Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 35864 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 35864 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 03/07/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOME, nato a Pavia il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 23/02/2024 del Tribunale di Napoli visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso; letta la memoria dell’AVV_NOTAIO, difensore del ricorrente, che ha
concluso chiedendo l’annullamento dell’ordinanza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
Con il provvedimento in epigrafe, il Tribunale di Napoli, in funzione di Giudice del riesame ex art. 309 cod. proc. pen., confermava l’ordinanza emessa in data 05/02/2024 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Benevento con cui veniva applicata la misura coercitiva personale degli arresti domiciliari per i reati di detenzione e di cessione di sostanza stupefacente del tipo
cocaina di cui agli artt. 81 comma 2 cod. pen. e 73 comma 1, d.P.R. 09/10/1990, n. 309, di cui all’imputazione provvisoria.
Ha proposto ricorso NOME COGNOME, con atto sottoscritto dal suo difensore, con cui ha dedotto violazione di legge, in relazione all’art. 73 d.P.R.cit., e vizio di motivazione, per illogicità, non avendo il Tribunale sussunto la fattispecie concreta nel paradigma normativo del comma cinque della norma citata, nonostante il modico quantitativo e la scarsa qualità della sostanza, il mancato rinvenimento di strumenti tipici dell’attività di spaccio, la mancata divisione in dosi, la disponibilità di somme di danaro esigue, compatibili con l’attività lavorativa, e l’assenza di precedenti specifici.
Il procedimento è stato trattato nell’odierna udienza in camera di consiglio con le forme e con le modalità di cui all’art. 23, commi 8 e 9, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, i cui effetti sono stati prorogati da successive modifiche legislative.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso non supera il vaglio preliminare di ammissibilità per carenza di interesse ad impugnare.
1.1. L’art. 568, comma 4, cod. proc. pen. dispone che «per proporre impugnazione è necessario avervi interesse». Recita, altresì, l’art. 591, comma 1, lett. a), cod. proc. pen che «l’impugnazione è inammissibile quando è proposta da chi non ha interesse».
Al riguardo le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno chiarito che la nozione di interesse ad impugnare, nel sistema processuale penale, «non può essere basata sul concetto di soccombenza, ma va piuttosto individuata in una prospettiva utilitaristica, ovvero nella rimozione di una situazione di svantaggio processuale derivante da una decisione giudiziale e nel conseguimento di una decisione più vantaggiosa rispetto a quella oggetto del gravame e che risulti logicamente coerente con il sistema normativo» (Sez. U., n.6624 del 27/10/2011, Marinaj, Rv. 251693 – 01).
Ne discende che l’interesse – quale presupposto di ammissibilità dell’impugnazione – deve essere apprezzato in termini di “concretezza” e “attualità”, dovendo tendere al raggiungimento di un risultato, non soltanto teoricamente corretto, ma anche praticamente favorevole, sia nel momento della proposizione del gravame sia in quello della sua decisione (così, ex multis, Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240815; Sez. 6, n. 10309 del 22/01/2014,
2 GLYPH
Pv
COGNOME, Rv. 259506; Sez. 1, n. 36038 del 21/09/2005, NOME, Rv. 232254; Sez. 1, n. 25949 del 27/05/2008, COGNOME, Rv. 240464; Sez. 5, n. 46151del 15/10/2003, COGNOME, Rv. 227860; Sez. 5, n. 6676 del 09/11/2001, COGNOME, Rv. 221899).
1.2. Anche nell’ambito del giudizio de libertate l’interesse ad impugnare deve essere inteso come pretesa all’eliminazione della lesione attuale di un diritto o di altra situazione soggettiva tutelata dalla legge, non già quale pretesa all’affermazione di un astratto principio giuridico o all’esattezza teorica della decisione.
In questa prospettiva, è dunque ravvisabile la sussistenza di un interesse dell’indagato alla diversa qualificazione giuridica allorquando da questa consegua la impossibilità di emettere il titolo della custodia cautelare in carcere, ai sensi dell’art. 280 cod. proc. pen., in relazione alla sanzione edittale prevista dalla fattispecie incriminatrice alla quale, in ipotesi, viene ricondotto il fatto; per tale ragione il giudice per le indagini preliminari, in sede di applicazione della misura cautelare, nonché il giudice del riesame o dell’appello sono legittimati a modificare la definizione giuridica data dal pubblico ministero al fatto addebitato, fermo restando che quest’ultimo va inteso come accadimento della realtà e che la eventuale correzione del nomen iuns non può produrre effetti oltre al procedimento incidentale in corso.
1.3. Proprio con riferimento alla fattispecie criminosa del “fatto lieve” di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. cit., è stato valorizzato l’interesse all’inquadramento del fatto in tale fattispecie in quanto il limite edittale di pena previsto per detta ipotesi di reato non consente l’adozione della custodia cautelare in carcere (così ex multis, Sez. 6, n..10941 del 15/02/2017, Leocata, Rv. 269783). Infatti, la sanzione prevista dall’art. 73, comma 5, d.P.R. cit., configurato, come noto, quale titolo autonomo di reato, e pari ad anni quattro di reclusione, non consente l’applicazione della misura custodiale, mentre a tenore dell’art. 280, comma 1, cod. proc. pen. consente l’applicazione di tutte le altre misure coercitive, compresa quella degli arresti domiciliari.
Nel caso di specie, dunque, l’eventuale erronea qualificazione giuridica del reato, invocata nel ricorso, risulta del tutto ininfluente ai fini della realizzazione di un risultato pratico tutelabile con l’impugnazione esperita, avendo il Giudice per le indagini preliminari motivatamente applicato la misura degli arresti domiciliari e non quella di massimo rigore.
In difetto di un concreto interesse ad impugnare, il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile.
Segue – ai sensi dell’art. 616 cod.proc.pen. – la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della cassa
delle ammende, che si stima equo fissare in tremila euro, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (vedi Corte Costit., sent. n 186 del 13 giugno 2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 03/07/2024.