Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 22045 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 22045 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 16/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME NOME nato a ROMA il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 09/01/2024 della CORTE APPELLO di ROMA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; Lette le conclusioni scritte per l’udienza senza discussione orale (art. 23 co. 8 d.l. 137/2020 conv. dalla I. n. 176/2020, come prorogato, in ultimo, ex art. 11, comma 7, d.l. 30 dicembre 2023, n.215, conv. dalla I. 23 febbraio 2024 n. 18) , del P.G., in persona del AVV_NOTAIO. AVV_NOTAIO NOME COGNOME, che ha chiesto il rigetto deg ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di Appello di Roma, con ordinanza del 9/1/2024, rigettava la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione avanzata ex art. 314 cod. proc. pen. dall’odierno ricorrente, NOME COGNOME NOME, subita dal 16/4/2019 al 16/10/2019 in regime di custodia cautelare in carcere e poi fino al 23/3/2020 agli arresti domiciliari, per il reato di concorso in tentato omicidio aggravato dai futili motivi dal possesso di un’arma da parte di uno dei correi.
Il ricorrente, condannato in primo grado alla pena di anni 2 e mesi 2 di reclusione, veniva prosciolto dall’accusa per non aver commesso il fatto con sentenza della Corte di Appello di Roma del 20/1/2021 divenuta irrevocabile il 5/5/2021.
Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, il COGNOME deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.
Con un primo motivo si deduce violazione di legge in relazione agli artt. 125 c.3 e cod. proc. pen. e 314 cod. proc. pen.
Ci si duole che la Corte capitolina abbia completamente disatteso i principi che devono ispirare la valutazione del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, focalizzando la propria attenzione su argomenti irrilevanti e privi di rilievo in relazione al reato per il quale veniva emessa l’ordinanza di custodia cautelare.
Si lamenta che la motivazione dell’impugnato provvedimento sia meramente apparente e priva dei requisiti minimi di coerenza e logicità.
Il ricorrente evidenzia che, fin dal principio della vicenda, era evidente l’assoluta estraneità ai fatti del COGNOME nonché l’assenza dei gravi indizi di colpevolezza, in quanto nessuno dei presenti era a conoscenza che il padre del NOME fosse in possesso di un’arma. Il COGNOME si era recato con il padre dal COGNOME esclusivamente per il timore di una sua reazione inconsulta e, tra l’altro, non appena iniziava la lite tra il padre e il COGNOME, il NOME fuggiva via per la paura.
Ci si duole che l’ordinanza impugnata ravvisi la colpa grave nella circostanza che il NOME si fosse recato dalla vittima unitamente agi altri compartecipi con intento minaccioso ed intimidatorio a prescindere dalla consapevolezza del possesso di un’arma.
Tale circostanza, secondo la tesi del ricorrente, non solo è inidonea a supportare l’applicazione di una misura cautelare ma una diversa interpretazione comporterebbe la possibilità di applicare una misura cautelare per la sola intenzione minacciosa al di là della commissione di un reato per cui sia prevista l’applicazione della misura.
Si contesta, poi, l’affermazione contenuta nel provvedimento impugnato che i presupposti della condotta fossero idonei ad evocare una fattispecie di reato senza però indicarne la natura o il tipo.
Si ricorda che la sentenza assolutoria ha dichiarato che “ben avrebbe potuto la discussione tra i due protagonisti della vicenda rimanere a livello verbale”, evidenziando l’incoerenza e l’irrazionalità del provvedimento impugnato.
La condotta gravemente colposa, continua il ricorrente, avrebbe dovuto essere quantomeno connivente o tale da agevolare o tollerare la consumazione del reato, ossia idonea a rafforzare la volontà criminosa del soggetto agente per giustificare il rigetto della richiesta di riparazione.
Con un secondo motivo si deduce vizio di motivazione in relazione all’art 314 c. 1 e 2 cod. proc. pen.
Ci si duole della manifesta illogicità della motivaziore laddove la corte di appello ritiene, compiendo una valutazione ex ante, la sussistenza dei gravi indizi a carico del COGNOME al momento dell’adozione della misura cautelare.
In realtà, precisa il ricorrente, al momento dell’arresto del padre, NOME COGNOME NOME, avvenuto il 1/4/2019 si è configurata l’estraneità ai fatti d NOME COGNOME NOME. Estraneità confermata dallo stesso e dai due coimputati in sede di interrogatorio.
Si precisa che non solo !a sentenza di appello esclude anche il concorso anomalo ma assolve l’imputato sulla base degli stessi elementi che erano in possesso del P.M. fin dal principio.
Il ricorrente evidenzia, infine, l’illogicità della motivazione anche sotto il prof del mantenimento della misura che è stata revocata solo in fase di dibattimento inoltrato, nonostante le numerose istanze avanzate in tal senso, e che fosse evidente la disponibilità per il P.M. di tutti gli elementi per la revoca già al moment della richiesta del giudizio immediato.
Anche l’omessa revoca, si sottolinea, costituisce titolo per la riparazione.
Chiede, pertanto, l’annullamento della ordinanza impugnata, senza rinvio con pedissequo accoglimento delle conclusioni dell’originaria domanda di riparazione o, in subordine, l’annullamento con rinvio.
3. Il P.G. ha reso le conclusioni scritte ex art. 611 c.p.p. riportate in epigrafe
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I motivi sopra illustrati appaiono infondati e, pertanto, il proposto ricors va rigettato.
Il ricorso si palesa generico ed aspecifico e teso a contestare la sussistenza o meno della gravità indiziaria posta alla base del provvedimento impositivo della misura piuttosto che a contrastare criticamente le considerazioni in punto di colpa grave ritenuta dalla Corte capitolina inibente all’ottenimento del chiesto beneficio.
Per contro, il giudice della riparazione, ancorché in materia estremamente sintetica, motiva esaustivamente sul rigetto della richiesta.
Va premesso che è principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte Suprema che nei procedimenti per riparazione per ingiusta detenzione la cognizione del giudice di legittimità deve intendersi limitata alla sola legittimità de provvedimento impugnato, anche sotto l’aspetto della congruità e logicità della motivazione, e non può investire naturalmente il merito. Ciò ai sensi del combinato disposto di cui all’articolo 646 secondo capoverso cod. proc. pen., da ritenersi applicabile per il richiamo contenuto nel terzo comma dell’articolo 315 cod. proc. pen.
Dalla circostanza che nella procedura per il riconoscimento di equo indennizzo per ingiusta detenzione il giudizio si svolga in un unico grado di merito (in sede di corte di appello) non può trarsi la convinzione che la Corte di Cassazione giudichi anche nel merito, poiché una siffatta estensione di giudizio, pur talvolta prevista dalla legge, non risulta da alcuna disposizione che, per la sua eccezionalità, non potrebbe che essere esplicita. Al contrario l’art. 646, comma terzo cod. proc. pen. (al quale rinvia l’art. 315 ultimo comma cod. proc. pen.) stabilisce semplicemente che avverso il provvedimento della Corte di Appello, gli interessati possono ricorrere per Cassazione: conseguentemente tale rimedio rimane contenuto nel perimetro deducibile dai motivi di ricorso enunciati dall’art. 606 cod. proc. pen., con tutte le limitazioni in essi previste (cfr. ex multis, Sez. 4, n. 542 del 21/4/1994, Bollato, Rv. 198097, che, affermando tale principio, ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso ordinanza del giudice di merito in materia, col quale non si deduceva violazione di legge, ma semplicemente ingiustizia della decisione con istanza di diretta attribuzione di equa somma da parte della Corte).
L’art. 314 cod. pen., com’è noto, prevede al primo comma che “chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”.
In tema di equa riparazione per ingiusta detenzione, dunque, costituisce causa impeditiva all’affermazione del diritto alla riparazione l’avere l’interessato dato causa, per dolo o per colpa grave, all’instaurazione o al mantenimento della
custodia cautelare (art. 314, comma 1, ultima parte, cod. proc. pen.); l’assenza di tale causa, costituendo condizione necessaria al sorgere del diritto all’equa riparazione, deve essere accertata d’ufficio dal giudice, indipendentemente dalla deduzione della parte (cfr. sul punto questa Sez. 4, n. 34181 del 5/11/2002, Guadagno, Rv. 226004).
In proposito, le Sezioni Unite di questa Corte hanno da tempo precisato che, in tema di presupposti per la riparazione dell’ingiusta detenzione, deve intendersi dolosa – e conseguentemente idonea ad escludere la sussistenza del diritto all’indennizzo, ai sensi dell’art. 314, primo comma, cod. proc. pen. – non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso confliggente o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il parametro dell’ “id quod plerumque accidit” secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo (Sez. Unite n. 43 del 13/1:2/1995 dep. il 1996, COGNOME ed altri, Rv. 203637)
Poiché inoltre, la nozione di colpa è data dall’art. 43 cod. pen., deve ritenersi ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione, ai sensi del predetto primo comma dell’art. 314 cod. proc. pen., quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso.
In altra successiva condivisibile pronuncia è stato affermato che il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione non spetta se l’interessato ha tenuto consapevolmente e volontariamente una condotta tale da creare una situazione di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria o se ha tenuto una condotta che abbia posto in essere, per evidente negligenza, imprudenza o trascuratezza o inosservanza di leggi o regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una prevedibile ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso (Sez. 4, n. 43302 del 23/10/2008, Maisano, Rv. 242034).
Ancora le Sezioni Unite, hanno affermato che il giudice, nell’accertare la sussistenza o meno della condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, consistente nell’incidenza causale del dolo o
della colpa grave dell’interessato rispetto all’applicazione del provvedimento di custodia cautelare, deve valutare la condotta tenuta dal predetto sia anteriormente che successivamente alla sottoposizione alla misura e, più in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico (Sez. Unite, n. 32383 del 27/5/2010, COGNOME‘Ambrosio, Rv. 247664). E, ancora, più recentemente, il Supremo Collegio ha ritenuto di dover precisare ulteriormente che in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, ai fini del riconoscimento dell’indennizzo può anche prescindersi dalla sussistenza di un “errore giudiziario”, venendo in considerazione soltanto l’antinomia “strutturale” tra custodia e assoluzione, o quella “funzionale” tra la durata della custodia ed eventuale misura della pena, con la conseguenza che, in tanto la privazione della libertà personale potrà considerarsi “ingiusta”, in quanto l’incolpato non vi abbia dato o concorso a darvi causa attraverso una condotta dolosa o gravemente colposa, giacché, altrimenti, l’indennizzo verrebbe a perdere ineluttabilmente la propria funzione riparatoria, dissolvendo la “ratio” solidaristica che è alla base dell’istituto (così Sez. Unite, n. 5177 del 28/11/2013, COGNOME, Rv. 257606, fattispecie in cui è stata ritenuta colpevole la condotta di un soggetto che aveva reso dichiarazioni ambigue in sede di interrogatorio di garanzia, omettendo di fornire spiegazioni sul contenuto delle conversazioni telefoniche intrattenute con persone coinvolte in un traffico di sostanze stupefacenti, alle quali, con espressioni “travisanti”, aveva sollecitato in orario not turno la urgente consegna di beni).
4. Va poi osservato che vi è totale autonomia tra giudizio penale e giudizio per l’equa riparazione anche atteso che i due afferiscono piani di indagine del tutto diversi che ben possono portare a conclusioni affatto differenti pur se fondanti sul medesimo materiale probatorio acquisito agli atti, in quanto sottoposto ad un vaglio caratterizzato dall’utilizzo di parametri di valutazione del tutto differenti. perché è prevista in sede di riparazione per ingiusta detenzione la rivalutazione dei fatti non nella loro portata indiziaria o probatoria, che può essere ritenuta insufficiente e condurre all’assoluzione, occorrendo valutare se essi siano stati idonei a determinare, unitamente ed a cagione di una condotta negligente od imprudente dell’imputato, l’adozione della misura cautelare, traendo in inganno il giudice.
E’ pacifico (cfr. tra le tante questa Sez. 4, ord. 25/11/2010, n. 45418) che, in sede di giudizio di riparazione ex art. 314 cod. proc. pen. ed al fine della valutazione dell’an debeatur occorra prendere in considerazione in modo autonomo e completo tutti gli elementi probatori disponibili ed in ogni modo emergenti dagli atti, al fine di valutare se chi ha patito l’ingiusta detenzione vi abbia dato o abbi concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, con particolare riferimento alla
sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti. A tate fine è necessario che venga esaminata la condotta posta in essere dall’istante sia prima che dopo la perdita della libertà personale e, più in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico (cfr. Sez. Un. n. 32383/2010), onde verificare, con valutazione ex ante, in modo del tutto autonomo e indipendente dall’esito del processo di merito, se tale condotta, risultata in sede di merito tale da non integrare un fatto-reato, abbia ciononostante costituito il presupposto che abbia ingenerato, pur in eventuale presenza di un errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di “causa ad effetto” (cfr. anche la precedente Sez. Un. 26/6/2002, COGNOME).
A tal fine vanno prese in considerazione tanto condotte di tipo extraprocessuale (grave leggerezza o trascuratezza tale da avere determinato l’adozione del provvedimento restrittivo), quanto di tipo processuale (autoincolpazione, silenzio consapevole sull’esistenza di un alibi) che non siano state escluse dal giudice della cognizione (cfr. questa sez. 4, n. 45418 del 25.11.2010).
La colpa dell’istante è ostativa al diritto per le argomentazioni espresse, tra le altre, da Sez. 4, n. 1710 del 27.11.2013; sez. 4, n. 1422 del 16 ottobre 2013: , · … non potendo l’ordinamento, nel momento in cui fa applicazione della regola solidaristica, … obliterare il principio di autoresponsabilità che incombe su tutt consociati, allorquando interagiscono nella società (trattasi, infondo, della regola che trova esplicitazione negli arti. 1227 e 2056 c.c.), deve intendersi idonea ad escludere la sussistenza del diritto all’indennizzo … non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso configgente o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con parametro dell ‘id quod plerumque accidit secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo. Poiché inoltre, anche ai fini che qui ci interessano, la nozione di colpa è data dall’art. 43 c.p., deve ritenersi ostativa al riconoscimento del dirit alla riparazione … quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere per evidente, macroscopica, negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso …”.
Nel provvedimento impugnato è stato congruamente e logicamente posto in evidenza come NOME si sia recato dalla vittima, unitamente al padre e ad altri soggetti, per vendicarsi delle minacce proferite a sua volta dalla vittima nei suoi confronti e della propria moglie.
Correttamente la Corte capitolina ha ritenuto tale comportamento, al di là della consapevolezza che il padre fosse armato, condotta tale da integrare la colpa grave atta ad escludere il diritto alla riparazione.
Ciò sul logico rilievo che l’essersi recati da NOME NOME in più soggetti, in una sorta di spedizione punitiva, aveva l’intento quanto meno di intimidire e minacciare la vittima.
L’odierno ricorrente è stato assolto -come si evince dalle pagg. 8-9 della motivazione della Corte di Appello del 20/01/2021 – in quanto i giudici del gravame del merito hanno dato credito alla sua versione di non essere a conoscenza che il padre avesse portato con sé l’arma da taglio con cui ha poi colpito la persona offesa, e di averglielo visto in mano solo “dal momento dello scontro”.
Dirimente, tuttavia, ai fini di innescare quella sinergia che ha portato all’emissione della misura custodiale a suo carico è, tuttavia, la considerazione che opera lo stesso giudice dell’assoluzione secondo cui «correttamente il Tribunale riconduceva a tutti i soggetti coinvolti la volontà di accompagnare NOME presso l’abitazione del COGNOME al fine di risolvere definitivamente le questioni tra loro in sospeso» (pag. 9).
Questioni che, come ricorda la Corte capitolina, riguardavano proprio i pregressi comportamenti che il COGNOME aveva avuto anche con lui.
Con motivazione logica ed adeguata, quindi, il giudice della riparazione, nel legittimo esercizio della sua autonomia valutativa, ritiene che tale condotta rivesta caratteristiche di imprudenza tali da configurare quella colpa grave ostativa al riconoscimento dell’indennizzo, e tale da aver inciso sulle determinazioni dei giudici della cautela.
Le doglianze del ricorso si esauriscono in mere critiche alle valutazioni del giudice in assenza di una concreta individuazione di errori di diritto o di vizi dell motivazione, censurabili in sede di legittimità.
Per il giudice della riparazione, non può dunque dubitarsi che, pur avendo il tribunale ritenuto non sufficienti gli elementi acquisiti per pervenire alla sua condanna, mancando la prova della consapevolezza del possesso dell’arma in capo al padre, con la sua presenza a tutte le fasi dell’azione di quest’ultimo, abbia tenuto un comportamento quantomeno di connivenza a loro operato, gravemente colposo e del tutto adeguato ad indurre il giudice per le indagini preliminari a ritenere sussistente a sua carico il presupposto della gravità indiziaria necessario per l’emissione della misura della custodia cautelare e del rinvio a giudizio.
Del resto, Sez. 4, n. 17212 del 9/3/2017, COGNOME, non mass., ha ribadito che, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, la colpa grave può essere ravvisata anche in relazione ad un atteggiamento di connivenza passiva allorché esso risulti aver rafforzato la volontà criminosa dell’agente.
Con specifico riferimento all’ipotesi della connivenza, in relazione al diritto all’equa riparazione, questa Corte, peraltro, già in precedenza, aveva avuto modo di affrontare la problematica della valenza della connivenza stessa ad essere condotta ostativa al riconoscimento della riparazione, riconoscendola: 1. nell’ipotesi in cui l’atteggiamento di connivenza sia indice del venir meno di elementari doveri di solidarietà sociale per impedire il verificarsi di gravi danni alle persone o al cose (Sez. 4, n. 8993 del 15/1/2003, COGNOME, Rv. 223688); 2. nel caso in cui la connivenza si concreti non già in un mero comportamento passivo dell’agente riguardo alla consumazione di un reato, ma nel tollerare che tale reato sia consumato, sempreché l’agente sia in grado di impedire la consumazione o la prosecuzione dell’attività criminosa in ragione della sua posizione di garanzia (Sez. 4, n. 16369 del 18/3/2003, COGNOME, Rv. 224773); 3. nell’ipotesi in cui la connivenza passiva risulti aver oggettivamente rafforzato la volontà criminosa dell’agente, sebbene il connivente non intenda perseguire questo effetto; in tal caso è necessaria la prova positiva che il connivente fosse a conoscenza dell’attività criminosa dell’agente medesimo (Sez. 4, n. 42039 dell’8/11/2006, Cambareri, rv. 235397)
Al rigetto del ricorso consegue, ex lege, la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 16/05/2024