Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 20184 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 20184 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 22/05/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME COGNOME nato a PALMI il 04/09/1954 COGNOME NOME nata in INDIA il 16/07/1985 Gangemi Subashini nata in INDIA il 04/11/1987 Ministero dell’Economia e delle Finanze
avverso l’ordinanza del 05/12/2024 della Corte d’appello di Reggio Calabria visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione del Cons. NOME COGNOME
letta la requisitoria scritta del PG, che ha concluso per l ‘ inammissibilità dei ricorsi; letta la memoria depositata dal Ministero dell ‘ Economia e delle Finanze.
RITENUTO IN FATTO
Con l’ ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Reggio Calabria ha rigettato la domanda di riparazione per ingiusta detenzione formulata da NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME, quali eredi di NOME COGNOME in relazione al periodo di custodia cautelare in carcere applicata nei confronti del loro dante causa dal 26/01/2017 (data di esecuzione del provvedimento di fermo) al
12/04/2017 e di arresti domiciliari da tale data sino al 21/12/2020, a seguito di ordinanza emessa il 28/06/2017 dal GIP presso il Tribunale di Reggio Calabria, in riferimento a un capo di imputazione ipotizzante i reati previsti dall’art.416 -bis, commi 1-5 e 9, cod.pen. e 71, d.lgs. n.159/2011; reati dai quali l’imputato era stato assolto per insussistenza dei fatti dal Tribunale di Palmi con sentenza del 21/12/2020, divenuta irrevocabile il 06/07/2021.
La Corte d’appello , quale giudice adito ai sensi dell’art.315 cod.proc.pen., ha ritenuto che la domanda non potesse essere accolta attesa la sussistenza del presupposto ostativo rappresentato dalla colpa grave del dante causa della parte ricorrente.
La Corte territoriale ha riassunto il compendio indiziario posto alla base della misura cautelare, con specifico riferimento alle circostanze inerenti ai rapporti intercorsi tra il Gangemi e NOME COGNOME (classe 1972), ritenuto un elemento di spicco della criminalità organizzata operante nel territorio di Gioia Tauro e, al tempo dei fatti ascritt i, residente in Milano e comunicante con l’esterno solo tramite incontri riservati, organizzati e mediati da NOME COGNOME che aveva il compito di indicare allo stesso COGNOME le persone da incontrare in ordine, specificamente, all’organizzazione dell’attività della cosca presso il territorio di riferimento; ha esposto che l’attività di intercettazione aveva permesso di accertare che, nell’anno 2015, il COGNOME aveva chiesto di incontrare il COGNOME e si era ripetutamente recato a Milano proprio con la mediazione del COGNOME, evidenziando come il nome dello stesso COGNOME non fosse mai stato fatto -con condotta ritenuta come dettata da ragioni prudenziali -nel corso dei dialoghi captati.
Il giudice della riparazione ha quindi esposto che, secondo l’ipotesi accusatoria, il COGNOME avrebbe assunto nella cosca il ruolo di mediatore e latore di messaggi per conto e nell’interesse del COGNOME, profilo in ordine al quale la sentenza assolutoria non aveva ravvisato elementi univoci al fine di comprovare l’effettivo ruolo svolto dall’imputato; ha quindi evidenziato che l’imputato, con le dichiarazion i rese in sede di convalida del fermo e poi in sede di giudizio, aveva fornito una spiegazione (ovvero quella in base alla quale i contatti con il COGNOME fossero giustificati da una vicenda specifica attinente alla gestione e all’affitto di un proprio esercizio commerciale) ritenute non convincenti; anche alla luce della sicura conoscenza, in capo all’imputato, della caratura criminale del COGNOME e del ruolo svolto da questi all’interno della omonima cosca mafiosa; ritenendo, quindi, che l’imputato avesse sicuramente concorso causalmente a determinare la propria detenzione inducendo in errore l’autorità procedente in ordine al proprio ruolo all’interno del sodalizio criminale.
Avverso tale ordinanza hanno proposto ricorso per cassazione gli eredi di NOME COGNOME a mezzo del proprio difensore, articolando tre motivi di impugnazione.
Con il primo motivo hanno dedotto -ai sensi dell’art.606, comma 1, lett.b), cod.proc.pen. -l’inosservanza ed erronea applicazione dell’art.314 cod.proc.pen., in punto di valutazione del presupposto ostativo del dolo o della colpa grave.
Hanno dedotto che gli elementi originariamente valutati dal GIP in sede di ordinanza applicativa erano gli stessi poi valutati in sede di sentenza assolutoria e che la Corte territoriale aveva omesso di valutare quanto accertato in tale sede, in riferimento alla totale assenza di elementi probatori in ordine alla condotta contestata; ciò anche in considerazione del fatto che l’imputato, già in sede di convalida del fermo e poi in sede di richiesta di riesame, aveva dedotto le effettive circostanze di fatto inerenti ai suoi rapporti con il COGNOME.
Con il secondo motivo hanno dedotto -ai sensi dell’art.606, comma 1, lett.e), cod.proc.pen. -la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per travisamento dei fatti.
Con il terzo motivo hanno dedotto, ai sensi dell’art.606, comma 1, lett.b), cod.proc.pen. -la inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 314, 273 e 280 cod.proc.pen..
Illustrando unitariamente i due suddetti motivi di impugnazione, hanno esposto che il giudice della riparazione -lungi dal valutare effettivamente il presupposto ostativo della colpa grave -aveva, di fatto, sovrapposto la propria valutazione rispetto a quella del giudice della cognizione, evidenziando le supposte carenze investigative ascrivibili all’organo della pubblica accusa; non operando, quindi, alcuna effettiva valutazione in ordine alle spiegazioni fornite dal COGNOME in relazione ai motivi dei suoi rapporti con il COGNOME e da ritenersi limitati a un unico incontro.
Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta, nella quale ha concluso per la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha depositato memoria, nella quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi vanno rigettati.
Il primo motivo di ricorso è infondato.
La difesa delle parti ricorrenti ha dedotto che, nel caso in esame, dovrebbero applicarsi i principi dettati, in tema di ingiustizia ‘formale’, da Sez. U, n. 32383 del
27/05/2010 , COGNOME Rv. 247663; in base ai quali la circostanza di avere dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave opera, quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, anche in relazione alle misure disposte in difetto delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen.; con la precisazione che tale operatività non può concretamente esplicarsi, in forza del meccanismo causale che governa l’indicata condizione ostativa, nei casi in cui l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura in oggetto avvenga sulla base dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha reso il provvedimento cautelare, in ragione unicamente di una loro diversa valutazione.
Peraltro, tali principi non sono richiamabili nel caso di specie vertendosi -come rappresentato dalla Corte territoriale -in una fattispecie di ingiustizia di carattere ‘sostanziale’.
Ciò in quanto, sulla base di un orientamento cui si ritiene di dover dare continuità, i principi dettati dal predetto arresto della Sezioni Unite in punto di insussistenza originaria delle condizioni per applicare la misura cautelare, sono richiamabili solo quanto tale carenza sia stata accertata dal giudice con la conseguente formazione di una fattispecie di giudicato cautelare (Sez. 4, n. 28599 del 16/04/2009, COGNOME, Rv. 244686; Sez. 4, n. 26269 del 01/03/2017 , Ministero dell’Economia e Finanze, Rv. 270102); e, pertanto, sulla base delle specifiche regole di valutazione dei gravi indizi di colpevolezza (come desumibili dall’art.273 cod.proc.pen.), a propria volta differenti rispetto a quella dell”oltre ogni ragionevole dubbio’ propria, invece, della fase d i cognizione.
Gli altri due motivi -unitariamente esaminabili in ragione della comunanza delle argomentazioni poste alla loro base -sono pure complessivamente infondati.
Va premesso che, in tema di riparazione per ingiusta detenzione, costituisce causa ostativa al riconoscimento dell’indennizzo la sussistenza di un comportamento da parte dell’istante che abbia concorso a darvi luogo con dolo o colpa grave.
Nel caso di specie, la Corte ha rilevato che la caratura criminale del COGNOME doveva ritenersi nota da parte del Gangemi, anche in considerazione della comunanza del luogo di origine; elemento che, pure in assenza della dimostrazione del carattere illecito dei rapporti intrattenuti con il suddetto capo clan, sarebbe valso a connotare in senso gravemente colposo la condotta dello stesso Gangemi, a propria volta da porre in diretto rapporto sinergico con la detenzione subìta, avendo questi fornito un cont ributo ‘ causale consapevole e volontario alla formazione del convincimento degli inquirenti ‘.
Si verte, quindi, in un’implicita ma univoca valorizzazione del dato costituito dalle cosiddette frequentazioni ‘ambigue’ , ravvisate in capo al l’imputato e, a propria volta, ritenute ostative rispetto al riconoscimento dell’indennizzo.
4. A tale proposito, questa Corte ha più volte ribadito che la frequentazione ambigua di soggetti coinvolti in traffici illeciti si presta oggettivamente ad essere interpretata come indizio di complicità e può, dunque, integrare la colpa grave ostativa al diritto alla riparazione (Sez. 4, n. 574 del 05/12/2024, dep. 2025, COGNOME; Rv. 287302; Sez. 4, n. 850 del 28/09/2021, dep. 2022, COGNOME Rv. 282565; Sez. 4, n. 53361 del 21/11/2018, Puro Rv. 274498); nella maggior parte dei casi esaminati da questa Corte in riferimento a tale principio di diritto, si verteva proprio in materia di detenzione cautelare disposta nei confronti di persone indagate quali partecipi di associazioni per delinquere, in un ambito investigativo in cui gli intrecci, gli interessi e le connivenze tra sodali assumono valore altamente indiziario proprio in rapporto ai tratti tipici del delitto associativo.
Dall’esame delle pronunce in cui il principio è stato affermato deve peraltro anche trarsi il limite all’applicazione del medesimo principio; se, infatti, in linea astratta, la frequentazione di persone coinvolte in attività illecite è condotta idonea a concretare il comportamento ostativo al diritto alla riparazione, deve però anche chiarirsi che non tutte le frequentazioni sono tali da integrare la colpa ma solo quelle che (secondo il tenore letterale dell’art.314 cod. proc. pen., a mente del quale rileva il comportamento che, per dolo o colpa grave, abbia dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare subita) siano da porre in relazione, quanto meno, di concausalità con il provvedimento restrittivo adottato (Sez. 4, n. 1921 del 20/12/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 25848601); al giudice della riparazione spetta, dunque, il compito di rilevare il tipo e la qualità di dette frequentazioni, con lo scopo di evidenziare l’incidenza del comportamento tenuto sulla determinazione della detenzione (Sez. 4, n. 7956 del 20/10/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 280547; Sez. 3, n. 39199 del 01/07/2014, COGNOME, Rv. 260397; Sez. 4, n. 34656 del 03/06/2010, COGNOME, Rv. 248074; Sez. 4, n. 8163 del 12/12/2001, COGNOME, Rv. 2209840).
Mentre, in relazione alla materia dei reati associativi, tale presupposto comporta che integra la condizione ostativa della colpa grave la condotta di chi abbia tenuto comportamenti percepibili come indicativi di una sua contiguità al sodalizio criminale, mantenendo con gli appartenenti all’associazione frequentazioni ambigue, tali da far sospettare il diretto coinvolgimento nelle attività illecite (Sez. 4, n. 574 del 05/12/2024, dep. 2025, COGNOME, Rv. 287302, cit; Sez. 4, n. 49613 del 19/10/2018, B., Rv. 273996).
Deve ritenersi che, nel caso in esame, la Corte territoriale si sia complessivamente adeguatamente confrontata con il predetto principio.
Ciò anche dovendosi rammentare l’ulteriore pr esupposto in base al quale l’ontologica autonomia tra giudizio di cognizione e giudizio di riparazione implica che , in quest’ultimo , il giudice possa certamente rivalutare fatti emersi nel processo penale, ivi accertati o non esclusi al solo fine di decidere sulla sussistenza del diritto alla riparazione (Sez.4, n.3895 del 14/12/2017, dep.2018, P., RV. 271739; Sez.4, n.27397 del 10/06/2010, Grillo, RV. 247867); con il solo limite, tuttavia, di non potere ritenere provati fatti che tali non sono stati considerati dal giudice della cognizione ovvero non provate circostanze che quest’ultimo ha valutato dimostrate (Sez. 4, Sentenza n. 12228 del 10/01/2017, Quaresima, Rv. 270039), imponendosi quindi un necessario confronto con le argomentazioni poste alla base della sentenza di proscioglimento.
Nel caso in esame, la Corte ha operato un confronto con le argomentazioni contenute nella sentenza assolutoria e in forza delle quali il comprovato contatto tra il Gangemi e il Piromalli non era stato ritenuto sintomatico, sulla base dei complessivi elementi acquisiti al giudizio, al fine di comprovare la sussistenza di un’effettiva intraneità dell’imputato rispetto al contesto criminale.
La Corte, peraltro -pur spendendo alcune affermazioni ultronee sulle carenza investigative concernenti l’effettivo scopo degli incontri tra l Gangemi e il Piromalli e sul carattere asseritamente non convincente delle giustificazioni addotte dal primo, pure ritenute del tutto credibili dal giudice della cognizione -ha evidenziato alcuni elementi che, in chiave sinottica e con conclusione non palesemente illogica, sono stati ritenuti idonei a concretizzare il presupposto ostativo della colpa grave.
Difatti, la Corte ha preso spunto dall’elemento tratto dalla notoria preesistenza di un clan mafioso facente capo alla famiglia COGNOME e radicato da tempo sulla costa tirrenica nella zona di Gioia Tauro, ovvero la stessa dalla quale proveniva il Gangemi.
D’altra parte, il giudice della riparazione sempre nell’ottica della rilevanza del carattere ambiguo della frequentazione -ha congruamente attribuito rilevanza alle modalità di contatto tra il COGNOME e il COGNOME, come emergenti dalle intercettazioni telefoniche; difatti, ha esposto che i contatti con il COGNOME -finalizzati a un incontro presso il luogo di dimora di quest’ultimo (sito in Milano) avvenissero tramite l’intermediazione con un terzo soggetto (NOME COGNOME), che aveva il compi to di filtrare ogni contatto tra terzi e il boss mafioso.
Evidenziando, secondo un elemento che assume carattere decisivo, che -nel corso delle conversazioni intercettate tra il Gangemi e il Pronesti, anteriori e successive all’incontro venisse utilizzato un linguaggio reiteratamente allusivo e cautelativo, atteso che, nel corso dei dialoghi, non era mai stato fatto il nome del COGNOME e né si era fatto riferimento agli orari e ai luoghi dei suoi spostamenti; modalità di
comunicazione che -secondo la consequenziale valutazione della Corte -trovava ‘ la sua evidente spiegazione proprio nella caratura criminale di COGNOME NOME e nella necessità di questi di sfuggire a ogni controllo da parte del forze dell’ordine e di operare in Milano in maniera particolarmente riservata’.
Si tratta di una valorizzazione, a propria volta, da ritenersi logica in riferimento ad altro e specifico principio giurisprudenziale in base al quale costituisce colpa grave, idonea a impedire il riconoscimento dell’equo indennizzo, l’utilizzo, nel corso di conversazioni telefoniche, da parte dell’indagato di frasi in “codice”, effettivamente destinate a occultare un’attività illecita, anche se diversa da quella oggetto dell’accusa e per la quale fu disposta la custodia cautelare (Sez. 4, Sentenza n. 3374 del 20/10/2016, dep. 2017, Aga, Rv. 268954; Sez. 4, n. 48029 del 18/09/2009, COGNOME, Rv. 245794).
Deve quindi ritenersi che gli elementi rappresentati dal contatto con un noto esponente di una famiglia mafiosa e l’adesione alle particolari modalità pattuite con l’intermediario per lo svolgimento degli incontri con quest’ultimo, ivi compreso l’utilizzo di un linguaggio allusivo e criptico, siano stati tali -sulla base di una valutazione compiuta ex ante con argomentazioni non palesemente illogiche -da configurare la colposa apparenza dell’adesione del Gangemi rispetto alle attività criminali svolte dal sodalizio.
Dovendosi quindi condividere la valutazione della Corte territoriale in ordine al carattere gravemente colposo del comportamento tenuto dal dante cause delle ricorrenti.
Al rigetto dei ricorsi segue la condanna delle ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute dal Ministero resistente in questo giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute dal Ministero resistente, che liquida in complessivi euro 1.000,
Così è deciso, 22/05/2025 Il Consigliere estensore NOME COGNOME
Il Presidente COGNOME