Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 31867 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 31867 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 04/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a NAPOLI il 07/09/1975
avverso l’ordinanza del 09/01/2025 della Corte d’appello di Napoli
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME
che ha concluso per il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello di Napoli, con ordinanza del 9 gennaio 2025, ha rigettato l’istanza di riparazione per ingiusta detenzione proposta da COGNOME Carlo in relazione alla detenzione patita dal 7 agosto al 18 agosto 2014 e dal 29 settembre 2014 al 20 aprile 2015.
In breve il fatto, per una migliore illustrazione dei motivi di ricorso.
COGNOME NOME, legale rappresentante della società RAGIONE_SOCIALE, era stato sottoposto, in data 7 agosto 2014, alla misura cautelare degli arresti domiciliari per il delitto di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74/2000. L’ipotesi accusatoria si fondava sull’addebito di aver utilizzato, nella dichiarazione annuale dei redditi relativa all’anno di imposta 2011, elementi passivi fittizi per un importo superiore ai cinque milioni di euro, derivanti da fatture emesse, per operazioni soggettivamente inesistenti, da due società qualificate come “cartiere”: la “RAGIONE_SOCIALE” e la “RAGIONE_SOCIALE“.
Il G.I.P . del Tribunale di Fermo, su istanza della difesa, revocò la misura il 18 agosto 2014. Tuttavia, il Tribunale di Ancona, adito su ricorso del Pubblico Ministero, con ordinanza del 29 settembre 2014 annullò tale provvedimento, ripristinando la misura cautelare. L’ordinanza fu successivamente confermata dalla suprema Corte e la misura venne concretamente eseguita fino al 20 aprile 2015, quando fu sostituita con l’obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria.
Il procedimento penale si concluse con l’assoluzione di COGNOME COGNOME pronunciata dal Tribunale di Napoli il 12 aprile 2019 (passata in giudicato il 15 luglio 2019) con la formula «perché il fatto non costituisce reato». Il giudice dell’assoluzione, pur non dubitando della validità delle investigazioni compiute dalla Guardia di Finanza circa la qualifica di mere “cartiere” delle società fornitrici, ritenne tuttavia che non potesse ritenersi provata con rassicurante certezza la consapevolezza da parte del Mormile del fatto che l’imposta dovuta «non fosse in realtà stata corrisposta dai suoi fornitori».
Il giudice della riparazione ha evidenziato elementi che, secondo la sua valutazione, configuravano una condotta gravemente colposa. In particolare, è stato sottolineato che NOME intratteneva rapporti commerciali quasi esclusivamente con le società ‘RAGIONE_SOCIALE‘ ed ‘RAGIONE_SOCIALE, che nel 2012 avevano emesso fatture per complessivi € 5.425.335,30. Le due società erano effettivamente delle “cartiere”, totalmente sprovviste di un’adeguata struttura commerciale e caratterizzate da evidenti anomalie operative.
L’elemento ritenuto decisivo dalla Corte territoriale è costituito dalla circostanza che COGNOME nella qualità di legale rappresentante di altra società (la
‘RAGIONE_SOCIALE‘), aveva già in precedenza trattato con la ‘Spot Service’, e anche in quella circostanza erano emerse, all’esito di accertamenti fiscali, irregolarità analoghe. Secondo i giudici territoriali, tale precedente «avrebbe dovuto indurre il COGNOME a trattare con maggiore cautela» e costituiva elemento decisivo per configurare la colpa grave.
COGNOME COGNOME a mezzo del proprio difensore di fiducia, propone ricorso per cassazione, affidandolo ai seguenti motivi.
2.1 Il primo motivo di ricorso denuncia l’errata valutazione degli elementi indicati dalla Corte territoriale come sintomatici di una condotta gravemente colposa. Il ricorrente contesta specificamente la valutazione secondo cui COGNOME avrebbe dovuto esimersi dall’intrattenere rapporti commerciali con le società ‘RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE in quanto già oggetto di contestazioni relative alla ‘RAGIONE_SOCIALE.
Il cardine dell’obiezione si fonda su un dato cronologico: le verifiche aventi ad oggetto la ‘RAGIONE_SOCIALE‘ e la ‘RAGIONE_SOCIALE‘ furono pressoché contemporanee, conclusesi rispettivamente il 24 settembre 2013 e il 9 maggio 2014. Anche i procedimenti penali seguirono un iter parallelo, con udienze preliminari celebrate a distanza di pochi giorni ed entrambi si sono conclusi con sentenze assolutorie.
Questa sostanziale contemporaneità, secondo il ricorrente, esclude in radice che il COGNOME fosse nelle condizioni di valutare la pericolosità dei rapporti commerciali instaurati con la ‘Eurocom’ e con la ‘Spot Service’. La Corte avrebbe quindi costruito il proprio ragionamento su un presupposto cronologico errato, immaginando che COGNOME potesse essere a conoscenza di irregolarità fiscali precedentemente accertate, quando invece tali accertamenti erano in corso contemporaneamente.
Il ricorrente sottolinea, inoltre, che il casellario giudiziale dell’istante non recava alcuna iscrizione, confermando l’assenza di qualsiasi precedente che potesse giustificare un dovere di particolare cautela.
Quanto alla iscrizione delle società “RAGIONE_SOCIALE” ed “RAGIONE_SOCIALE” nell’archivio VIES (che l’ordinanza impugnata ha ritenuto ininfluente ai fini della prova della buona fede di COGNOME), il ricorrente obietta che non si può rimproverare ad un operatore economico di aver fatto affidamento sull’iscrizione delle proprie controparti in un archivio ufficiale, poiché tale verifica rappresenta l’unico strumento di controllo accessibile ai privati.
2.2 Il secondo motivo denuncia il contrasto con l’esito del processo penale, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione. Il ricorrente denuncia una contraddizione di fondo nell’approccio della Corte d’appello, che avrebbe
operato un completo ribaltamento della sentenza assolutoria, con una ingiustificata rilettura ‘colpevolista’ della sua motivazione.
Pur avendo premesso di voler evitare una indebita rimeditazione in senso colpevolista della sentenza di assoluzione, la Corte avrebbe invece fatto esattamente questo, ignorando l’esito assolutorio. La sentenza aveva stabilito l’impossibilità di ritenere provata la consapevolezza di NOME circa le irregolarità fiscali, giudicato irrevocabile che doveva precludere qualsiasi valutazione di colpa grave basata sui medesimi elementi fattuali.
Il ricorrente evidenzia, inoltre, la svalutazione illegittima dell’ordinanza con la quale il G.i.p., dopo aver sentito le ragioni della difesa nell’interrogatorio di garanzia, aveva deciso di revocare la misura. Ed invero, secondo la difesa , questa ordinanza dimostra che le argomentazioni di COGNOME sono state ritenute convincenti dal giudice che meglio conosceva gli elementi del caso.
Specifiche contraddizioni nella motivazione emergono dalla erronea interpretazione fornita dalla Corte circa le dichiarazioni rese dall’imputato in sede di interrogatorio di garanzia. La Corte avrebbe erroneamente collegato, il tema del ” drop shipping ” a quello dei prezzi praticati quando invece tale espressione indica specificamente un modello di e-commerce che consente di vendere prodotti online senza possederli, modalità organizzativa che consente una riduzione dei costi, ma non ha nulla a che vedere con prezzi ed IVA.
Il ricorrente contesta infine la valutazione secondo cui il materiale probatorio del dibattimento sarebbe stato diverso da quello cautelare. I testimoni escussi erano null’altro che i soggetti che procedettero alle verifiche fiscali, e la loro escussione non ha di certo introdotto temi ed elementi estranei. La coerenza della linea difensiva (la mancanza di consapevolezza dell’evasione fiscale altrui), rimasta invariata lungo tutto l’arco processuale, avrebbe dovuto essere valutata positivamente per escludere la sussistenza di una colpa ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo.
Il Procuratore Generale ha depositato memoria, concludendo per il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I motivi di ricorso sono infondati.
La Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi consolidati che regolano il giudizio di riparazione, in ragione dei distinti piani sui quali operano
i due ambiti dell’accertamento della responsabilità penale e del riconoscimento dei presupposti per la riparazione dell’ingiusta detenzione.
Come chiarito dalla costante giurisprudenza nomofilattica, il giudice della riparazione, per stabilire se chi l’ha patita vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve valutare tutti gli elementi probatori disponibili, al fine di stabilire – con valutazione ex ante e secondo un iter logico motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito – non se tale condotta integri gli estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale (Sez. 4, n. 3359 del 22/09/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 268952).
Per decidere se l’imputato abbia dato causa per dolo o colpa grave alla misura cautelare, deve essere valutato il comportamento dell’interessato alla luce del quadro indiziario su cui si è fondato il titolo cautelare, sempre che gli elementi indiziari non siano stati dichiarati assolutamente inutilizzabili ovvero siano stati esclusi o neutralizzati nella loro valenza nel giudizio di assoluzione (Sez. 4, n. 41396 del 15/09/2016, Piccolo, Rv. 268238).
In sostanza, il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è del tutto autonomo rispetto al giudizio penale di cognizione, impegnando piani di indagine diversi che possono condurre a conclusioni del tutto differenti sulla base dello stesso materiale probatorio acquisito agli atti. Ciò sia in considerazione del diverso oggetto di accertamento (nel giudizio penale, la condotta di reato; nel giudizio di riparazione, la condotta gravemente colposa o dolosa causalmente rilevante ai fini della misura cautelare), sia in considerazione delle diverse regole di giudizio (applicandosi solo in sede penale la regola dell’ ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’ ed una serie di limitazioni probatorie).
E ancora, nell’ambito della riparazione per ingiusta detenzione, il giudice di merito è tenuto a valutare autonomamente e integralmente tutti gli elementi probatori disponibili per accertare se il soggetto che ha subito la detenzione vi abbia contribuito con dolo o colpa grave. Tale valutazione deve concentrarsi particolarmente sull’individuazione di condotte che rivelino negligenza, imprudenza o violazioni normative di carattere eclatante o macroscopico, richiedendo una motivazione adeguata e congrua che, se correttamente formulata, risulta insindacabile in sede di legittimità (Sez. U, n. 34559 del 26/06/2002, Min. Tesoro in proc. COGNOME, Rv. 222263).
Le Sezioni Unite hanno chiarito che l’ordinamento, nell’applicare la regola solidaristica che fonda il diritto al risarcimento in esame, non può prescindere dal principio di auto-responsabilità gravante su tutti i consociati nelle loro interazioni sociali – principio che trova esplicita codificazione negli articoli 1227 e 2056 del
codice civile. Conseguentemente, l’esclusione del diritto all’indennizzo previsto dall’articolo 314, comma 1, c.p.p. deve ritenersi giustificata non soltanto dalla condotta finalizzata alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi aspetti fattuali – indipendentemente dalla sua conformità o difformità alle prescrizioni legali – ma anche dalla condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio secondo il parametro dell’id quod plerumque accidit e le regole di esperienza comunemente accettate, risultino idonei a generare una situazione di allarme sociale tale da giustificare il doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità ragionevolmente ritenuta in pericolo.
In tale prospettiva, la colpa grave può manifestarsi attraverso comportamenti tanto processuali quanto extraprocessuali, quali la grave leggerezza o la rilevante trascuratezza, tenuti sia anteriormente che successivamente al momento della restrizione della libertà personale. L’applicazione della disciplina normativa richiede pertanto l’analisi dei comportamenti dell’interessato anche precedenti all’avvio dell’attività investigativa e alla relativa conoscenza, prescindendo dalla circostanza che tali comportamenti non integrino fattispecie di reato -presupposto, questo, scontato dell’intervento del giudice della riparazione (in puntuali termini, Sez. 4, 16/10/2007, n. 42729; Sez. 4, n. 8914 del 18/12/2014 dep. 2015, COGNOME, in motivazione).
Nel caso in esame, la Corte d’Appello di Napoli ha ricostruito con precisione il quadro fattuale che ha caratterizzato la vicenda, evidenziando come l’istante, nella qualità di legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE“, avesse intrattenuto rapporti commerciali pressoché esclusivi con due società, la RAGIONE_SOCIALE” e la “RAGIONE_SOCIALE“, per operazioni di rilevante entità economica (oltre cinque milioni di euro).
La natura di “società cartiere” di questi soggetti giuridici è stata accertata dagli organi di controllo fiscale e non è stata smentita nel giudizio di cognizione. La “Spot Service”, pur avendo emesso fatture per importi ingentissimi, operava in un piccolo ufficio privo di dotazione congrua di risorse e personale, configurandosi come soggetto che si interponeva fittiziamente tra il venditore estero e l’acquirente al solo fine di far figurare l’IVA come corrisposta e consentirne la detrazione. L'”Eurocom”, dal canto suo, aveva subìto una trasformazione repentina del proprio oggetto sociale, passando dalla vendita di prodotti caseari, con un fatturato di circa 50.000 euro, alla commercializzazione di prodotti informatici per un valore di 4-5 milioni di euro, sotto la gestione di un legale rappresentante moldavo mai reperito dagli accertatori.
Elemento di particolare rilievo è la circostanza che l’istante aveva già avuto esperienza di contestazioni analoghe in relazione ad altra società da lui amministrata, la “RAGIONE_SOCIALE“, posta in liquidazione nel 2012.
3.1 Il primo motivo di ricorso, incentrato sulla pretesa errata valutazione degli elementi sintomatici della colpa grave, si rivela infondato sotto molteplici profili.
Il ricorrente sostiene che le verifiche relative alla “RAGIONE_SOCIALE” e alla “RAGIONE_SOCIALE” fossero «pressoché contemporanee», adducendo a sostegno le date di conclusione delle rispettive verifiche fiscali. Tale argomentazione si fonda su una ricostruzione cronologica parziale e fuorviante, che non tiene conto della effettiva sequenza temporale degli eventi rilevanti e della data di inizio delle verifiche.
La Corte territoriale ha ritenuto la colpa grave sottolineando che l’istante era tenuto ad un controllo particolarmente intenso in ragione dell’inadeguata struttura commerciale delle società, con le quali intratteneva rapporti esclusivi, e per il fatto che, nella precedente esperienza imprenditoriale con la “RAGIONE_SOCIALE“, erano emerse irregolarità connesse all’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti emesse dalla “Spot Service”: una motivazione che non presenta alcun profilo di contraddittorietà o manifesta illogicità e appare pienamente conforme ai principi di diritto sopra enunciati.
Del resto, nella stessa sentenza assolutoria, si esclude che COGNOME fosse consapevole di avere rapporti con società ‘cartiere’, ma si ritiene ragionevolmente provato che tanto la ‘RAGIONE_SOCIALE‘ che la ‘RAGIONE_SOCIALE‘ fossero delle mere cartiere e che anche in relazione alla precedente società di cui era titolare il COGNOME (la ‘RAGIONE_SOCIALE‘) erano già in passato emerse analoghe criticità (pagine 4 e 5).
Il ricorrente sottolinea che le società ‘RAGIONE_SOCIALE‘ erano regolarmente iscritte nell’archivio VIES e sostiene che ciò escluderebbe qualsiasi profilo di colpa nella decisione di intrattenere con le stesse rapporti commerciali pressocché esclusivi, ma l’argomento non ha pregio.
Come opportunamente evidenziato dalla Corte territoriale, già la Corte di cassazione, in sede cautelare, aveva osservato che, da se sola, tale iscrizione non consentiva di escludere la natura fittizia delle operazioni,. Dunque, non è illogico aver ritenuto questo dato irrilevante nel giudizio di riparazione essendo stata accertata, anche nel giudizio di cognizione, la natura di ‘società cartiere’ delle due compagini attenzionate.
La Corte d’Appello ha quindi correttamente applicato il principio consolidato secondo cui la colpa grave si manifesta attraverso comportamenti tanto processuali quanto extraprocessuali, quali la grave leggerezza o la rilevante trascuratezza, tenuti sia anteriormente che successivamente al momento della
restrizione della libertà personale, prescindendo dalla circostanza che tali comportamenti non integrino fattispecie di reato.
3.2 Il secondo motivo, concernente il presunto vizio di motivazione e il contrasto con l’esito del processo penale, si fonda su una erronea interpretazione dei rapporti tra giudizio di cognizione e giudizio di riparazione.
Il ricorrente lamenta una pretesa rilettura colpevolista della sentenza di assoluzione, sostenendo che la Corte territoriale avrebbe operato un completo ribaltamento della decisione assolutoria.
Come costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, il giudizio di riparazione non costituisce un riesame del merito della decisione penale, ma un autonomo accertamento volto a stabilire se la condotta dell’interessato, pur non integrando gli estremi del reato, sia stata caratterizzata da dolo o colpa grave tali da ingenerare la falsa apparenza della configurabilità dell’illecito penale.
La Corte territoriale ha correttamente operato questa distinzione, chiarendo che l’insussistenza di profili penalmente rilevanti non elide il carattere gravemente imprudente della condotta posta in essere dal Mormile.
La circostanza che il G.i.p. del Tribunale di Fermo avesse inizialmente revocato la misura cautelare, successivamente ripristinata dal Tribunale del riesame, non assume rilievo dirimente ai fini della valutazione della colpa grave. Il giudice della riparazione deve infatti valutare il comportamento dell’interessato alla luce del quadro indiziario complessivo, non limitandosi a considerare le oscillazioni interpretative che possono aver caratterizzato la fase cautelare, peraltro culminata con la conferma della misura cautelare (ciò che esclude in radice la applicabilità dell’art. 314 comma 2, cod. proc. pen.).
Quanto al riferimento al ” drop shipping ” contenuto nelle dichiarazioni rese dall’istante, la Corte territoriale ha correttamente inquadrato tale elemento nel più ampio contesto delle anomalie commerciali che caratterizzavano i rapporti con la ‘Spot Service’ e la ‘Eurocom’. Ha valorizzato a tal fine che NOME trattava con soggetti diversi da quello che inviava la merce e che le condizioni di acquisto erano così vantaggiose da poter essere considerate anomale.
La fedeltà alla linea difensiva, invocata dal ricorrente, non costituisce di per sé elemento idoneo ad escludere la colpa grave, dovendosi invece valutare la oggettiva ragionevolezza e prudenza del comportamento tenuto.
In conclusione, la Corte territoriale ha compiutamente motivato la propria decisione applicando correttamente i principi consolidati in materia di riparazione per ingiusta detenzione. Ha infatti evidenziato come la condotta dell’istante fosse caratterizzata da macroscopica imprudenza, manifestatasi nell’aver intrattenuto rapporti commerciali di rilevante entità con società palesemente inadeguate sotto
il profilo strutturale e organizzativo, espressamente riconosciute come ‘cartiere’ dalla stessa sentenza assolutoria e già oggetto di precedenti contestazioni fiscali per analoghe irregolarità.
Il nesso di causalità tra la condotta gravemente colposa e l’adozione della misura cautelare è stato accertato, evidenziando come tale comportamento abbia contribuito ad offrire la falsa apparenza della responsabilità penale dell’istante, inducendo ragionevolmente, ancorché erroneamente, il giudice della cautela a ritenere sussistenti i presupposti per l’applicazione degli arresti domiciliari.
Per le esposte ragioni, i motivi proposti si rivelano infondati, conseguendone il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente alle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
Così deciso il 4 luglio 2025
Il consigliere estensore Il Presidente NOME COGNOME NOME COGNOME