Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 17459 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 17459 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 16/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a PIETRELCINA il 15/03/1953
avverso l’ordinanza del 01/10/2024 della CORTE APPELLO di ROMA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del PG, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 10 ottobre 2024, la Corte d’appello di Roma ha respinto la domanda formulata da NOME COGNOME per la liquidazione dell’equa riparazione dovuta ad ingiusta privazione della libertà personale sofferta dal 18 marzo al 13 luglio 2015.
La misura cautelare fu disposta dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, con ordinanza del 9 marzo 2015, per la ritenuta sussistenza di gravi indizi del delitto di cui agli artt. 81, comma 2, 110, 314, 61 n. 7 cod. pen che COGNOME avrebbe commesso, in concorso con altri, omettendo ogni controllo circa l’impiego e la destinazione dei fondi pubblici erogati in favore della “Gestione Fuori Bilancio” (d’ora in avanti GFB) per “particolari e straordinarie esigenze anche di ordine pubblico della città di Palermo” e consentendo così a NOME COGNOME, commissario liquidatore della RAGIONE_SOCIALE, di appropriarsi di oltre 24.000 euro, utilizzandoli per scopi personali o trasferendoli a persone fisiche e giuridiche che non avevano ragioni di credito nei confronti della GFB.
Dalla lettura dell’ordinanza della Corte di appello emerge:
che la difesa di COGNOME propose richiesta di riesame contro l’ordinanza cautelare e il Tribunale per il riesame di Roma la confermò con provvedimento del 3 aprile 2015;
che la Corte di cassazione, con sentenza del 10 luglio 2015, dispose l’annullamento con rinvio dell’ordinanza del Tribunale per il riesame;
che, pronunciando in sede di rinvio, con provvedimento dell’8 settembre 2015, il Tribunale per il riesame di Roma annullò l’ordinanza cautelare;
-che COGNOME è stato assolto «per non aver commesso il fatto» con sentenza del Tribunale di Roma;
che questa sentenza, pronunciata il 14 aprile 2022, è divenuta irrevocabile il 30 giugno 2022.
L’istanza volta ad ottenere la liquidazione dell’equa riparazione per la privazione della libertà personale ingiustamente sofferta è stata proposta in data 27 marzo 2024 ed è stata respinta dalla Corte di appello di Roma. Secondo la Corte territoriale, COGNOME avrebbe concorso a dar causa alla privazione della libertà personale con un comportamento gravemente colposo consistito nell’aver mantenuto «un atteggiamento omertoso e di copertura dei colleghi» e del dirigente NOME COGNOME (quest’ultimo condannato alla pena di cinque anni di reclusione). Avrebbe contribuito, inoltre, al protrarsi della privazione della liber personale perché, nell’interrogatorio reso davanti al G.i.p., «lungi dal chiarire i fa o limitarsi a protestare la propria innocenza», rese dichiarazioni «nebulose che
non consentivano in alcun modo di giungere al disvelamento dei fatti o all’accertamento cautelare della sua estraneità, integrando una sorta di sviamento delle indagini» (così testualmente pag. 3 dell’ordinanza).
Per mezzo del proprio difensore, munito di procura speciale, NOME COGNOME ha proposto ricorso contro l’ordinanza di rigetto della domanda di riparazione per ingiusta detenzione.
3.1. Col primo motivo, il ricorrente lamenta violazione dell’art. 314 cod. proc. pen. Osserva che l’ordinanza cautelare è stata annullata dal Tribunale per il riesame con provvedimento dell’8 settembre 2015 per la ritenuta assenza di gravi indizi di reità, sicché la domanda di riparazione per ingiusta detenzione è stata formulata ai sensi dell’art. 314, comma 2, cod. proc. pen. Ricorda che, per giurisprudenza costante, in questi casi, il comportamento doloso o gravemente colposo dell’interessato osta al riconoscimento del diritto all’indennizzo solo a condizione che l’annullamento non sia stato pronunciato sulla base del medesimo materiale probatorio che il G.i.p. aveva a disposizione. Secondo la difesa, nel caso oggetto del presente ricorso si è verificata esattamente questa situazione. La sussistenza di gravi indizi è stata esclusa, infatti, sulla base dei medesimi elementi valutati dal G.i.p. ai fini dell’applicazione della misura cautelare essendo evidente, già sulla base degli atti di indagine, che COGNOME «non aveva mai ricoperto alcun ufficio che comportasse attribuzioni, funzioni o compiti di vigilanza di nessun genere sulla procedura liquidatoria oggetto del procedimento penale» (pag. 5 dell’atto di ricorso).
3.2. Col secondo motivo, la difesa lamenta violazione di legge: in specie, degli artt. 314, 521 cod. proc. pen. e 24, 27 Cost. Il difensore rileva che la colpa grave dell’interessato è stata ritenuta sussistente valorizzando il contenuto della sentenza di assoluzione e sostiene che questa sentenza non avrebbe potuto essere utilizzata nella parte in cui dà rilievo a comportamenti che non erano oggetto di imputazione perché quei comportamenti non avrebbero potuto essere valutati neppure nel giudizio di cognizione. Riferisce, inoltre, di aver presentato ricorso alla Corte EDU dolendosi del fatto che la sentenza definitiva di assoluzione conteneva affermazioni pregiudizievoli che COGNOME non aveva potuto contestare mediante un mezzo ordinario di impugnazione. Precisa di aver chiesto formalmente ai giudici della riparazione di non tenere conto, nella propria decisione, delle parti della sentenza sulle quali la CEDU è stata chiamata a pronunciarsi. Secondo la difesa, i giudici di merito hanno affermato, «del tutto arbitrariamente», che la condotta di COGNOME «avrebbe dovuto essere sussunta nel reato di favoreggiamento», ma non hanno disposto la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero per questo diverso fatto precludendo così all’imputato la possibilità di difendersi. In te
difensiva, tale «gravissima patologia della pronuncia assolutoria» impediva ai giudici della riparazione di utilizzare ai fini della decisione tutte le parti d sentenza di assoluzione contenenti valutazioni su fatti diversi rispetto a quelli contestati.
3.3. Col terzo motivo, la difesa deduce violazione di legge e vizi di motivazione per essere stato individuato come gravemente colposo l’atteggiamento tenuto dall’indagato nel corso dell’interrogatorio di garanzia. Osserva che, dovendo difendersi dall’accusa di aver concorso in un reato omettendo di adempiere ai propri doveri di controllo e vigilanza, COGNOME sostenne di non aver mai rivestito funzioni che gli imponessero doveri di questo tipo e la tesi difensiva ha trovato riscontro nella sentenza della Corte di cassazione del 10 luglio 2025, nella decisione del Tribunale del riesame (che, in sede di rinvio, ha annullato l’ordinanza cautelare) ed anche nella sentenza di assoluzione, sicché l’affermazione contenuta nell’ordinanza impugnata (pag. 3), secondo la quale l’indagato avrebbe reso al G.i.p. dichiarazioni «nebulose», tali da determinare «una sorta di sviamento delle indagini», non trova riscontro in atti e avrebbe dovuto essere chiarita.
3.4. Col quarto motivo, la difesa deduce violazione di legge e vizi di motivazione con riferimento al mancato esercizio, da parte del giudice della riparazione, dei poteri istruttori che la giurisprudenza gli riconosce. Il difensore de ricorrente si duole che l’ordinanza impugnata abbia stigmatizzato (pag. 3 – punto 13) l’incompletezza della documentazione prodotta con riguardo al contenuto delle intercettazioni telefoniche (la trascrizione delle quali non è stata allegat all’istanza). Rileva che, per giurisprudenza costante, il giudice della riparazione può avvalersi della possibilità, prevista dagli artt. 213 e 738, comma 3, cod. proc. civ., di chiedere anche d’ufficio informazioni scritte su atti e documenti (cita sostegno Sez. 4, n. 46468 del 14/09/2018, COGNOME, Rv. 274353; Sez. 4, n. 18172 del 21/02/2017, COGNOME, Rv. 269779).
3.5. In data 11 febbraio 2025 il difensore di COGNOME ha proposto motivi nuovi sviluppando gli argomenti trattati nel ricorso principale con particolare riferimento al contenuto delle intercettazioni telefoniche che la Corte territorial ha ritenuto di non poter acquisire e sottolineando che, «in nessuna delle conversazioni intercettate di cui è protagonista il Dott. COGNOME si fa riferimento ad appropriazione di somme da parte del COGNOME, al coinvolgimento nelle appropriazioni di dipendenti o funzionari del Ministero, a qualsiasi condotta di rilievo penale, disciplinare o amministrativo al di là della mancata presentazione del rendiconto contabile da parte del commissario liquidatore».
Con memoria in data 21 gennaio 2025, nell’interesse del Ministero resistente, l’Avvocatura dello Stato ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità o, in subordine, il rigetto del ricorso.
Il Procuratore generale ha rassegnato conclusioni scritte in data 29 gennaio 2015, in vista dell’udienza fissata per il 27 febbraio 2025 e poi (a seguito di un rinvio disposto d’ufficio) in data 29 marzo 2025 in vista dell’odierna udienza. In entrambi i casi è stato chiesto il rigetto del ricorso.
Il 21 febbraio 2025 il difensore del ricorrente ha replicato alla requisitoria scritta del 29 gennaio 2025 e ha insistito per l’accoglimento dei motivi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso è fondato e assorbente.
Come noto, l’art. 314 cod. proc. pen. individua più ipotesi di ingiusta privazione della libertà personale. La prima ipotesi, disciplinata dall’art. 314 comma 1, cod. proc. pen., riguarda la così detta “ingiustizia sostanziale” della detenzione e si verifica quando una persona – prosciolta perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato – era stata sottoposta, per quel fatto, a misura cautelare privativa della libertà personale. La seconda, disciplinata dall’art. 314, comma 2, cod. proc. pen., riguarda la così detta “ingiustizia formale” e si verifica quando una persona – prosciolta per qualsiasi causa o anche condannata – sia stata sottoposta, nel corso del procedimento o del processo, a misura cautelare privativa della libertà personale e si sia accertato, con decisione irrevocabile, che la misura era stata disposta o mantenuta «senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280» del codice di rito.
Dalla lettura del provvedimento impugnato emerge che l’ordinanza con la quale NOME COGNOME fu sottoposto agli arresti domiciliari è stata annullata dal Tribunale per il riesame di Roma con ordinanza dell’8 settembre 2025. Si versa dunque in un caso di ingiustizia formale ex art. 314, comma 2, cod. proc. pen. e l’istanza volta ad ottenere la liquidazione dell’equo indennizzo faceva riferimento espresso al giudicato cautelare formatosi a seguito dell’ordinanza del Tribunale per il riesame.
3. Tanto premesso, si deve ricordare che – come autorevolmente affermato dalle Sezioni unite di questa Corte di legittimità (Sez. U, n. 32383 del
27/05/2010,
COGNOME, Rv. 247663) – «la circostanza di avere dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave opera, quale condizione ostativa al
riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, anche in relazione alle misure disposte in difetto delle condizioni di applicabilità previst
dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen.» e, tuttavia, tale causa ostativa non può
operare quando l’accertamento della insussistenza ab origine
delle condizioni di applicabilità della misura avvenga sulla base di una diversa valutazione dei
medesimi elementi trasmessi al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare.
In questo caso, infatti, la possibilità di valutare l’incidenza della eventuale condott dolosa o colposa dell’imputato sulla applicazione della misura cautelare è preclusa
dalla constatazione che il giudice della cautela disponeva, per negare o revocare la misura, degli stessi elementi sulla base dei quali il giudice di merito ha escluso
la sussistenza delle condizioni di applicabilità della stessa, sicché la condotta dell’interessato, ancorché dolosa o gravemente colposa, non può aver avuto
efficacia sinergica rispetto alle determinazioni assunte nella fase cautelare.
Ne consegue che la Corte di appello avrebbe dovuto preliminarmente chiarire – e non lo ha fatto – se l’annullamento dell’ordinanza di applicazione della misura cautelare fu disposto sulla base di nuovi elementi forniti al Tribunale del riesame dalla difesa o, invece, sulla base di una diversa valutazione dei medesimi elementi trasmessi al giudice che aveva emesso il provvedimento cautelare. In quest’ultimo caso, infatti, la condizione ostativa al riconoscimento del diritto, costituita dall’av dato causa (o aver concorso a dar causa) alla privazione della libertà personale, non potrebbe operare (fra le tante: Sez. 4, n.5452 del 11/01/2019, COGNOME, Rv. 275021; Sez. 4, n. 54042 del 09/11/2018, Longordo, Rv. 274765).
Per quanto esposto, l’ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Roma cui deve essere demandata anche la regolamentazione tra le parti delle spese relative al presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di Appello di Roma, cui demanda anche la regolamentazione delle spese tra le parti per questo giudizio di legittimità.
Così deciso il 16 aprile 2025
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