Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 8272 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 8272 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 28/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOMECOGNOME nato a Matera il 12/6/1956
avverso l’ordinanza del 5/6/2024 della Corte di appello di Potenza; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; sentita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 5/6/2024, la Corte di appello di Potenza, pronunciandosi in sede di rinvio, rigettava la richiesta presentata da NOME COGNOME per ottenere la riparazione della detenzione subita dal 30/6/2014 al 23/12/2014 con riguardo ai delitti di cui agli artt. 353, 629 cod. pen.
Propone ricorso per cassazione l’istante, deducendo i seguenti motivi:
violazione degli artt. 43 cod. pen., 314 cod. proc. pen.; mancanza e contraddittorietà della motivazione. La Corte di appello avrebbe rigettato la domanda pur in assenza di elementi a conferma di una condotta gravemente
colposa, nell’ottica della misura cautelare a suo tempo disposta: il ricorrente, infatti, negli incontri con COGNOME e NOME (poi costituitisi parte civile ne processo) avrebbe tenuto un comportamento del tutto silente e privo di contenuto minatorio, come peraltro confermato in dibattimento da entrambi i soggetti, con affermazioni ben più attendibili delle “riassuntive e sincopate” verbalizzazioni di polizia giudiziaria. L’incontro con COGNOME, peraltro, si sarebbe svolto circa dieci giorni dopo che questi si era ritirato dalla gara, per cui nessun senso avrebbe avuto un’eventuale minaccia da parte del ricorrente. A conferma della infondatezza delle accuse, peraltro, il ricorso sottolinea che il COGNOME non era mai stato coinvolto nelle intercettazioni, né in dichiarazioni testimoniali, né, ancora, in servizi d osservazione e controllo; di ciò, peraltro, avrebbe preso atto la sentenza di assoluzione, escludendo qualunque prova circa la condotta contestata. Infine, l’ordinanza non avrebbe tenuto conto di quanto dichiarato dal ricorrente in sede di interrogatorio di garanzia, laddove avrebbe affermato la propria estraneità ai fatti, fornendo ogni chiarimento sugli elementi di accusa;
violazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ. Si contesta la motivazione quanto alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, disposta in luogo della compensazione. Quelle sostenute dall’Avvocatura dello Stato, inoltre, sarebbero state liquidate anche per la fase decisionale, sebbene lo stesso Ufficio non avesse partecipato all’udienza, né avesse depositato atti diversi dalla costituzione in giudizio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso risulta fondato.
In primo luogo, occorre evidenziare che questa Corte, con la sentenza rescindente n. 43989 del 2023, aveva censurato la precedente decisione del Giudice di appello, che non aveva “indicato le ragioni dell’assoluzione, né richiamato il giudizio del Tribunale sul comportamento processuale delle fonti d’accusa, non essendo stato chiarito in che termini il riferito in dibattimento dei dichiaranti si discostasse da quanto dagli stessi affermato nella fase delle indagini preliminari e neppure in che termini il giudice dell’assoluzione aveva valutato tale apporto dichiarativo.” Ancora, “anche a voler ritenere un implicito giudizio negativo sul riferito testimoniale (ciò che, si ribadisce, resterebbe assegnato a una mera congettura), i giudici della riparazione non hanno svolto alcun ragionamento sul ritenuto (ancora una volta implicitamente) condizionamento che tale condotta avrebbe esercitato sulla restrizione della libertà patita dal soggetto istante”.
Tanto premesso, la Corte di appello ha innanzitutto evidenziato che talune circostanze di fatto erano emerse prima dell’adozione della misura cautelare, ed
avevano poi trovato conferma dibattimentale: a) l’attività di intermediazione svolta dal Ditaranto in favore di NOME COGNOME, interessato a mantenere la gestione della struttura “INDIRIZZO” pur in presenza di altri aspiranti al relativa gara, NOME e COGNOME, quantomeno al fine di evitare un “rialzo” del canone stabilito per la gestione; b) l’incontro che il ricorrente aveva avuto con questi soggetti. In particolare, il COGNOME aveva riferito che il COGNOME si era presentato con il COGNOME, il quale – con atteggiamento da “bullo di paese” – lo aveva invitato a desistere dalla gara, dicendogli che gli altri “sono amici miei”. Quanto a Donno, questi aveva riferito innanzitutto di aver incontrato il NOME, dicendogli di non permettersi più di farlo minacciare da “persone di Montescaglioso” (paese di provenienza del ricorrente); quindi, circa 10 giorni dopo il ritiro dalla gara, di aver cercato – e trovato – il COGNOME per provare a “tir fuori da questa situazione”, recandosi proprio al paese di questo e sentendosi dire dallo stesso COGNOME che non doveva preoccuparsi, e che anche lui aveva problemi con NOME.
Di seguito, la Corte di appello ha richiamato le dichiarazioni testimoniali delle stesse persone offese, ormai costituitesi parte civile, e le considerazioni contenute al riguardo nella sentenza di assoluzione, pronunciata ai sensi dell’art. 530, comma 2, cod. proc. pen.
6.1. Quanto alle prime, è stato evidenziato che il NOME, sia pur a seguito di contestazione, aveva ribadito di aver incontrato NOME, che gli aveva espressamente chiesto di non partecipare alla gara; nell’occasione era presente anche il ricorrente che, con “atteggiamenti da bullo di paese” (per quanto avesse “parlato pochissimo”), lo aveva invitato “a desistere”. In ordine, poi, al Donno, questi aveva confermato l’incontro con NOME, nel corso del quale aveva riferito di essere stato minacciato; aveva confermato, poi, l’incontro con il ricorrente, dal quale si era recato personalmente per avere chiarimenti sulla vicenda, lì sentendosi dire dal COGNOME (come già affermato in sede di indagine) che lui “non c’entrava niente, mi sono pure litigato con NOME“.
6.2. Quanto, poi, alla sentenza di assoluzione, l’ordinanza ha richiamato il Tribunale di Matera, che aveva sostenuto, quanto a COGNOME, che questi non aveva mai riferito di aver percepito una minaccia da parte di COGNOME e NOME (al fine di non partecipare alla gara); che era stato un legale a chiedergli espressamente di soprassedere alla partecipazione; che, all’incontro a Montescaglioso, non gli era stata rivolta alcuna minaccia. Quanto a NOME, questi in Tribunale aveva riferito di non aver mai percepito minacce da parte degli imputati, e di non aver partecipato alla gara solo per questioni di convenienza economica; la stessa persona offesa, peraltro, non ricordava di aver riferito atteggiamenti “da bullo” da parte del ricorrente, ed aveva “radicalmente escluso”
di essere stato minacciato dagli imputati. In forza di ciò, il Tribunale aveva ritenuto non provata la colpevolezza di COGNOME e NOME, oltre ogni ragionevole dubbio, in quanto il loro comportamento “non ha mai di fatto portato ad una coartazione del volere delle presunte persone offese e, dunque…non vi è stata una minaccia tale da poter turbare la gara.”
Esaminando analiticamente il contenuto delle dichiarazioni rese in sede di indagine, e quelle dibattimentali, la Corte di appello – con valutazione di merito non censurabile in questa sede, perché priva di illogicità manifesta – ha dunque concluso che le parti civili non avevano ritrattato completamente le proprie dichiarazioni accusatorie, ma si erano limitate a rendere precisazioni di quanto in precedenza riferito. In tal modo, la Corte di appello ha adeguatamente riscontrato i rilievi mossi dalla sentenza rescindente, dando conto degli esiti del giudizio di merito e del comportamento processuale delle fonti di accusa, anche in relazione a quanto dalle stesse riferito in sede di indagine e posto a fondamento della misura cautelare.
La motivazione dell’ordinanza impugnata, tuttavia, risulta carente con riguardo a due rilevanti profili, che ne impongono l’annullamento.
In primo luogo, il provvedimento risulta viziato per la mancanza di un’adeguata indicazione circa (quantomeno) la colpa grave che, ai sensi dell’art. 314 cod. proc. pen., avrebbe connotato il comportamento del ricorrente nell’ottica della misura, così concorrendo alla sua emissione. La motivazione, infatti, risulta priva di specificità, e sul punto si limita ad affermare – in termini generici – ch tutte le considerazioni che precedono (ossia l’esame e la valutazione delle dichiarazioni predibattimentali di COGNOME e NOME) “permettono di attribuire (…) al richiedente un comportamento caratterizzato se non da dolo, certamente da un elevato grado di colpa, tanto grave da contribuire causalmente a corroborare, da un lato, il valore indiziante degli elementi acquisiti nel corso delle indagini, dall’altro, a far apparire sussistenti le esigenze che legittimarono la stessa spedizione del titolo cautelare, così concorrendo, quale causa sinergica, all’evento detenzione”. Si tratta di una motivazione generica, che merita di essere integrata.
Sotto diverso profilo, poi, la Corte di appello non si è pronunciata su una specifica questione posta dal ricorrente (nel primo e nel secondo ricorso per cassazione), concernente le dichiarazioni che lo stesso aveva reso nel corso dell’interrogatorio di garanzia, nel quale avrebbe non solo sostenuto la propria estraneità alle accuse, ma anche offerto “tutti i chiarimenti e le delucidazioni” sugli elementi a sostegno dell’ordinanza applicativa della misura.
10.1. Ebbene, questa Corte, nel massimo Consesso, ha affermato che il giudice, nell’accertare la sussistenza o meno della condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, consistente
nell’incidenza causale del dolo o della colpa grave dell’interessato rispetto all’applicazione del provvedimento di custodia cautelare, deve valutare la condotta tenuta dal predetto sia anteriormente che successivamente alla sottoposizione alla misura e, più in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico (Sez. U, n. 32383 del 27/5/2010, COGNOME, Rv. 247664; in termini, già Sez. U, n. 43 del 13/12/1995, COGNOME, Rv. 203636, che, nell’affermare che il giudice deve valutare la condotta da questi tenuta sia prima che dopo la restrizione della libertà, e, più in generale, dopo la legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico, ha precisato che la valutazione dei comportamenti successivi a tale conoscenza deve essere effettuata con particolare cautela, dovendosi sempre, e con adeguato rigore, avere rispetto per le strategie difensive che abbia ritenuto di adottare chi è stato ingiustamente privato della libertà personale).
10.2. In tale contesto, e dunque nell’ottica sia dell’emissione che del mantenimento della misura, devono esser allora esaminate anche le dichiarazioni rese dalla persona sottoposta a custodia cautelare, al fine di accertare se il tenore delle stesse contribuisca o meno ad individuare, in capo all’interessato, quel comportamento doloso o gravemente colposo che – solo – osta al riconoscimento dell’equa riparazione; l’ordinanza impugnata, tuttavia, non contiene tale esame, sebbene necessario.
11. Il provvedimento, pertanto, deve essere annullato con rinvio, per nuovo giudizio.
P.Q.M.
Annulla la ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Potenza.
Così deciso in Roma, il 28 gennaio 2025
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COGNOME Il Presidente