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Intercettazioni captatore informatico: la Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato i ricorsi di due individui accusati di associazione mafiosa, confermando la custodia cautelare. La sentenza affronta la validità delle intercettazioni tramite captatore informatico (trojan), chiarendo che un decreto di proroga può fungere da autonoma autorizzazione, sanando vizi del provvedimento iniziale. La Corte ha inoltre ribadito che le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, se corroborate da altri elementi come le intercettazioni e le testimonianze delle vittime, costituiscono gravi indizi di colpevolezza per dimostrare la partecipazione al sodalizio criminale.

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Pubblicato il 8 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Intercettazioni captatore informatico: validità e prova del vincolo mafioso

Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 12159 del 2024, offre importanti chiarimenti sulla disciplina delle intercettazioni tramite captatore informatico e sulla valutazione dei gravi indizi di colpevolezza per il reato di associazione di tipo mafioso. La Suprema Corte ha rigettato i ricorsi presentati da due indagati, ritenuti partecipi di un’associazione camorristica, confermando la misura della custodia cautelare in carcere. La decisione si sofferma su due aspetti cruciali: la validità procedurale degli strumenti di indagine più invasivi e la solidità del quadro probatorio necessario per sostenere un’accusa di criminalità organizzata.

I Fatti del Processo

Il caso riguardava due soggetti indagati per partecipazione a un noto clan camorristico. Al primo era contestata la gestione di attività di riciclaggio e reimpiego di proventi illeciti, realizzati attraverso il controllo di un monopolio di fatto nel settore dell’autonoleggio e della ristorazione in un’area strategica. Il secondo indagato agiva come intermediario, ‘alter ego’ del padre, e garante dei rapporti tra il primo soggetto e i vertici dell’organizzazione criminale.

Le prove a loro carico si basavano principalmente su tre pilastri:
1. Intercettazioni ambientali effettuate tramite un captatore informatico (trojan) installato sullo smartphone di uno degli indagati.
2. Dichiarazioni di collaboratori di giustizia che delineavano i ruoli e le attività dei due all’interno del clan.
3. Dichiarazioni di imprenditori concorrenti, vittime di estorsione, che confermavano le dinamiche di controllo del territorio e del mercato da parte del clan.

La difesa aveva impugnato l’ordinanza del Tribunale del Riesame, sostenendo l’inutilizzabilità delle intercettazioni per un presunto vizio nel decreto autorizzativo originario e la genericità delle accuse mosse dai collaboratori di giustizia.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha dichiarato infondati entrambi i ricorsi, fornendo una motivazione dettagliata su tutti i punti sollevati dalle difese.

Le intercettazioni tramite captatore informatico e la loro validità

Il motivo di ricorso più tecnico riguardava l’inutilizzabilità delle intercettazioni captate con il trojan. La difesa sosteneva che il primo decreto del G.I.P. non avesse specificamente autorizzato questa modalità di indagine. La Cassazione ha superato questa eccezione evidenziando un principio fondamentale: un decreto di proroga, sebbene formalmente tale, può assumere la natura di un provvedimento autonomo di autorizzazione quando è dotato di un proprio apparato giustificativo che dia conto della sussistenza delle condizioni di legge. Nel caso di specie, un successivo decreto di proroga aveva legittimamente disposto la prosecuzione sia delle intercettazioni telematiche sia di quelle tra presenti, sanando di fatto ogni eventuale lacuna del primo atto.

Inoltre, la Corte ha precisato che i più stringenti oneri di motivazione per l’uso del captatore informatico, introdotti dalla riforma del 2017, si applicano, per il principio tempus regit actum, solo ai procedimenti iscritti dopo il 1° settembre 2020. Poiché il procedimento in esame era antecedente, la motivazione del decreto era da ritenersi adeguata secondo la normativa allora vigente.

La Valutazione delle Prove Associative

Sul fronte probatorio, la Cassazione ha ritenuto logica e congrua la valutazione del Tribunale del riesame. Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia non erano generiche, ma puntualmente riscontrate dalle conversazioni intercettate. Queste ultime avevano rivelato i rapporti diretti tra gli indagati e gli esponenti apicali del clan, la strategia condivisa per favorire le attività commerciali gestite per conto dell’associazione e persino discussioni su come inviare denaro ai membri detenuti.

La Corte ha sottolineato come le risultanze investigative dimostrassero che uno degli indagati operava come prestanome del clan, ricevendo in cambio protezione e la possibilità di agire in un regime di quasi monopolio, conferendo poi una quota degli incassi all’organizzazione. Il ruolo dell’altro indagato come messaggero e uomo di fiducia è stato parimenti confermato dalle prove raccolte.

Le Motivazioni

La motivazione della sentenza si articola su un doppio binario: procedurale e sostanziale. Dal punto di vista procedurale, la Corte ha voluto consolidare l’orientamento secondo cui la forma di un atto (es. ‘decreto di proroga’) non prevale sulla sua sostanza. Se un provvedimento successivo verifica autonomamente i presupposti per la prosecuzione di un’attività investigativa invasiva, esso assume valore di nuova e piena autorizzazione. Questo approccio garantisce la continuità delle indagini in materia di criminalità organizzata, senza che cavilli formali possano comprometterne l’efficacia.

Dal punto di vista sostanziale, la Corte ha ribadito che la prova del pactum sceleris e della partecipazione a un’associazione mafiosa si costruisce attraverso la convergenza di plurimi elementi. Non è richiesta la prova del compimento di specifici reati-fine, ma la dimostrazione di un contributo stabile e funzionale alla vita e agli scopi del sodalizio. In questo caso, la gestione di imprese per conto del clan e la trasmissione di ordini sono state ritenute attività pienamente indicative di un’adesione volontaria e consapevole al patto associativo.

Le Conclusioni

La sentenza in esame rafforza alcuni importanti principi in materia di indagini sulla criminalità organizzata. In primo luogo, conferma la piena legittimità dell’uso del captatore informatico, strumento ritenuto indispensabile, e ne chiarisce il regime normativo applicabile nel tempo. In secondo luogo, ribadisce l’importanza del metodo di valutazione probatoria basato sulla convergenza del molteplice: le dichiarazioni dei collaboratori, se riscontrate da elementi esterni e oggettivi come le intercettazioni, costituiscono un fondamento solido per l’affermazione dei gravi indizi di colpevolezza. La decisione, infine, conferma la linea di rigore nel valutare le esigenze cautelari in contesti di mafia, ritenendo la detenzione in carcere la misura adeguata a fronte della gravità dei fatti e del pericolo di reiterazione.

Un decreto di proroga delle intercettazioni può ‘sanare’ un vizio del decreto autorizzativo originale?
Sì. Secondo la Corte, un decreto formalmente qualificato ‘di proroga’ può avere la natura di un autonomo provvedimento di autorizzazione se è dotato di un proprio apparato giustificativo che attesti la sussistenza delle condizioni richieste, superando così eventuali vizi dell’atto iniziale.

Le nuove e più stringenti regole sulla motivazione per l’uso del captatore informatico (trojan) si applicano a tutti i procedimenti?
No. La Corte ha chiarito che, in base al principio tempus regit actum, i più rigorosi oneri motivazionali introdotti nel 2017 si applicano solo ai procedimenti iscritti a partire dal 1° settembre 2020. Per i procedimenti anteriori, valgono le norme meno specifiche previgenti.

Come si dimostra la partecipazione a un’associazione di stampo mafioso in fase cautelare?
La sentenza conferma che la prova si basa sulla convergenza di più elementi. In questo caso, sono state ritenute decisive le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia perché trovavano riscontro puntuale in altre prove, come le conversazioni intercettate tra gli indagati e i vertici del clan e le testimonianze di vittime di estorsione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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