Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 44334 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 44334 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 12/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE
nei confronti di
NOME
avverso l’ordinanza del 19/03/2024 della Corte d’appello di Roma
RILEVATO IN FATTO
1. La Corte di appello di Roma, con ordinanza del 19 marzo 2024, in accoglimento della domanda di equa riparazione per l’ingiusta detenzione proposta da NOME COGNOME, liquidava, in favore di quest’ultimo, la somma di euro 79.471,34 per 337 giorni di privazione della libertà a seguito dell’ordinanza, in data 22 maggio 2020 del G.i.p. del Tribunale di Roma, che aveva disposto la misura cautelare della custodia in carcere per il reato di cui agli artt. 110, 56, 575, 577 n. 3, 416 bis 1 cod.pen, perché in concorso con altre persone poneva in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare la morte di NOME COGNOME non riuscendo nell’intento per cause indipendenti della loro volontà. In particolare, al COGNOME era stato contestato di aver svolto il ruolo di vedetta, mediante l’utilizzo dell’autovettura di proprietà dello stesso, che effettuava alcuni transiti nella zona in cui era avvenuto il fatto ed aveva posto in essere opportune segnalazioni con la mano ai complici.
La Corte escludeva che NOME COGNOME avesse dato o contribuito a dare causa alla misura e riteneva che i concreti indizi di colpevolezza utilizzati ·a sostegno dell’applicazione della misura cautelare in carcere (presenza del COGNOME nelle vicinanze del luogo del fatto di reato; identificazione del medesimo istante nelle immagini captate; l’avere in uso l’autovettura Opel Meriva tg. TARGA_VEICOLO; il contenuto dell’intercettazione ambientale effettuata all’interno della Mini BMW in uso all’Ascani, in cui questi in data 1 maggio 2020 aveva esclamato le parole “NOME c’ha paura”) seppure potessero aver rappresentato gravi indizi di colpevolezza, non integravano una condotta, processuale o extraprocessuale colposa in quanto idonea a sviare le indagini, né si era realizzata una frequentazione di altri pregiudicati. Anzi, sin dall’inizio della vicenda che lo vedeva indagato, il COGNOME si era reso disponibile a collaborare con la giustizia ed ossequioso verso l’Autorità giudiziaria. Aveva anche scritto un biglietto il 20 aprile 2020, consegnato agli operanti dalla moglie, con cui si dichiarava innocente, non si era sottratto all’esame dibattimentale e gli autori del tentato omicidio avevano confermato di non conoscere il COGNOME.
Pertanto, la Corte territoriale ha disposto che dovessero essere liquidati euro 235,82 per ogni, giorno di custodia cautelare, difettando invece la prova dei danni ulteriori rivendicati.
2 – Ricorre per cassazione l’Avvocatura dello Stato con un motivo con il quale si denuncia la violazione ed erronea applicazione dell’art. 314, comma 1 cod.proc.pen. e vizio di motivazione, deducendo che la Corte non aveva motivato
l’affermazione che il COGNOME non aveva dato o contribuito a dare causa per dolo o per colpa grave, alla custodia cautelare e che ” incombe, comunque, sul ricorrente l’onere di dimostrare non solo di avere subito la custodia cautelare e di essere stato prosciolto, ma anche di non avere dato causa alla detenzione per dolo o per colpa grave.
3 – Nella requisitoria scritta, il procuratore generale presso questa Corte ha chiesto il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il motivo è manifestamente infondato.
La Corte territoriale ha giustificato l’accoglimento della domanda sulla base del rilievo che non vi è prova che l’ingiusta detenzione dell’istante e l’assoluzione dalle imputazioni che lo avevano privato della libertà, siano state frutto anche della condotta dolosa o gravemente colposa dello stesso.
Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione (Sez. U. del 9 luglio 2003 Azgejui; Sez. 4, n. 42298 del 2/04/2004), la riparazione per l’ingiusta detenzione è caratterizzata da un rapporto di tipo obbligatorio definibile come obbligazione di diritto pubblico, che non ha carattere risarcitorio e che nasce da doverosa solidarietà verso la vittima di un’ indebita custodia cautelare ed ha ad oggetto una prestazione consistente nel pagamento di una somma dì denaro rivolta a compensare l’interessato – che non vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa par dolo o per colpa grave delle conseguenze personali, di natura morale, patrimoniale, fisica e psichica, che la carcerazione abbia prodotto.
Sulla base di questi principi, si è pure affermato che il giudice della riparazione deve accertare, anche d’ufficio, se ricorrano le due condizioni richieste dalla legge per l’accoglimento della domanda, la condizione positiva di essere stato il richiedente ingiustamente privato della libertà e di essere stato prosciolto dalle imputazioni che gli erano state ascritte e la condizione negativa di non avere, l’ interessato, dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare, interessato che, ovviamente, ha il diritto di contribuire a dimostrare l’ inesistenza di proprie condotte dolose o colpose che possano avere concorso a determinarla.
La Corte, poi, accerta l’esistenza o l’inesistenza di entrambe le condizioni sulla base della documentazione allegata alla domanda o acquisita d’ufficio nel caso, improbabile, di mancata allegazione, improbabile se non altro perché è interesse del richiedente porre la Corte in grado di decidere sollecitamente sulle conseguenze della privazione della libertà.
Ciò chiarito, è da rilevare che, nel caso di specie, mentre la Corte di appello ha negato che NOME abbia dato o contribuito a dare causa alla custodia cautelare in termini tali da far ritenere pacifico che, visti gli atti, dagli stessi no emerga quel contributo, posto che gli elementi ritenuti gravemente indiziari in sede cautelare, si sono rilevati invece generici e del tutto inidonei anche a dimostrare la consapevolezza del richiedente di essersi trovato all’interno della scena del reato.
A fronte di ciò, il ricorrente, pur citando quei medesimi atti, non ha dimostrato che se ne debba dedurre con certezza la condotta colposa o dolosa del Cirillo sinergicamente determinante la custodia cautelare, non ha dimostrato, cioè, che sia tutt’altro che pacifico e scontato, quanto il giudice di merito ha considerato tale. La prova dall’eventuale contributo causale alla emissione del provvedimento restrittivo della libertà deve emergere dalla fonte dalla quale scaturisce la privazione della libertà, dall’ordinanza di custodia cautelare; deve necessariamente indicare anche le condotte dell’ indagato che, considerate in quel momento come gravi indizi di colpevolezza, in prosieguo possono risolversi, invece, in condotte gravemente colpose, o dolose, irrilevanti ai fini dell’affermazione della penale responsabilità, ma incidenti sulla privazione della libertà e, quindi, in condotte che escludono l’equa riparazione.
Il Ministero ricorrente nulla dice su eventuali condotte oppure su eventuali comportamenti o fatti concreti del Cirillo, emergenti dall’ordinanza di custodia cautelare, che, valutati, all’ inizio, come indizi del reato di associazione, possono avere rivelato, in dibattimento, condotte colpose o dolose che hanno dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare.
Il ricorso è dunque inammissibile.
Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al pagamento della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende, non evidenziandosi ragioni di esonero.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il Ministero ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso, il 12 novembre 2024.