Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 13604 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 13604 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 25/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a SERSALE il 24/02/1978
avverso l’ordinanza del 26/02/2024 della CORTE APPELLO di CATANZARO
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni ex art. 611 c.p.p. del PG in persona del Sostituto Proc. Gen. NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso e la memoria degli Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME che hanno insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello di Catanzaro, con ordinanza del 26/02/2024, ha rigettato la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione avanzata ex art. 314 cod. proc. pen. a mezzo di procuratore speciale dall’odierno ricorrente NOME COGNOME subita in custodia cautelare in carcere dal 29/11/2016 al 16/11/2020 per un totale di 1450 giorni a seguito dell’ordinanza del GIP del tribunale di Catanzaro i emessa il 10/11/2016 nel procedimento penale N.RGNR 2585/2013 per il reato di cui all’articolo 416 bis commi 1, 2, 3, 4, 5, 6 cod. pen. sub capo 1) dell’editt cautelare, con l’asserito ruolo di partecipe del sodalizio mafioso capeggiato da COGNOME NOME. Più precisamente lo stesso veniva accusato di partecipare e alla sottoarticolazione che fa capo a suo cognato COGNOME NOME, e condannato in secondo grado nel procedimento penale de quo, sostituendolo in diverse attività nel periodo in cui costui si trovava ristretto Tregime detentivo domestico.
NOME COGNOME il 02/12/2016 era stato sottoposto ad interrogatorio garanzia e si era avvalso della facoltà di non rispondere.
Il Tribunale del riesame di Catanzaro,con ordinanza n. 1344/2016 1 aveva rigettato la richiesta di annullamento dell’ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere e la Corte di Cassazione con sentenza del 26/04/2017 aveva rigettato il ricorso proposto avverso l’ordinanza del tribunale del riesame.
Con sentenza del 18/12/2018 il Gup del tribunale di Catanzaro aveva condannato l’odierno ricorrente alla pena di anni 10 e mesi 8 di reclusione.
Con successiva sentenza del 16/11/2020,divenuta irrevocabile il 01/04/2021, la Corte di appello di Catanzaro lo aveva assolto la formula perché il fatto non sussiste.
Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, NOME COGNOME deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.
Il ricorrente deduce violazione di legge ex art. 606, comma 1, lett. B) in relazione all’articolo 314 comma 1 cod. proc. pen., contestando la sussistenza della condizione ostativa alla riparazione della colpa grave. Deduce altresì illogicità della motivazione perché contraddittoria rispetto alla sentenza n. 1907/2020 della Corte di appello di Catanzaro che ha assolto il ricorrente. Richiama le specifiche vicende in relazione alle quali lo stesso ricorrente era stato assolto anche nel diverso procedimento 2331/13 RGNR e l’ordinanza n. 13123 del 28/2/22-11/1/23 con la quale era stata riconosciuta la riparazione per l’ingiusta detenzione subita dall’COGNOME nell’ambito del proc. 2331/13 RGNR, nell’ambito del quale era stato arrestato sulla
base degli stessi elementi (fonti dichiarative) poi posti a fondamento del procedimento conclusosi con la sentenza assolutoria n. 1907/2020 della Corte di appello di Catanzaro.
Per il ricorrente la decisione di diniego resa dal giudice della riparazione risul terebbe fondata su elementi già valutati come non ostativi alla riparazione rispetto al principale rimprovero mossogli nel procedimento 2331/13 RGNR (ove si sostiene che fossero in verifica le medesime circostanze oggi rivalutate in chiave associativa).
D tesi che si sostiene in ricorso è che, qualora la Corte territoriale che ha emesso l’ordinanza che si impugna con il presente atto avesse tenuto in considerazione il suo provvedimento che ha valutato gli stessi elementi in maniera completamente opposta, sarebbe senz’altro giunta a conclusioni altrettanto opposte e, conseguentemente, avrebbe anche in questo caso riconosciuto la riparazione per l’ingiusta detenzione subita dal ricorrente.
Sarebbe evidente, dunque, come manchi, nella fattispecie in oggetto, una reale verifica dell’esistenza di un comportamento del ricorrente che abbia contribuito a configurare un grave quadro indiziario nei suoi confronti rispetto al reato associativo mafioso.
Viene precisato e ribadito come la descritta condizione non possa essere attribuita ad alcuna condotta del ricorrente.
Nella situazione data, per il difensore ricorrente non si comprende quale sia stato il criterio che ha spinto la Corte di merito a considerare la condotta posta i essere da COGNOME COGNOME quale presupposto che abbia ingenerato la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale. Non vi sarebbe, infatti, nessuna condotta che possa dirsi caratterizzata da evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza dkleggi, regolamenti o norme disciplinari, in uno al necessario collegamento con la condizione indiziaria contenuta nell’ordinanza che ha disposto la restrizione cautelare per il reato di associazione mafiosa. Nessuna situazione, dunque, che possa costituire una non voluta ma prevedibile ragione di intervento dell’Autorità giudiziaria attraverso provvedimenti re strittivi della libertà personale.
Ritiene il ricorrente che difetti in questo giudizio di riparazione, proprio l’ stenza di un comportamento del ricorrente che possa essere considerato ostativo al riconoscimento dell’indennizzo. In ciò si concretizzerebbe la macroscopica erroneità dell’ordinanza impugnata. Non ci sarebbe alcuna condotta che possa essere rimproverata all’Esposito come causativa dell’errore compiuto dall’autorità giudiziaria nel sottoporlo a misura cautelare. Il rimprovero invocato a motivo di diniego dell’indennizzo si risolve nel solo richiamo alle dichiarazioni di terzi e non ad u comportamento posto in essere dal ricorrente.
Con una ragione in più che potrà utilmente invocarsi nel caso di specie e cioè la circostanza che vede lo stesso inquirente che aziona la domanda cautelare di cui si discute (emessa in data 10.11.2016) assolutamente consapevole del fatto che quelle condotte oggetto di rimprovero in questo giudizio ricavate, per come detto, dalle dichiarazioni dei soggetti indicati, sono state escluse o ritenute non provate dal giudice della cognizione nel proc. 2331/13 RGNR, definito con sentenza di assoluzione in data 25/09/2014.
Nella indicata situazione per il ricorrente non si comprende come l’Autorità Giudiziaria possa essere stata indotta in errore dal ricorrente che, rispetto alla scena investigativa di questo giudizio, per come pure attestato dalla Corte della cognizione, risulta completamente assente.
Ed allora, in tema di verifica dell’ingiustizia sostanziale della privazione dell libertà patita dal ricorrente, con la necessaria considerazione dell’antinomia strutturale tra custodia e assoluzione, il dato relativo all’assenza di comportamenti, dolosi o gravemente colposi, direttamente incidenti nella scelta dell’adozione o mantenimento del provvedimento restrittivo, costituiva l’essenza su cui doveva fondarsi la decisione in tema di indennizzo.
Per il ricorrente non v’è dubbio che la valutazione effettuata al momento dell’intervento restrittivo, pur a fronte di ipotizzata e pretesa apparenza della fon datezza del rimprovero sotto il diverso profilo associativo, poi smentita dal giudizio, non trova il suo fondamento o il suo contributo in una condotta dolosa o gravemente colposa del ricorrente al quale, si ribadisce, non è riferibile alcun comportamento che possa aver avuto efficienza causale nel «determini-ismo dell’evento» cautelare.
In ricorso si ribadisce più volte che il ricorrente non ha posto in essere alcuna condotta successiva a quella già verificata nel diverso procedimento 2331/13 RGNR. Quelle condotte sono state smentite dalla verifica giudiziale sfociata nell’esito assolutorio del 25.9.2014. Quella detenzione patita a seguito di quelle contestazioni è stata interamente riparata dalla Corte catanzarese con l’ordinanza n. 13/23 – RID 4/2019.
Non si comprende, dunque, come quei medesimi elementi possano oggi considerarsi ostativi alla ric! -iiesta di indennizzo nel diverso procedimento 2885/13 NR la cui “rinnovazione” cautelare è stata determinata dalla sola scelta dell’inquirente di assegnare a quegli stessi elementi una prospettazione associativa senza che si sia assistito ad un comportamento ulteriore del ricorrente rispetto a quello già verificato nel diverso giudizio 2331/13 RGNR e oggetto di completa riparazione nella relativa domanda di indennizzo.
Ed è ciò che secondo il ricorrente rileva ai fini della odierna verifica.
L’ordinanza – ci si duole – non si cura di verificare quali siano, cioè, i comportamenti gravemente colposi dell’istante (e non quelli di altri protagonisti della vicenda) che possano porsi in relazione causale col provvedimento cautelare emesso.
L’ordinanza impugnata non farebbe buon governo dei principi di diritto più volte affermati in tema di ingiusta detenzione, non confrontandosi con le motivazioni poste a fondamento della sentenza di assoluzione che pure chiarisce la specificità della vicenda processuale del ricorrente.
Si evidenzia che la decisione del giudice della cognizione segnala un elemento di assoluta e decisiva portata rispetto al giudizio riparatorio e cioè la circostanz secondo cui l’odierno ricorrente è completamente assente dalla scena investigativa oggetto di attenzione cautelare.
L’ordinanza impugnata, in sostanza, espone il quadro indiziario,sulla base del quale la privazione della libertà personale è stata disposta, ma solo sommariamente, anzi quasi per nulla, il contenuto della sentenza di assoluzione, con la quale, deliberatamente, omette di confrontarsi. Vi è la necessità, invece, che il giudice della riparazione guardi rt tutti gli elementi del procedimento e del processo, fornendo del convincimento conseguito motivazione adeguata e congrua valutando se la condotta del ricorrente sia stata il presupposto che abbia ingenerato la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale (il richiamo è al dictum di Sez. 4, n. 3359 del 22/09/2016).
L’ordinanza gravata trascurerebbe, dunque, che il giudice della riparazione non ha il compito di accertare se il quadro indiziario fosse grave e sussistessero i presupposti per l’applicazione della misura, ma se l’imputato abbia dato causa, o concorso a dar causa, con dolo o colpa grave,alla privazione della libertà personale, la cui “ingiustizia” discende dalla irrevocabilità della sentenza di proscioglimento quando la stessa è pronunciata perché il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato.
Per le ragioni esposte, il ricorrente chiede l’annullamento dell’ordinanza impugnata con ogni conseguenziale statuizione.
Il P.G. e l’Avvocatura Generale dello Stato per il Ministero dell’Economia e delle Finanze hanno reso le conclusioni scritte ex art. 611 c.p.p. riportate in epi g rafe
CONSIDERATO IN DIRITTO
I motivi sopra illustrati sono infondati e, pertanto, il proposto ricorso rigettato.
Va premesso che è principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte Suprema che nei procedimenti per riparazione per ingiusta detenzione la cognizione del giudice di legittimità deve intendersi limitata alla sola legittimità d provvedimento impugnato, anche sotto l’aspetto della congruità e logicità della motivazione, e non può investire naturalmente il merito. Ciò ai sensi del combinato disposto di cui all’articolo 646 secondo capoverso cod. proc. pen., da ritenersi applicabile per il richiamo contenuto nel terzo comma dell’articolo 315 cod. proc. pen.
Dalla circostanza che nella procedura per il riconoscimento di equo indennizzo per ingiusta detenzione il giudizio si svolga in un unico grado di merito (in sede di orte di appello) non può trarsi la convinzione che la Corte di cassazione giudichi anche nel merito, poiché una siffatta estensione di giudizio, pur talvolta prevista dalla legge, non risulta da alcuna disposizione che, per la sua eccezionalità, non potrebbe che essere esplicita. Al contrario l’art. 646, comma terzo cod. proc. pen. (al quale rinvia l’art. 31.5 ultimo comma cod. proc. pen.) stabilisce semplicemente che avverso il provvedimento della Corte di appello, gli interessati possono ricorrere per Cassazione: conseguentemente tale rimedio rimane contenuto nel perimetro deducibile dai motivi di ricorso enunciati dall’art. 606 cod. proc. pen., con tutte le limitazioni in essi previste (cfr. ex multis, Sez. 4, n. 542 del 21/4/1994, Bollato, Rv. 198097, che, affermando tale principio, ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso ordinanza del giudice di merito in materia, col quale non si deduceva violazione di legge, ma semplicemente ingiustizia della decisione con istanza di diretta attribuzione di equa somma da parte della Corte).
Il giudice della riparazione motiva in maniera ampia e circostanziata sui motivi del rigetto.
L’art. 314 cod. pen., com’è noto, prevede al primo comma che “chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”.
In tema di equa riparazione per ingiusta detenzione, dunque, costituisce causa impeditiva all’affermazione del diritto alla riparazione l’avere l’interessat dato causa, per dolo o per colpa grave, all’instaurazione o al mantenimento della custodia cautelare (art. 314, comma 1, ultima parte, cod. proc. pen.); l’assenza di tale causa, costituendo condizione necessaria al sorgere del diritto all’equa riparazione, deve essere accertata d’ufficio dal giudice, indipendentemente dalla
deduzione della parte (cfr. sul punto questa Sez. 4, n. 34181 del 5/11/2002, COGNOME, Rv. 226004).
In proposito, le Sezioni Unite di questa Corte hanno da tempo precisato che, in tema di presupposti per la riparazione dell’ingiusta detenzione, deve intendersi dolosa – e conseguentemente idonea ad escludere la sussistenza del diritto all’indennizzo, ai sensi dell’art. 314, primo comma, cod. proc. pen. – non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso confliggente o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il parametro dell’ “id quod plerumque accidit” secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo (Sez. U. n. 43 del 13/12/1995 dep. 1996, COGNOME ed altri, Rv. 203637)
Poiché inoltre, la nozione di colpa è data dall’art. 43 cod. pen., deve ritenersi ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione, ai sensi del predetto primo comma dell’art. 314 cod. proc. pen., quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso.
In altra successiva condivisibile pronuncia è stato affermato che il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione non spetta se l’interessato ha tenuto consapevolmente e volontariamente una condotta tale da creare una situazione di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria o se ha tenuto una condotta che abbia posto in essere, per evidente negligenza, imprudenza o trascuratezza o inosservanza di leggi o regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una prevedibile ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sosta nzi nell’a dozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso (Sez. 4, n. 43302 del 23/10/2008, COGNOME, Rv. 242034).
Ancora le Sezioni Unite, hanno affermato che il giudice, nell’accertare la sussistenza o meno della condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, consistente nell’incidenza causale del dolo o della colpa grave dell’interessato rispetto all’applicazione del provvedimento di custodia cautelare, deve valutare la condotta tenuta dal predetto sia anteriormente che successivamente alla sottoposizione alla misura e, più in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico (Sez.
Unite, n. 32383 del 27/5/2010, COGNOME, Rv. 247664). E, ancora, più recentemente, il Supremo Collegio ha ritenuto di dover precisare ulteriormente che in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, ai fini del riconoscimento dell’indennizzo può anche prescindersi dalla sussistenza di un “errore giudiziario”, venendo in considerazione soltanto l’antinomia “strutturale” tra custodia e assoluzione, o quella “funzionale” tra la durata della custodia ed eventuale misura della pena, con la conseguenza che, in tanto la privazione della libertà personale potrà considerarsi “ingiusta”, in quanto l’incolpato non vi abbia dato o concorso a darvi causa attraverso una condotta dolosa o gravemente colposa, giacché, altrimenti, l’indennizzo verrebbe a perdere ineluttabilmente la propria funzione riparatoria, dissolvendo la “ratio” solidaristica che è alla base dell’istituto (così Sez. Unite, n. 51779 del 28/11/2013, Nicosia, Rv. 257606, fattispecie in cui è stata ritenuta colpevole la condotta di un soggetto che aveva reso dichiarazioni ambigue in sede di interrogatorio di garanzia, omettendo di fornire spiegazioni sul contenuto delle conversazioni telefoniche intrattenute con persone coinvolte in un traffico di sostanze stupefacenti, alle quali, con espressioni “travisanti”, aveva sollecitato in orario notturno la urgente consegna di beni).
4. Va poi osservato che vi è totale autonomia tra giudizio penale e giudizio per l’equa riparazione uctle atteso che i due afferiscono piani di indagine del tutto diversi che ben possono portare a conclusioni affatto differenti pur se fondanti sul medesimo materiale probatorio acquisito agli atti, in quanto sottoposto ad un vaglio caratterizzato dall’utilizzo di parametri di valutazione del tutto differenti. perché è prevista in sede di riparazione per ingiusta detenzione la rivalutazione dei fatti non nella loro portata indiziaria o probatoria, che può essere ritenuta insufficiente e condurre all’assoluzione, occorrendo valutare se essi siano stati idonei a determinare, unitamente ed a cagione di una condotta negligente od imprudente dell’imputato, l’adozione della misura cautelare, traendo in inganno il giudice.
È pacifico (cfr. tra le tante Sez. 4, ord. 25/11/2010, n. 45418) che, in sede di giudizio di riparazione ex art. 314 cod. proc. pen. ed al fine della valutazione dell’an debeatur occorra prendere in considerazione in modo autonomo e completo tutti gli elementi probatori disponibili ed in ogni modo emergenti dagli atti, al fine di valutare se chi ha patito l’ingiusta detenzione vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti. A tale fine è necessario che venga esaminata la condotta posta in essere dall’istante sia prima che dopo la perdita della libertà personale e, più in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un
procedimento a suo carico (cfr. Sez. U. n. 32383/2010), onde verificare, con valutazione ex ante, in modo del tutto autonomo e indipendente dall’esito del processo di merito, se tale condotta, risultata in sede di merito tale da non integrare un fatto-reato, abbia ciononostante costituito il presupposto che abbia ingenerato, pur in eventuale presenza di un errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di “causa ad effetto” (cfr. anche la precedente Sez. Un. 26/6/2002, COGNOME). E a tal fine vanno prese in considerazione tanto condotte di tipo extraprocessuale (grave leggerezza o trascuratezza tale da avere determinato l’adozione del provvedimento restrittivo), quanto di tipo processuale (autoincolpazione, silenzio consapevole sull’esistenza di un alibi) che non siano state escluse dal giudice della cognizione.efr. Sez. 4, n. 45418/2010).
La colpa dell’istante è ostativa al diritto per le argomentazioni espresse, tra le altre, da Sez. 4, n. 1710/2014 e da Sez. 4, n. 1422/2014: «… non potendo l’ordinamento, nel momento in cui fa applicazione della regola solidaristica, … obliterare il principio di autoresponsabilità che incombe su tutti i consociati, allorquando interagiscono nella società (trattasi, infondo, della regola che trova esplicitazione negli arti. 1227 e 2056 c.c.), deve intendersi idonea ad escludere la sussistenza del diritto all’indennizzo … non solo la condotta volta alla realizzazione di evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso configgente o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il parametr dell’id quod plerumque accidit secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo. Poiché inoltre, anche ai fini che qui ci interessano, la nozione di colpa è data dall’art. 43 c.p., deve ritenersi ostativa al riconoscimento del diritto alla ri razione … quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, pe evidente, macroscopica, negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso …». Corte di Cassazione – copia non ufficiale
5. Nel provvedimento impugnato è stato congruamente e logicamente posto in evidenza come l’attività investigativa svolta abbia consentito di desumere che NOME COGNOME era al vertice del gruppo familiare e che aveva come centro di interesse la gestione del villaggio ALEMIA di Cropani Ma ina. GLYPH che riguardo alla it4 presenza di NOME NOME all’interno di tale villaggio GLYPH appresentanza del
cognato NOME COGNOME nel periodo in cui lo stesso era agli arresti domiciliari assumono rilievo per il giudice della riparazione le dichiarazioni di NOME COGNOME Quest’ultimo, che per un periodo aveva svolto l’incarico di direttore del villaggio, ebbe a riferire di avere lavorato in tale struttura turistica nelle stagioni del 2010 del 2011 e di avere conosciuto COGNOME NOME per questioni di giardinaggio del complesso turistico, per poi avere avuto contatti con il cognato di questi, l’odierno ricorrente NOME COGNOME, nel corso del 2011 dal momento che il Tropea era in quel periodo sottoposto agli arresti domiciliari: in quel periodo lo stesso COGNOME lo informò che avrebbe dovuto avere contatti direttamente con lui per le questioni di giardinaggio e di manutenzione del villaggio.
Tali circostanze – ricorda ancora il provvedimento impugnato – sono state confermate anche da NOME COGNOME in sede di sommarie informazioni.
In aggiunta, per ciò che emerge dalla lettura dell’attività captativa di cui provvedimento impugnato trascrive diversi stralci, il ruolo di rappresentante del cognato non era limitato alla gestione del villaggio turistico, in quanto l’COGNOME partecipava anche all’attività di riscossione estorsiva – o comunque usuraria dei prestiti concessi dal Tropea, come risulta dalla conversazione captata tra NOME COGNOME e NOME COGNOME nella quale quest’ultimo riferisce di essere riuscito a “chiudere dei debiti” dopo aver parlato con “NOME il cognato”.
Per di più, il giudice della riparazione dà atto che risulta da plurime dichiarazioni che ricorrente si era prestato per conto del cognato alla gestione del “Blue Bar”, pure sito in Cropani Marina di cui era proprietaria NOME COGNOME, la quale tuttavia aveva accettato di trasferirne in maniera informale la gestione alla famiglia COGNOME,che la esercitava sia direttament9sia mediante soggetti a loro riconducibili.
Sul ruolo di COGNOME ancora il provvedimento impugnato ricorda come avesse riferito più specificamente COGNOME NOME ossia l’ultima conduttrice del bar in questione. E come del ruolo che l’COGNOME rivestiva nel “Blue bar”, oltre alla COGNOME e alla COGNOME, avesse precedentemente riferito anche il COGNOME.
6. Le doglianze dei ricorrente risultano generiche poiché si limitano a richiamare l’inattendibilità dei dichiaranti, senza precisare su quali circostanze di riliev ai fini del presente giudizio essi abbiano deposto in maniera inattendibile. Per contro, il provvedimento impugnato si fonda su precisi elementi di fatto, accertati nella sentenza di assoluzione, e motiva in modo congruo e logico in ordine alla idoneità della condotta posta in essere dall’istante ad ingenerare nel giudice, che emise il provvedimento restrittivo della libertà personale, il convincimento di un probabile concorso nell’associazione mafiosa.
Secondo il ricorrente, la sentenza assolutoria avrebbe riconosciuto come la vicinanza del ricorrente al cognato COGNOME NOME discendesse esclusivamente dal vincolo familiare e non dall’appartenenza comune al sodalizio criminale (accusa del reato di cui all’art. 416 bis cod. pen. che ha visto la condanna del cognato).
Ma, come si evince dalla la sentenza di assoluzione e come ricorda il giudice della riparazione j non è così. E non corrisponde al vero quanto sostenuto il ricorso secondo cui i comportamenti addebitati all’odierno ricorrente quali colposi ed ostativi al chiesto beneficio non sarebbero provati ma risulterebbero soltanto da dichiarazioni eteroaccusatorie di terzi.
Come ricorda il provvedimento impugnato, la Corte d’appello nella sentenza assolutoria afferma che: «Non è in discussione la contiguità, anche complice, dell’imputato al cognato COGNOME NOME o la cointeressenza in alcuni affari di costoro» ed ancora che «dunque esistono sicuramente stretti rapporti dell’COGNOME con il cognato COGNOME NOME e con gli altri Tropea, egli ebbe a gestire il Villaggio COGNOME nei periodi in cui Tropea NOME era impossibilitato a gestire in prima persona i propri affari e partecipò alla gestione del “RAGIONE_SOCIALE“RAGIONE_SOCIALE..» (il richiamo è a pagina 546 della sentenza di assoluzione emessa il 16/11/2020 dalla Corte d’appello di Catanzaro).
Sul punto correttamente il provvedimento impugnato richiama il dictum di Sez. 4 n. 45418 25/11/2010, COGNOME, Rv. 249233 che ha precisato che in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione integra gli estremi della colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto la condotta di chi, nei reati contestati in concorso abbia tenuto, pur consapevole dell’attività criminale altrui, comportamenti percepibili come indicativi di una sua contiguità (cfr. anche Sez. 4, n. 7956 del 20/10/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 280547).
Si ricorda altresì che nella sentenza assolutoria non solo l’COGNOME è stato definito contiguo al covato Tropea NOME– capofamiglia dell’omonima consorteria mafiosa e condannato nel procedimento penale dei quo – ma è stato anche ribadito che «non vi è dubbio che l’COGNOME fosse a conoscenza della caratura criminale del cognato e degli altri Tropea, non v’è dubbio del pari che fosse a conoscenza e forse anche correo degli affari, usurai e non, del Tropea NOME…» (ancora una volta il richiamo è a pagina 546 della sentenza di assoluzione).
Ebbene come rileva il giudice della riparazione con una motivazione priva di aporie logiche e corretta in punto di diritto, tali elementi, benché ritenuti insuf cienti a fondare la responsabilità penale dell’Esposito inon risultano smentiti dalla sentenza di assoluzione e pertanto si rivelano idonei a disvelare la condotta gravemente colposa del ricorrente idonea ad ingenerare nell’Autorità Giudiziaria un’apparenza di colpevolezza.
Né risultano fondate le doglianze di contraddittorietà rispetto a precedente ordinanza riparatoria emessa a seguito di assoluzione del ricorrente in diverso procedimento. I due procedimenti penali riguardano reati diversi, anche se relativi al medesimo contesto criminale (il reato associativo quello in esame, i reati-fine quell’altro) e si fondano solo in parte sullo stesso materiale probatorio (le dichiarazioni delle persone offese).
Al rigetto del ricorso consegue, ex lege, la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 25/03/2025