposizioni di le in materia di prevenzione patrimoniale, che l’interessato possa fondatamente presumere l’avvio di detto procedimento» (Sez. 5, n. 1886 del 07/12/2021, dep. 2022, COGNOME, Rv. 282645).
Generico e quindi inammissibile in quanto solo accennato ma non adeguatamente sviluppato nel ricorso in esame è, invece, il profilo di ricorso nel quale si eccepisce la carenza di motivazione dell’ordinanza impugnata anche sotto il profilo della ricorrenza dell’elemento soggettivo dei reati in contestazione.
In ogni caso la Corte di appello risulta avere motivato al riguardo a pag. 13 dell’ordinanza impugnata ed anche il G.i.p. nell’ordinanza genetica (v. pagg. 29 e 30) aveva adeguatamente motivato sul punto.
Altrettanto generico e quindi inammissibile è il secondo motivo di ricorso nel quale si contesta l’assenza di motivazione in relazione alle esigenze cautelari di cui all’art. 274 cod. proc. pen.
Se, infatti, è ben vero che il Tribunale nell’ordinanza impugnata non ha dedicato una sola parola alle esigenze cautelari, è però altrettanto vero che parte ricorrente non ha documentato di avere sottoposto specificamente la questione
alla Corte territoriale, né della stessa si dà conto nella parte iniziale dell’ordinan medesima laddove si riassumono i motivi della richiesta di riesame del provvedimento cautelare che parte ricorrente non ha espressamente contestato.
Da quanto sopra consegue il rigetto del ricorso in esame, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Poiché dalla presente decisione non consegue la rimessione in libertà del ricorrente (che, seppure per il presente procedimento sia stato sottoposto agli arresti donniciliari risulta tuttavia detenuto in carcere per altra causa), dev disporsi – ai sensi dell’articolo 94, comma 1-ter, delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale – che copia della stessa sia trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario in cui l’indagato trovasi ristretto perché comunqu provveda a quanto stabilito dal comma 1-bis del citato articolo 94.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, co. 1-ter, disp. att cod. proc. pen.
Così deciso il 29 ottobre 2024.