Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 44792 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 44792 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 17/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOMECOGNOME nato il 02/06/1988 ad Anzio COGNOME NOME COGNOME nato il 12/01/1987 ad Anzio
avverso la sentenza in data 25/10/2023 della Corte di appello di Roma visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del Pubblico ministero in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi; udito il difensore, Avv. NOME COGNOME anche in sost. dell’Avv. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 25/10/2023 la Corte di appello di Roma ha giudicato sugli appelli presentati fra l’altro da NOME COGNOME e da NOME COGNOME avverso la sentenza del G.i.p. del Tribunale di Velletri in data 19/10/2022: in particolare ha confermato la condanna di COGNOME in ordine al reato di cui all’art. 73, comma
1 e 6, d.P.R. 309 del 1990, contestato ai capi I e K, relativamente a condotte di trasporto, detenzione e distribuzione di cocaina; ha prosciolto COGNOME dal reato di cui al capo C e da quello di cui al capo D, limitatamente all’episodio del 13 luglio 2021, per insussistenza del fatto, ma ha confermato, rideterminando la pena, la condanna di COGNOME in relazione ai restanti reati di cui ai capi A, B, D, L e M, riferiti a condotte di cessione, detenzione e trasporto di cocaina (A e D) e marijuana (M), nonché a tentata estorsione (B) e detenzione di una pistola (L).
Ha proposto ricorso COGNOME tramite il suo difensore.
2.1. Con il primo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al delitto di tentata estorsione di cui al capo B.
La Corte, omettendo di valutare le deduzioni difensive, non aveva dato conto del profilo del danno altrui, inteso quale danno patrimoniale che la persona offesa non avrebbe potuto subire, considerando che la condotta non era idonea ad incidere sul patrimonio della vittima.
La pretesa del ricorrente, riferita alla merce sequestrata, alla somma sottoposta a sequestro e ai soldi sborsati per le spese legali si risolveva in una restituzione di somme, pur illecite, ma non entrate nel patrimonio della persona offesa.
Non era stata valutata la configurabilità del delitto di esercizio arbitrario dell proprie ragioni, a fronte di una pretesa avente un oggetto illecito, ma comunque correlata ad un accordo che avrebbe dovuto trovare attuazione.
La Corte non aveva valutato la sussistenza dell’elemento della minaccia e comunque aveva contraddittoriamente fatto riferimento a conversazioni di contenuto non conforme, non essendo dato comprendere se la minaccia consistesse nel far del male all’interlocutore o alla sua compagna o nel mandare una spedizione punitiva e, in tal modo, non essendo stata chiarita l’idoneità intimidatoria della condotta.
2.2. Con il secondo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 73 d.P.R. 309 del 1990.
La Corte aveva respinto con motivazione incongrua la richiesta di riqualificazione dei fatti ai sensi dell’art. 73, comma 5, d.P.R. 309 del 1990.
Rileva il ricorrente che non erano stati rispettati i principi elaborati dall giurisprudenza di legittimità, essendosi fatto leva essenzialmente sul dato P0 nderale.
Non era stato dimostrato che le cessioni comprovassero un’ampia capacità del ricorrente di diffondere lo stupefacente in modo non episodico.
Inoltre, non erano stata valutate le doglianze formulate nell’atto di appello.
In particolare, era stato rilevato che al ricorrente non stato sequestrato nulla e che le risultanze investigative lasciavano spazio ad interpretazioni non univoche.
La Corte sul punto aveva omesso di motivare, non essendosi spiegato come tutte le dosi in contestazione fossero da ascrivere al ricorrente.
Ha proposto ricorso COGNOME tramite il suo difensore.
3.1. Premesso che il primo giudice aveva accomunato gli imputati nel vincolo della continuazione, così da ricondurre al ricorrente anche l’episodio sub B cui era estraneo, con il primo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione.
Il ruolo secondario del ricorrente imponeva il riconoscimento delle attenuanti generiche, dovendosi escludere qualsiasi coinvolgimento anche solo larvatamente psicologico nelle contestazioni sub B.
Inoltre, contrariamente a quanto avvenuto per COGNOME che si era visto ridurre in appello l’entità della pena principale e di quella accessoria, era rimasta immutata anche l’interdizione quinquennale dai pubblici uffici, risultando intollerabile l’identità del trattamento sanzionatorio a fronte di un quadro probatorio meno pregnante, in mancanza di accertamenti tecnici sulla sostanza e stante l’incensuratezza.
Non era stato valutato e giustificato l’aumento a titolo di continuazione e inoltre, a fronte dell’erronea riduzione della pena accessoria nei confronti di COGNOME, nessuna riduzione era stata operata per il ricorrente, con identità di pena in situazioni largamente diverse, ciò che implicava una questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 2, 3 e 25 Cost.
3.2. Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al quadro probatorio e al mancato riconoscimento dell’ipotesi di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 309 del 1990.
A carico del ricorrente non erano stati rinvenuti droga, bilancini o armi ed erano state utilizzate conversazioni telefoniche che peraltro, pur esplicite nei contenuti, riguardavano colloqui coinvolgenti COGNOME, che temeva di essere intercettato, il che rende sospette quelle conversazioni, probabilmente dovute ad intenti surrettizi del coimputato, intenzionato a scagionare NOME COGNOME e a far risaltare agli occhi degli inquirenti un ruolo o una responsabilità del ricorrente inesistenti.
Si trattava di condotta di modesta consistenza, svolta per un periodo limitato, in una posizione subalterna e precaria, senza autonomia decisionale, non suffragata da consistente materiale probatorio e dal riscontro di un affidabile dato ponderale, dunque, in alternativa ad una pronuncia di proscioglimento, nel complesso riconducibile al paradigma di cui al quinto comma dell’art. 73 d.P.R. 309 del 1990, dovendosi ulteriormente valorizzare il tenore del colloquio con Di
NOME in cui costui aveva rivolto al ricorrente anche aspre minacce, tuttavia non poste a fondamento di un’imputazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso presentato nell’interesse di NOME COGNOME è inammissibile.
Il primo motivo è manifestamente infondato.
I Giudici di merito hanno dato conto del sequestro di un quantitativo di sostanza stupefacente e di una somma di denaro, eseguito nell’ottobre 2020 nei confronti di NOME COGNOME, che agiva per conto di COGNOME, e della successiva pretesa di quest’ultimo di ottenere da COGNOME la consegna di una somma corrispondente al valore dello stupefacente e del denaro sequestratigli e all’esborso sostenuto per il legale incaricato della difesa di COGNOME, il tutt accompagnato dalla previsione di interessi pari ad euro 1.000,00 al mese in caso di ritardo e da minacce per il caso del mancato pagamento.
E’ stato rilevato nella sentenza impugnata che, dopo minacce di danni fisici a COGNOME o alla sua compagna, COGNOME, come desumibile da messaggi inviati alla vittima, era giunto a prospettare l’invio di un gruppo di persone, incaricate di riscuotere ad ogni costo il denaro, come in effetti avvenuto il giorno 12 marzo 2021, allorché presso l’abitazione di COGNOME si era presentato NOME COGNOME, collaboratore di COGNOME, che brandiva una pistola ed era accompagnato da altre tre persone, ciò che aveva costretto COGNOME a chiamare il 112 e a far giungere in loco tre macchine dei Carabinieri.
A fronte di ciò, correttamente è stata ravvisata l’ipotesi della tentata estorsione, essendosi rilevato che la pretesa di COGNOME, originata da un accordo illecito, era volta al conseguimento di un ingiusto profitto con corrispondente danno per la vittima, chiamata ad un esborso privo di causa lecita, sulla base di una pretesa che non avrebbe potuto ottenere tutela giudiziale.
Richiamando dunque i principi affermati dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv 280027), deve ritenersi che non possa in alcun modo ipotizzarsi il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, posto che la condotta di COGNOME NOME era assistita dalla consapevolezza e dalla volontà di esercitare una pretesa che per la sua origine e per il suo oggetto non gli avrebbe consentito di rivolgersi al giudice e dunque destinata a tradursi, come rilevato, nel conseguimento di un ingiusto profitto.
Non rileva, dunque, che tra le parti intercorresse un accordo, attesa la natura illecita dello stesso, fermo restando che, contrariamente agli assunti difensivi, non è ravvisabile alcun profilo di incertezza o di contraddittorietà della motivazione in
ordine alla configurazione di una condotta minacciosa, alla luce delle dichiarazioni della persona offesa e dell’esplicito contenuto dei messaggi inviati dal ricorrente, oltre che dell’effettivo invio di un gruppo, armato di pistola (presumibilmente l’arma giocattolo poi rinvenuta in possesso di Silvi, peraltro idonea ad incutere timore), chiamato ad azionare nei confronti della vittima l’illecita pretesa del ricorrente.
Anche il secondo motivo del ricorso di COGNOME è manifestamente infondato.
I Giudici di merito hanno segnalato che il ricorrente era da tempo dedito allo spaccio di cocaina e crack e che si riforniva con costanza anche di rilevanti quantitativi, corrispondenti ad un chilogrammo o a cinquecento grammi, avvalendosi di altri collaboratori e conseguendo ricavi significativi, pari anche ad euro 10.000,00 al mese.
I reati contestati ai capi A e D riflettono specificamente tale ricostruzione, essendo stato dato conto di conversazioni dalle quali era agevolmente desumibile il quantitativo di droga acquistato e movimentato, come confermato anche dal sequestro di g. 428 di cocaina presso l’abitazione di COGNOME Nicole, cui era stata consegnata da COGNOME, che agiva per conto di COGNOME.
A fronte di un simile quadro, non inficiato da specifiche censure, correttamente è stato escluso che potesse ravvisarsi l’ipotesi della lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 309 del 1990, in senso contrario essendo stati valorizzati, in linea con l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, COGNOME, Rv. 274076), sia la quantità e la qualità dello stupefacente sia la posizione del ricorrente nel mercato degli stupefacenti, alla luce dei contatti di cui poteva disporre, della capacità di approvvigionamento e dei flussi di denaro assicurati dall’attività illecita, come tale non riconducibile, sulla scorta tali parametri, al piccolo spaccio, connotato da ridotta circolazione di merce e di denaro, nonché da una provvista di stupefacente, non tale da dar luogo a prolungata attività di spaccio verso un numero indiscriminato di soggetti (in tal senso Sez. 6, n. 45061 del 03/11/2022, COGNOME, Rv. 284149; Sez. 6, n. 15642 del 27/01/2015, COGNOME, Rv. 263068).
Del pari inammissibile risulta il ricorso presentato nell’interesse di NOME COGNOME
Deve premettersi che non ricorre alcuna incertezza in ordine ai reati per i quali è stata pronunciata condanna nei confronti del ricorrente, dovendosi aver riguardo alle rispettive contestazioni, senza che possa neppure in astratto
ipotizzarsi l’attribuzione al predetto anche dell’ipotesi di tentata estorsione di cu al capo B, circostanza comunque non desumibile dalla formula utilizzata dal primo Giudice e men che mai dal tenore della sentenza impugnata, fermo restando che la pena irrogata non è in alcun modo correlata a quell’imputazione.
D’altro canto, va anche precisato che le attenuanti generiche sono state negate al ricorrente sulla base di una valutazione non arbitraria, disancorata da qualsivoglia riferimento al capo B e per contro correlata al tipo di condotta e al dato personologico, essendosi dato conto delle conversazioni nelle quali lo stesso COGNOME riconosceva di operare nel settore da tempo, riuscendo a movimentare anche grossi quantitativi.
Va poi rimarcato come radicalmente priva di fondamento risulti la deduzione concernente la pena accessoria.
Va infatti rilevato che la riduzione della stessa nei confronti di COGNOME era derivata dalla riduzione della pena-base sotto il limite di anni cinque, che implicava l’applicazione dell’interdizione dai pubblici uffici per anni cinque.
Ma tale modifica non poteva riguardare COGNOME cui era stata irrogata già in primo grado una pena inferiore ad anni cinque, seppur superiore ad anni tre, con la conseguenza che la pena accessoria non avrebbe potuto che essere applicata per anni cinque in base al disposto dell’art. 29 cod. pen., non ricorrendo l’ipotesi di pena accessoria determinata solo nel minimo e nel massimo o solo con riguardo ad uno di tali termini, nella quale avrebbe dovuto procedersi a specifica determinazione del quantum ai sensi dell’art. 133 cod. pen. (Sez. U, n. 28910 del 28/02/2019, COGNOME, Rv. 276286).
Né è ravvisabile in tale prospettiva alcun profilo di disparità di trattamento o di inidoneità del trattamento a fini rieducativi, tale da rendere configurabile una questione di legittimità costituzionale, peraltro evocata nel motivo di ricorso su basi certamente erronee.
Risulta manifestamente infondato, oltre che largamente inerente al merito ed esulante dunque dalla sfera dello scrutinio di legittimità, anche il secondo motivo del ricorso di COGNOME.
Le deduzioni, essenzialmente volte ad accreditare il ruolo secondario del ricorrente, il suo assoggettamento a COGNOME e la configurabilità dell’ipotesi della lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 309 del 1990, cercano di prospettare una diversa lettura del compendio probatorio, nel presupposto che COGNOME, nelle conversazioni con COGNOME, intendesse depistare le indagini, indicando come responsabile lo stesso COGNOME e scagionando NOME COGNOME.
Si tratta di assunto che muove da un presupposto indimostrato, che comunque non può trovare spazio in questa sede, a fronte di una motivazione nella quale si è dato non illogicamente conto del ruolo svolto da COGNOME in esecuzione degli accordi intercorsi con COGNOME e degli argomenti con cui il ricorrente aveva replicato ai sospetti del predetto circa il fatto che il sequestro ai danni di NOME COGNOME potesse discendere da una sua delazione.
Per contro nella sentenza impugnata si segnala la piena adesione del ricorrente al progetto criminoso di COGNOME, che, dopo averlo inizialmente messo alla prova, gli aveva affidato maggiori quantitativi di sostanze stupefacenti, che COGNOME aveva provveduto a spacciare ricavando cospicui guadagni, che doveva poi riversare a COGNOME, una prima volta euro 4.700,00 e poi almeno euro 2.000,00, derivanti dalla cessione in un giorno di circa cento grammi di stupefacente.
A ciò è da aggiungere l’episodio del trasporto di circa 428 grammi di cocaina presso l’abitazione di NOME COGNOME, droga poi rinvenuta nell’abitazione di quest’ultima e sequestrata.
Sta di fatto che in tale prospettiva, dovendosi richiamare l’insegnamento giurisprudenziale in materia, la Corte territoriale ha correttamente escluso la possibilità di ricondurre i reati attribuiti ad COGNOME all’ipotesi della lieve enti cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 309 del 1990, non assumendo rilievo -neppure alla luce di una recente pronuncia delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 27727 del 14/12/2023, COGNOME, Rv. 286581), secondo cui «il medesimo fatto storico può configurare, in presenza dei diversi presupposti, nei confronti di un concorrente il reato di cui all’art. 73, comma 1 ovvero comma 4, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e nei confronti di altro concorrente il reato di cui all’art. 73, comma 5, del medesimo d.P.R.»- il ruolo subordinato del ricorrente, a fronte della sua piena condivisione del progetto di COGNOME Filippo e della qualità e quantità di stupefacente, che egli aveva contribuito a movimentare e spacciare, assicurando cospicui profitti.
Si tratta di analisi non vulnerata dal motivo di ricorso, radicalmente inidoneo a prospettare fratture logiche del ragionamento o ad individuare uno scostamento da consolidati parametri interpretativi.
All’inammissibilità dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, in ragione dei profili di colpa sottesi alla causa dell’inammissibilità, a quello della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P. Q. M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 17/10/2024