Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 15069 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 15069 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 04/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a POLICORO il 12/11/1977
avverso l’ordinanza del 27/09/2024 della CORTE APPELLO di MILANO
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott. NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
La Corte d’Appello di Milano, giudicando in sede di rinvio a seguito di annullamento da parte della Quarta Sezione di questa Corte, ha rigettato la domanda di riparazione per ingiusta detenzione avanzata da COGNOME NOME per la detenzione, in regime di custodia cautelare in carcere, dal 27/1/2012 al 19/10/2012 e, agli arresti domiciliari, dal 19/10/2012 al 6/2/2013.
I reati fondanti la restrizione della libertà personale erano i seguenti:
Artt. 110, 81, comma 2, 319 cod. pen. per avel l ricevuto la promessa ed essersi fatto consegnare somme di denaro (che COGNOME riceveva e divideva con gli altri) da NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME (componenti della associazione mafiosa Valle – Lampada) al fine di compiere atti
contrari ai doveri del proprio ufficio, consistiti: nell’avvertire preventivamente de controlli che sarebbero stati eseguiti negli esercizi commerciali nei quali erano installate slot machines di proprietà delle società facenti capo ai Valle e ai Lampada; nel trascurare queste società nella scelta di quelle da sottoporre a controllo così consentendo loro di mantenere le proprie slot machines scollegate dalla rete telematica della Amministrazione Monopoli e di appropriarsi della quota delle giocate destinate all’Erario; nel comunicare ai componenti della associazione che la Sezione criminalità organizzata della Questura di Milano aveva in corso indagini nei confronti della famiglia COGNOMERAGIONE_SOCIALE e delle società a loro riconducibili (in Milano dal 2008 alla fine del 2009).
Artt. 110, 81, comma 2, cod. pen. e art. 3 legge 9 dicembre 1941, n. 1383 per aver colluso tra loro al fine di eludere l’accertamento di violazioni finanziari commesse dalle società sopra indicate (in Milano dal 2008 alla fine del 2009).
La sentenza rescindente ( Sez. 4, n. 39726 del 27/9/2023) ha sintetizzato nei termini seguenti il quadro indiziario che fondava la custodia in carcere
“L’ordinanza cautelare fu emessa dal G.i.p. del Tribunale di Roma sulla base del contenuto di intercettazioni telefonichè e delle dichiarazioni auto ed etero accusatorie rese da NOME COGNOME. Tali dichiarazioni furono valutate attendibili dal G.i.p., perché intrinsecamente coerenti e corroborate da adeguati riscontri estrinseci. Con specifico riferimento alla posizione di NOME COGNOME, tali riscontr furono ritenuti individualizzanti – anche se NOME risultava aver sempre consegnato il denaro al solo COGNOME – perché, più volte, questi aveva detto che doveva dividere la somma percepita con i colleghi incaricati dei controlli; perché l’entità delle somme era tale da far ritenere che fosse destinata a più persone (non meno di 720.000 euro nell’arco di un anno e mezzo); perché tutti i controlli sulle slot machines venivano effettuati da COGNOME, COGNOME e COGNOME (che erano liberi di scegliere gli esercizi commerciali ove li avrebbero svolti) sicché era coerente col fine corruttivo che le somme versate fossero consegnate anche a loro e «il pagamento del solo COGNOME, che operava in altro settore, non avrebbe avuto alcun significato»; perché COGNOME era informato delle indagini avviate dalla Polizia di Stato sulla famiglia COGNOME, e COGNOME (che riferì di tali indagini a COGNOME) poteva aver avuto questa informazione soltanto da COGNOME…”.
Dopo l’applicazione della misura cautelare, si legge nella sentenza rescindente, era intervenuta la confessione di NOME COGNOME che aveva ammesso i fatti lui addebitati, accusando COGNOME di essere parte dell’accordo corruttivo, insieme agli altri finanzieri COGNOME NOME e COGNOME NOME.
Il 6/2/20213 COGNOME fu assolto dal Tribunale di Milano per non aver commesso il fatto. La sentenza di assoluzione, dopo essere stata impugnata dal Procuratore della Repubblica, fu riformata per due volte dalla Corte d’appello, a seguito degli
annullamenti di questa Corte, e divenne definitiva il 4/5/2021, data in cui la Sesta Sezione, accogliendo il ricorso dell’imputato, annullò la sentenza di condanna adottata il 21/5/2021 ritenendo che Lampada aveva avuto contatti solo con COGNOME e che la chiamata in correità di COGNOME, ritenuta decisiva, era rimasta priva dei necessari riscontri.
3. La sentenza rescindente ha analizzato i comportamenti del richiedente che la Corte distrettuale aveva ritenuto gravemente colposi nel senso indicato dall’art. 314 cod. proc. pen. e ha escluso che avessero avuto incidenza sulla detenzione subita da COGNOME per le seguenti ragioni:
COGNOME e COGNOME erano colleghi di lavoro, amici e vicini di casa, per cui i loro contatti avrebbero potuto assumere rilevanza solo se accompagnati dalla prova che il richiedente era a conoscenza “delle attività corruttive” confessate da COGNOME, “punto sul quale l’ordinanza impugnata non ha motivato”;
l’incontro nella caserma di INDIRIZZO del 19/6/2009 fra l’istante e i fratel COGNOME poteva trovare logica spiegazione anche nei compiti di polizia amministrativa svolti da COGNOME, COGNOME e COGNOME per cui, per assumere carattere ostativo, era necessario che COGNOME fosse stato consapevole dell’accordo corruttivo fra NOME COGNOME e COGNOME, conclusione che l’ordinanza lasciava intendere senza però indicare gli elementi dai quali era stata desunta;
non era stato chiarito perché l’incontro, avvenuto il 14/10/2009, fra COGNOME, COGNOME e COGNOME e COGNOME, avvenuto poco dopo che quest’ultimo aveva incontrato NOME COGNOME, assumesse rilevanza ai fini dell’equa riparazione, avendo i giudici della cognizione ritenuto che non era rimasto provato che, in quell’occasione, COGNOME avesse informato COGNOME dell’imminente arrivo delle somme versate da COGNOME;
l’ordinanza non spiegava sulla base di quali elementi fosse stato ritenuto che l’informazione relativa all’esistenza di un’indagine in corso a carico della società RAGIONE_SOCIALE e di NOME COGNOME, rivelata a quest’ultimo da COGNOME, provenisse da COGNOME.
3.a In conclusione, il Collegio ha osservato che i giudici dell’equa riparazione sembravano “ritenere che, pur essendo risultato estraneo all’accordo corruttivo, Di Dio potesse esserne stato consapevole oppure non esserlo stato, ma per grave negligenza imprudenza o imperizia” ma non chiarivano le ragioni di un tale convincimento. Ha aggiunto che la qualifica di pubblico ufficiale del richiedente, per il dovere di intervenire per impedire l’azione delittuosa altrui che comportava, escludeva che la colpa grave ostativa al riconoscimento dell’indennità potesse coincidere nell’atteggiamento di “connivenza passiva” come individuato dalla giurisprudenza di legittimità, integrando la violazione dell’obbligo di intervento concorso nel reato non impedito. L’assoluzione di COGNOME, quindi, comportava che
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la colpa grave dovesse essere ravvisata “o in una omessa denuncia ex art. 361 cod. pen. (ma non è noto – perché sul punto l’ordinanza è silente – se tale omissione sia stata accertata o esclusa nel giudizio di cognizione), oppure in una grave negligenza imprudenza o imperizia nella valutazione delle altrui condotte, tale da impedire a Di Dio di acquisire consapevolezza dell’accordo corruttivo, ma idonea a far sorgere nell’autorità giudiziaria l’erroneo convincimento della sua partecipazione a quell’accordo”.
Venendo, quindi, all’ordinanza impugnata, la Corte territoriale ha fatto discendere la prova della colpa grave dalle seguenti condotte di COGNOME:
l’incontro del 19/6/2009 con NOME e NOME COGNOME che, per la mancanza di una formale convocazione in caserma degli imprenditori, per la caratura criminale di NOME COGNOME, per l’omessa redazione di “un atto ufficiale” volto a provare il contenuto del colloquio, per la mancanza di “garanzie per COGNOME” che non era assistito da alcun professionista” e per il “carattere informale” che non consentiva ai pubblici ufficiali di fornire informazioni, aveva costituito u violazione degli artt. 7 e 9 del codice deontologico della Guardia di Finanza;
l’omessa segnalazione ai superiori, ai sensi dell’art. 7 del medesimo codice, del “conflitto di interessi” disvelato dall’atteggiamento “molto colloquiale” tenuto da COGNOME nei confronti di NOME nel corso dell’incontro, avendo COGNOME dichiarato che “i due si davano del tu apertamente con un tono confidenziale”;
la violazione dell’art. 19 comma 5 del Regolamento di disciplina militare per l’Esercito e la legge penale militare, reso applicabile dall’art. 10 dell’Ordinamento del Corpo della Guardia di Finanza, che aveva permesso a COGNOME di apprendere che era imminente il controllo dei videogiochi installati nell’esercizio pubblico gestito da COGNOME e di trasmettere l’informazione a NOME COGNOME che l’aveva immediatamente riferita a COGNOME. La Corte distrettuale ha ritenuto, infatti, che COGNOME aveva saputo del controllo in quanto COGNOME gliene aveva parlato oppure perché non aveva adottato, come la posizione di “capo squadra” avrebbe imposto, le misure necessarie a impedire che soggetti esterni alla pattuglia potessero avere conoscenza delle operazioni programmate;
il “doppio o triplo lavoro” fatto dal richiedente, “censurabile sotto il pro disciplinare, trattandosi di attività in parallelo con quella di istituto”, svolgend nero attività di commercialista, e il “florido commercio con la Cina” che gli aveva permesso di accumulare oltre €200.000 di profitti che erano custoditi su carte prepagate, così restando integrate le violazioni degli artt. 7 del codice deontologico, che impone di segnalare eventuali situazioni di conflitto di interessi, e 12, che fa divieto ai militari di svolgere attività che possano contrastare con compiti di servizio, e degli obblighi dichiarativi fiscali, essendo stato il significa
importo derivato dai commerci con la Cina gestito in maniera del tutto “clandestina”, così da “sfuggire sia al fisco che al sistema bancario”.
Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso per Cassazione l’istante che ha denunciato il vizio di motivazione contestando la rilevanza data dalla Corte territoriale alle predette condotte. Si deduce che:
dalla sentenza di assoluzione risultava che COGNOME aveva dichiarato di aver avvisato il capitano COGNOME suo diretto superiore, dell’incontro con COGNOME, circostanza confermata da COGNOME e COGNOME nel corso degli interrogatori di garanzia, e di aver predisposto in relazione al colloquio le due annotazioni, rinvenute nel computer d’ufficio posto sotto sequestro, allegate al ricorso;
la mancanza di una formale convocazione dei fratelli Lampada trovava logica spiegazione nel fatto che erano stati questi ultimi a chiedere l’incontro;
la sentenza rescindente aveva chiarito che l’incontro in sé non poteva rilevare come colpa grave e, comunque, l’ordinanza non chiariva come tale incontro avesse inciso sull’adozione della misura cautelare;
l’ipotesi che COGNOME fosse stato informato dell’imminente accesso dei militari è smentita dai sequestri delle “macchinette” eseguite nel corso dei controlli;
i controlli eseguiti nell’esercizio pubblico di COGNOME coinvolsero due pattuglie per cui non vi era prova che la violazione degli obblighi di segretezza fosse da addebitare a COGNOME;
il lavoro extra svolto dall’istante, peraltro in epoca pregressa o successiva ai fatti del 2009, e i profitti custoditi sulla carte prepagate erano emersi solo ne settembre/ottobre 2012, in quanto rivelati da COGNOME, per cui non potevano aver avuto alcun effetto sull’adozione della misura custodiale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato.
L’ambito del giudizio demandato al giudice di rinvio risulta chiaramente definito dalla sentenza rescindente ai punti 2.1 e 5. del considerato di diritto.
La Quarta Sezione, infatti, richiamando principi espressione di consolidati orientamenti di legittimità, ha precisato che:
“…nell’escludere il diritto alla riparazione per la ritenuta sussistenza di comportamento doloso o gravemente colposo che abbia “dato causa” (o concorso a dar causa) alla privazione della libertà personale, il giudice della riparazione deve attenersi a dati di fatto «accertati o non negati» nel giudizio di merito (Sez. U n. 43 del 13/12/1995 – dep. 1996, COGNOME, Rv. 203636);
l’autonomia tra i due giudizi non implica che il dolo o la colpa grave possano essere desunti da condotte che la sentenza di assoluzione abbia ritenuto non sussistenti o non sufficientemente provate (…);
la qualifica dell’istante, e la conseguente impossibilità di ricondurre la colpa grave, ostativa al riconoscimento dell’indennità, a un atteggiamento di connivenza passiva, imponeva di ravvisare la condizione negativa “o in una omessa denuncia ex art. 361 cod. pen. (…) oppure in una grave negligenza imprudenza o imperizia nella valutazione delle altrui condotte, tale da impedire a Di Dio di acquisire consapevolezza dell’accordo corruttivo, ma idonea a far sorgere nell’autorità giudiziaria l’erroneo convincimento della sua partecipazione a quell’accordo”.
L’ordinanza impugnata non fa buon governo dei principi di diritto sopra riportati non rispettando i principi e i limiti fissati dalla sentenza rescindente.
Se si esclude il lavoro in nero e i ricavi tratti dai rapporti di affari con la Cina circostanze di fatto integranti il comportamento ostativo sinergico coincidono, sostanzialmente, con quelli già esaminati dalla sentenza rescindente.
Al punto 3. del considerato in diritto, la sentenza rescindente ha rilevato che l’ordinanza annullata non spiegava perché COGNOME non avrebbe dovuto acconsentire a incontrare i fratelli Lampada in ufficio e perché l’incontro era stato ritenut gravemente colposo.
Le risposte date a tali osservazioni dalla Corte territoriale valorizzano circostanze il cui accertamento non trova riscontro nella sentenza di assoluzione o in elementi di prova richiamati nell’ordinanza custodiale o che non poterono avere alcuna incidenza sulla misura custodiale o la cui rilevanza, ai fini della sussistenza della condotta sinergica ostativa al riconoscimento dell’indennizzo, è stata già esclusa dalla sentenza rescindente.
3.1 In ordine all’omessa convocazione, ha gioco facile la difesa a rilevare che l’incontro era stato richiesto dai Lampada e, quindi, non necessitava di un atto formale di convocazione.
3.2 L’ordinanza dà poi per accertato che COGNOME non informò i superiori né dell’incontro né della confidenza di COGNOME con NOME COGNOME
La condotta omissiva, però, non trova riscontro nella sentenza di assoluzione, che dà atto che COGNOME aveva dichiarato di aver informato del colloquio il capitano COGNOME suo diretto superiore, riferendogli anche la condotta di COGNOME. E’ vero che aggiunge che COGNOME non aveva ricordato la circostanza ma subito dopo sottolinea che il capitano aveva “reso dichiarazioni poco precise e financo imbarazzanti”.
La difesa, inoltre, ha prodotto due annotazioni, che si assume “presenti nel personal computer sequestrato”, che davano atto dell’incontro avvenuto all’interno
della caserma con i fratelli COGNOME e i verbali di interrogatorio di COGNOME e COGNOME che, sul punto, fornivano una versione collimante con quella di COGNOME.
La rilevanza data all’informalità del colloquio, pertanto, non essendo rimasta accertata nel giudizio di cognizione, imponeva alla Corte territoriale di indicare le fonti di prova che avevano fatto ritenere che l’incontro svoltosi all’interno dell caserma della Guardia di Finanza era stato effettuato “nell’ombra”.
Ma, soprattutto, l’ordinanza non spiega come l’incontro si collochi nell’alveo segnato dalla sentenza rescindente che aveva statuito che la condotta ostativa doveva essere ravvisata “in un’omessa denuncia ex art. 361 cod. pen. oppure una grave negligenza, imprudenza o imperizia nelle valutazioni delle altrui condotte”.
3.3 In ordine alla rilevanza assegnata nell’ordinanza impugnata all’atteggiamento “molto colloquiale” di COGNOME con i fratelli COGNOME, e sull’integrazione dell’ art. 7 del codice deontologico, non può che condividersi quanto al riguardo rilevato dal PG che, nella conclusioni scritte, ha sottolineato che dalla conoscenza pregressa non fosse possibile desumere l’esistenza di un accordo corruttivo e che COGNOME non era addetto ai controlli delle slot machine per cui, in astratto, non era configurabile una situazione di potenziale conflitto di interessi che meritava di essere segnalata al superiore gerarchico.
3.4 In relazione ai controlli effettuati presso l’esercizio pubblico di COGNOME, responsabilità di COGNOME per la fuga di notizie non emerge dalla sentenza di assoluzione, ove viene ipotizzato che COGNOME potesse aver ricevuto l’informazione trasmessa a Lampada da COGNOME oppure da qualcuno dei finanzieri impegnati con COGNOME nell’operazione, “attesa la vicinanza fisica con i colleghi e il coinvolgimento di altre pattuglie della G.d.F. oltre COGNOME, COGNOME e COGNOME“.
Oltre a non rivelare le prove utilizzate nel ragionamento inferenziale, l’ordinanza non spiega neanche come la violazione dei doveri di diligenza configurati possa aver inciso sulle valutazioni, da parte di COGNOME, della condotta di COGNOME, siccome la sentenza rescindente aveva imposto al giudice del rinvio.
3.5 In relazione al lavoro in nero e al capitale gestito “in modo clandestino”, è indubbio che il giudice della riparazione, per valutare la colpa grave ostativa al riconoscimento dell’indennizzo, possa valorizzare anche comportamenti deontologicamente scorretti del richiedente ma è evidente che tali condotte debbono risultare idonee a ingenerare, ancorché in presenza di un errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza dell’integrazione dell’illecito penale così da rendere prevedibile un intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso.
E, difatti, nel procedimento di equa riparazione proposto da COGNOME, questa Corte ha negato il diritto all’indennizzo condividendo il rilievo dato dalla Corte territoriale alla “macroscopica violazione dei doveri deontologici connessi
alla funzione svolta” derivante dall’aver il richiedente accettato che alla moglie fossero intestate gratuitamente le quote di una società – la RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE che aveva fra i soci anche il cugino di COGNOME– operante nel settore del gioco e delle scommesse attraverso lo schermo di una società fiduciaria (la RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE MediolanumRAGIONE_SOCIALE. E’ stato, infatti, ritenuto che tale condotta avevano concorso a determinare l’applicazione e il mantenimento della misura custodiale”
(Sez. 4, n. 32979 del 2/7/2024, Russo).
In relazione a COGNOME, però, l’ordinanza non rivela quale provvedimento abbia fatto discendere dal lavoro in nero e dai proventi tratti dal commercio con la Cina
effetti incidenti sulla libertà personale dell’istante, rilevandosi dall’ordinan genetica prodotta dalla difesa che tali elementi non furono tenuti in considerazione
ai fini dell’applicazione della custodia in carcere.
4. Per quanto sopra esposto l’ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte d’appello di Milano.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Milano.
Così deciso il 4.3.2025.