Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 33204 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 33204 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 10/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a AFRICO il 26/10/1950
avverso l’ordinanza del 05/12/2024 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del PG il quale ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1.La Corte di Appello di Reggio Calabria ha accolto parzialmente il ricorso per la riparazione di ingiusta detenzione propostafda NOME NOME in ragione della detenzione da questi sofferta dapprima in carcere, successivamente agli arresti domiciliari e poi di nuovo in carcere a seguito di aggravamento ai sensi dell’art.276 cod. proc. pen. e infine agli arresti domiciliari, in relazione a ipotesi di tentata estorsione e lesioni personali con l’uso di armi, fatti aggravati dall’impiego del metodo mafioso, fatti dai quali era stato assolto per non avere commesso il fatto dalla Corte di appello di Reggio Calabria con sentenza del 17 novembre 2020, divenuta irrevocabile.
/D La Corte di appello di Reggio Calabria ha escluso la ricorrenza di profili di dolo e colpa grave nella condotta del MORABITO contributivi alla adozione della misura e ha disposto la liquidazione dell’indennizzo sulla base dei criteri aritmetici indennitari fissati, per il giudizio riparativo, dal giudice di legittimità. Al contempo ha escluso l’indennizzo con riferimento al periodo corrente dal 12 marzo 2019 alla data della definitiva liberazione in quanto la misura cautelare custodiale era stata ripristinata in ragione delle ripetute inosservanze del cautelato all’obbligo di non allontanarsi dal luogo in cui doveva essere eseguita la misura cautelare domiciliare, inosservanze alle prescrizioni che erano state riscontrate in occasione dei controlli eseguiti i giorni 23 e 27 febbraio 2019.
2. Avverso la suddetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione la difesa di COGNOME Leo la quale, con un motivo unico, ha dedotto violazione di legge e vizio motivazionale in relazione all’art.314 cod. proc. pen. per la mancata valutazione, ai fini della liquidazione dell’indennizzo,del periodo di detenzione sofferto a seguito dell’aggravamento ex art.276 cod. proc. pen., a partire dal 12 marzo 2019. Assume il ricorrente la illogicità del ragionamento del giudice distrettuale il quale, pur dando atto dell’assenza di condotte dolose e colpose dell’istante idonee a creare la falsa apparenza di reità, così da indurre l’autorità giudiziaria a intervenire con l’adozione della misura cautelare, aveva valorizzato un comportamento successivo all’adozione della misura che, pur costituendo ragione di aggravamento della cautela, in nessuna relazione eziologica si poneva con la genesi della misura cautelare e quindi non poteva essere valutato a detrimento dell’istante, la cui restrizione della libertà aveva come
scaturigine una pluralità di indizi che erano stati esclusi dal giudice di merito.
Sotto diverso profilo, ma sempre sotto il profilo della rilevanza causale della ritenuta condotta colposa, la difesa assume la illogicità dell’ordinanza impugnata anche nella parte in cui ritiene totalmente non indennizzabile il periodo di custodia cautelare sofferto in carcere in conseguenza dell’aggravamento della misura, atteso che l’aggravamento interveniva su una misura coercitiva già di natura detentiva (arresti domiciliari) di talchè il periodo di detenzione sofferto dopo l’aggravamento avrebbe dovuto essere indennizzato quantomeno a titolo di arresti domiciliari, misura alla quale il COGNOME era sottoposto al momento dell’aggravamento e alla quale era stato successivamente destinato a seguito dell’attenuazione del regime cautelare, prima della definitiva liberazione intervenuta in coincidenza della pronuncia assolutoria.
La procura Generale presso la Corte di cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.Nel procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione il sindacato del giudice di legittimità sull’ordinanza che definisce il procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione è limitato alla correttezza del procedimento logico giuridico con cui il giudice è pervenuto ad accertare o negare i presupposti per l’ottenimento del beneficio. Resta invece nelle esclusive attribuzioni del giudice di merito, che è tenuto a motivare adeguatamente e logicamente il suo convincimento, la valutazione sull’esistenza e la gravità della colpa o sull’esistenza del dolo (v. da ultimo, Sezioni unite, 28 novembre 2013, n. 51779, Nicosia). L’art.314 comma I c.p.p. prevede al primo comma che “chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”.
In tema di equa riparazione per ingiusta detenzione, dunque, rappresenta causa impeditiva all’affermazione del diritto alla riparazione l’avere l’interessato dato causa, per dolo o per colpa grave, all’instaurazione o al mantenimento della custodia cautelare (art. 314, comma 1, ultima parte, cod. proc. pen.); l’assenza di tale causa, costituendo condizione necessaria al sorgere del diritto all’equa riparazione,
deve essere accertata d’ufficio dal giudice, indipendentemente dalla deduzione della parte (cfr. sul punto questa Sez. 4, n. 34181 del 5.11.2002, COGNOME, rv. 226004). In proposito, le Sezioni Unite di questa Corte hanno da tempo precisato che, in tema di presupposti per la riparazione dell’ingiusta detenzione, deve intendersi dolosa – e conseguentemente idonea ad escludere la sussistenza del diritto all’indennizzo, ai sensi dell’art. 314, primo comma, cod. proc. pen. – non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso confliggente o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il parametro dell’ “id quod plerurnque accidit” secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo (Sez. Unite n. 43 del 13.12.1995 dep. il 9.2.1996, COGNOME ed altri, rv. 203637).
Poiché inoltre, la nozione di colpa è data dall’art. 43 cod. pen., deve ritenersi ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione, ai sensi del predetto primo comma dell’art. 314 cod. proc. pen., quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso (Sez. 4, n. 43302 del 23.10.2008, COGNOME, rv. 242034).
Ancora le Sezioni Unite, hanno affermato che il giudice, nell’accertare la sussistenza o meno della condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, consistente nell’incidenza causale del dolo o della colpa grave dell’interessato rispetto all’applicazione del provvedimento di custodia cautelare, deve valutare la condotta tenuta dal predetto sia anteriormente che successivamente alla sottoposizione alla misura e, più in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico (Sez. Unite, n. 32383 del 27.5.2010, COGNOME, rv. 247664).
D’altro canto la funzione solidaristica dell’istituto impone all’interprete una valutazione dell’eventuale contributo fornito dall’istante non soltanto al momento dell’adozione della cautela, ma anche nel corso della sua esecuzione quando tale comportamento si sostanzi in azioni in
grado di valorizzare la prospettazione accusatoria (dichiarazioni confessorie, prospettazione di falsi alibi o comunque affermazioni menzognere idonee a confortare la gravità indiziaria), ovvero di esaltare le esigenze cautelari ravvisate dall’autorità giudiziaria (pericolo di fuga in ipotesi di evasione o di inosservanza delle prescrizioni collegate alla misura), così da indurre l’autorità giudiziaria a protrarne il mantenimento ovvero a ritardarne la cessazione. Invero in caso di insussistenza “ah origine” delle condizioni di applicabilità della misura custodiale, il comportamento doloso o gravemente colposo della persona ad essa sottoposta può comunque esplicare efficacia preclusiva al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione per il periodo, ad esso successivo, per il quale abbia dato o concorso a dare causa al mantenimento della custodia cautelare (Sez.3, n.15786 del 04/02/2020 Cc., COGNOME, Rv. 279385 – 01); il che consente di affermare che il contributo causale dell’interessato riguarda la privazione della libertà rispetto a tutte le vicende che si dipanano dal momento del suo arresto, senza che possa configurarsi, come sembra adombrare la difesa, che una volta escluso un contributo dell’imputato all’adozione della misura in termini di colpa grave sinergica, non sia più possibile riconoscere rilevanza a condotte processuali o extra processuali che abbiano inciso anche sulla scelta della misura da ~teme e sull’eventuale ritardo nella sua cessazione, in ragione di un titolo adottato sulla scorta di ulteriori presupposti (nella specie, le ripetute e numerose violazioni degli obblighi imposti con la misura non coercitiva). Pertanto, la necessità di valutare l’eventuale ricorrenza di un comportamento doloso o gravemente colposo dell’interessato, che sia stato concausa dell’errore nel quale è caduta l’A.G., permane anche con riferimento alle vicende successive all’esecuzione della misura, sebbene tale comportamento debba essere individuato in stretto collegamento con l’atto giudiziario dal quale è derivata la privazione della libertà rivelatasi ingiusta ex post (in motivazione, Sez. 4, n, 57203 del 21/9/2017, Paraschiva, Rv.271689) e ciò anche in relazione ai diversi segmenti nei quali si articola la vicenda cautelare.
Del tutto correttamente, quindi, la Corte della riparazione ha distinto i periodi di custodia subita, rinvenendo il comportamento ostativo solo in relazione a quelltrsuccessivo all’aggravamento della misura non custodiale ai sensi dell’art. 276 cod. proc. pen., conseguito al comportamento dell’interessato.
Peraltro il provvedimento assunto dalla Corte di appello di Reggio Calabria appare censurabile, sotto il profilo della manifesta illogicità e della
totale carenza di motivazione nella parte in cui, pure partendo dalle corrette coordinate sopra evidenziate, ha escluso del tutto il diritto all’indennizzo per il periodo successivo all’aggravamento della misura (13 marzo 2019), fino alla definitiva remissione in libertà del ricorrente (17 novembre 2020), senza considerare che, alla data dell’aggravamento della misura, il COGNOME era già sottoposto ad una misura cautelare detentiva (arresti domiciliari) e che il comportamento del cautelato nel corso della esecuzione della cautela, riconosciuto colposo in quanto inosservante delle prescrizioni connesse alla misura domiciliare, non ha determinato l’adozione della misura privativa della libertà personale, ma ha comportato esclusivamente un surplus di afflittività rispetto al regime cautelare originario (misura degli arresti domiciliari), cui il COGNOME era sottoposto in ragione di un titolo successivamente rivelatosi ingiusto. Orbene, quello che è totalmente assente nella motivazione della ordinanza impugnata è il criterio inferenziale, fondato sulla causalità, che ha determinato la esclusione di qualsiasi indennizzo per il periodo successivo all’aggravamento della misura, come se il riconosciuto comportamento negligente del COGNOME, consistito nella ripetuta inosservanza alle prescrizioni concernenti l’esecuzione della misura domiciliare, abbia legittimato, ratificandolo, il giudizio di gravità indiziaria formulato in sede di adozione della cautela. Ma tale inferenza è rimasta del tutto inespressa.
5. Invero perché la condotta dell’imputato possa essere considerata ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo, è indispensabile non solo che si tratti di una condotta scorretta o gravemente imprudente, ma che ricorra anche il rapporto sinergico di causa ed effetto tra condotta e la detenzione, con conseguente obbligo di motivazione del giudice di merito al riguardo (Sez. 4, n.1705 del 10/3/2000, Revello, Rv.216479; n.43457 del 29 Settembre 2015, Singh, Rv.264680), principi che appaiono pienamente applicabili anche per comportamenti, asseritamente colposi, realizzati nel corso di esecuzione di una misura cautelare, ritenuti rilevanti per il mantenimento, ovvero per l’aggravamento di una misura detentiva in atto.
In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, la condotta dolosa o gravemente colposa di cui all’art. 314 cod. proc. pen. costituisce una condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione solo qualora sussista un apprezzabile collegamento causale tra la condotta stessa e la custodia cautelare, in relazione sia al suo momento genetico sia al suo mantenimento, e non può essere desunta da semplici elementi di sospetto (sez.3, n.45593 del 31/01/2017, COGNOME, Rv.271790).
5.1. Va infatti ricordato che nella determinazione dell’indennizzo dovuto a colui che abbia subito una detenzione ingiusta si deve fare riferimento al parametro aritmetico costituito dal rapporto tra il tetto massimo dell’indennizzo fissato dall’art. 315, comma 2, cod. proc. pen. e il termine massimo della custodia cautelare pari a sei anni ex art. 303, comma 4, lett. c) espresso in giorni, moltiplicato per il periodo, anch’esso espresso in giorni, di ingiusta detenzione subita che deve essere opportunamente integrato dal giudice, innalzando o riducendo il risultato di tale calcolo numerico, nei limiti dell’importo massimo indennizzabile, per rendere la decisione più equa possibile e rispondente alla specificità, positiva o negativa, della situazione concreta. Il differente grado di afflittività delle diverse forme di restrizione della libertà personale costituisce un parametro ineludibile nella determinazione dell’equa riparazione. Non può infatti essere revocato in dubbio che la detenzione in carcere comporti un carico afflittivo nettamente superiore rispetto alla restrizione domiciliare, tanto che per quest’ultima si ritiene congruo un coefficiente di riduzione pari alla metà (Sez.4, n.12257 del 5/02/2025, Min. delle Finanze Rv. 287729 – 01).
Ne consegue che, se la maggiore afflittività della misura cautelare in carcere può non essere considerata ai fini della liquidazione dell’indennizzo, qualora sia stata determinata dal comportamento doloso del cautelato COGNOME, risulta del tutto illogica e priva di motivazione l’esclusione dell’indennizzo con riferimento alla originaria misura degli arresti domiciliari, la quale era stata disposta con riferimento ad un titolo di reato per il quale risulta essere stata pronunciata una sentenza di assoluzione che giustifica la riparazione dell’ingiusta detenzione ai sensi dell’art.314 cod. proc. pen.
6. L’ordinanza impugnata va pertanto annullata con rinvio alla Corte di Appello di Reggio Calabria cui si demanda altresì la regolamentazione delle spese tra le parti per questo giudizio di legittimità. Il giudice del rinvio, nel quantificare l’indennizzo, dovrà valutare l’incidenza della condotta dolosa del COGNOME che ha determinato l’inasprimento della misura degli arresti domiciliari nella custodia in carcere dal 13 Marzo 2019 fino alla data dell’effettiva liberazione, applicando i principi sopra enunciati e procedendo ad una modulazione dell’indennizzo che tenga adeguatamente conto della diversa genesi dei periodi di privazione della libertà personale patiti dall’istante e del contributo arrecato dal cautelato all’aggravamento della misura, ovvero al mantenimento della stessa, in relazione a ciascun periodo di detenzione.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di Appello di Reggio Calabria, cui demanda altresì la regolamentazione delle spese tra le parti per questo giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 10 luglio 2025.