Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 6320 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 6320 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 17/01/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a PALERMO il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 20/09/2023 della CORTE APPELLO di PALERMO
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del PG, nella persona del sostituto NOME COGNOME, che ha chiesto il rigetto del ricorso
RITENUTO IN FATTO
1.La Corte d’Appello di Palermo ha rigettato la richiesta di riparazione ai sensi dell’art. 314 cod. proc. pen., presentata nell’interesse di NOME COGNOME, con riferimento alla detenzione da costui subita (dal 18 febbraio 2020 al 4 settembre 2020) in un procedimento penale, nel quale gli erano stati contestati il reato di cui agli artt. 110 cod. pen., 416 bis cod. pen., commesso in Palermo dal gennaio 2016 (Capo 2) e il reato di cui agli artt. 56, 110, 629, comma 2, 416 bis 1 cod. penfommesso in Palermo dal maggio al luglio 2017 ( capo 4). Secondo l’accusa, COGNOME avrebbe fatto parte dell’associazione mafiosa capeggiata dallo zio NOME COGNOME: questi, già attinto da numerose ordinanze applicative di misura V’4 t .e cautelare per partecipazione ad associazione mafiosa, omicidio e GLYPH ti) omicidio, rientrato nel mese di gennaio 2016 dopo la scarcerazione per un fine pena, aveva ripreso il controllo “mafioso” del territorio nel quartiere Arenella di Palermo, palesando in maniera anche simbolica il suo potere, autorizzando attività ambulanti, esercitando il controllo sulle attività imprenditoriali e pretendendo, senza bisogno di esercitare alcuna forma di violenza, utilità economiche; COGNOME, inoltre, avrebbe coadiuvato lo zio nel tentativo di estorsione nei confronti di NOME COGNOME, titolare dell’esercizio commerciale denominato “RAGIONE_SOCIALE“.
1.1. Sottoposto ad interrogatorio da parte del Pubblico RAGIONE_SOCIALE, COGNOME aveva richiesto la revoca della misura, ovvero la sostituzione con altra misura meno afflittiva, ma il Giudice per le Indagini Preliminari aveva rigettato tale richiesta. I Tribunale del Riesame di Palermo aveva accolto l’appello interposto avverso l’ordinanza di rigetto, rilevando l’assenza di gravità indiziaria in ordine ad entrambi i reati contestati e aveva disposto la scarcerazione del ricorrente.
1.2. Il procedimento nei confronti di COGNOME era stato poi archiviato su richiesta del Pubblico RAGIONE_SOCIALE, con decreto del Gip del Tribunale di Palermo del 28.6.2022.
2.La difesa dell’interessato ha proposto ricorso, a mezzo del difensore, formulando due motivi
2.1. Con il primo motivo ha dedotto il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza della condotta ostativa della colpa grave. Il ricorrente lamenta che:
la Corte avrebbe valorizzato il silenzio serbato dall’indagato nel corso dell’interrogatorio di garanzia, in violazione del disposto di cui all’art. 314 cod. proc. pen., così come modificato dal d.lgs n. 188/2021 e senza tenere conto che tale condotta era stata determinata dalla necessità di prendere completa visione di tutta la copiosa mole di atti processuali;
-la Corte avrebbe valorizzato la frequentazione e la contiguità del ricorrente con lo zio NOME COGNOME, senza spiegare le ragioni della connotazione gravemente colposa di tali condotte e senza spiegare in che termini avrebbero influito sull’adozione del provvedimento cautelare. In particolare, a tale ultimo proposito, il difensore osserva che la Corte nell’ordinanza impugnata avrebbe descritto alcuni comportamenti riferibili al solo NOME e che non avevano visto il coinvolgimento del ricorrente e avrebbe fatto riferimento a dialoghi intercettati, cui il ricorrente non aveva, tuttavia, preso parte;
la Corte avrebbe valorizzato comportamenti, quale l’aver fatto da tramite con gli affiliati del sodalizio, ovvero l’essersi prestato alla intestazione fittizia beni intestati allo zio, che non erano stati presi in considerazione dal giudice della cautela, ma solo richiamati nella parte dell’ordinanza applicativa della misura in cui tale giudice aveva riportato la richiesta del Pubblico RAGIONE_SOCIALE; la conversazione del 30 settembre 2016 con tale “COGNOME“, che pure non era stata presa in esame dal giudice della cautela: in realtà -osserva il difensore- anche tale ultima conversazione non sarebbe stata indicativa di alcunché, in quanto in essa il ricorrente si era limitato a pronunciare il nome di “COGNOME” nel mentre questi si stava avvicinando all’auto; le conversazioni nelle quali si era accennato alla intestazione fittizia di beni, che in realtà lo stesso Gip nel provvedimento cautelare aveva spiegato con il legame famigliare che legava il ricorrente allo zio; la conversazione da cui era emerso l’intervento del ricorrente, su sollecitazione dello zio, nella contesa fra NOME COGNOME e COGNOME, che in realtà lo stesso Gip aveva ritenuto giustificato dai rapporti personali che legavano COGNOME ai contendenti; le richieste di denaro effettuate nei confronti di COGNOME che in realtà come chiarito dalla stessa persona offesa (sentita quattro mesi dopo l’arresto di COGNOME) si riferivano a debiti pregressi realmente esistenti.
2.2. Con il secondo motivo, ha dedotto il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta irrilevanza delle dichiarazioni rese dal ricorrente nell’interrogatorio davanti al Pubblico RAGIONE_SOCIALE. Il difensore osserva che nel corso di detto interrogatorio, COGNOME aveva prodotto la cartella relativa alla rottamazione del debito con la agenzia delle entrate e la visura camerale da cui risultava che il bar RAGIONE_SOCIALE non era riconducibile a COGNOME. La Corte non si era soffermata, come sarebbe stato necessario, in merito alla rilevanza dell’interrogatorio ai fini della scarcerazione.
3.11 Procuratore generale, in persona del sostituto NOME COGNOME, GLYPH ha rassegnato conclusioni scritte con cui ha chiesto rigettarsi il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.11 ricorso deve essere rigettato.
2. Come è noto 1 l’art. 314 cod. proc. pen. disciplina due differenti ipotesi di riparazione a seguito di ingiusta detenzione. Ai sensi del primo comma, chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto ad un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave (c.d ingiustizia sostanziale). Ai sensi del secondo comma, lo stesso diritto spetta al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare, quando con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o manutenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen. (c.d. ingiustizia formale). Nel primo caso viene in rilievo una sentenza di assoluzione quale esito di un processo, a seguito di istruttoria o comunque diversa valutazione del compendio probatorio da parte del giudice del merito rispetto a quello della cautela; nel secondo caso viene in rilievo, sia in caso di proscioglimento, sia in caso di condanna, l’accertamento con decisione irrevocabile della illegittimità ab origine della misura cautelare detentiva applicata per difetto delle condizioni di applicabilità di cui ai richiamati articoli.
Anche nell’ipotesi di c.d. ingiustizia formale la circostanza di avere dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave opera quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, ma tale operatività non può concretamente esplicarsi, in forza del meccanismo causale che governa l’indicata condizione ostativa, nei casi in cui l’accertamento dell’insussistenza “ah origine” delle condizioni di applicabilità della misura in oggetto avvenga sulla base dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha reso il provvedimento cautelare, in ragione unicamente di una loro diversa valutazione (Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, COGNOME, Rv. 247663; Sez. 4, n. 16175 del 22/04/2021, COGNOME, Rv. 281038; Sez. 4, n. 26261 del 23/11/2016, RAGIONE_SOCIALE Econ. Finanze, Rv. 270099).
2.1 In linea generale, va ribadito che il giudice della riparazione per l’ingiusta detenzione, per stabilire se chi l’ha patita vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve valutare tutti gli elementi probatori disponibili, al fine di stabilire, con valutazione ex ante – e secondo un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito – non se tale
condotta integri gli estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale (Sez. 4 n. 9212 del 13/11/2013, dep. 2014, Maltese Rv. 259082). Pertanto, in sede di verifica della sussistenza di un comportamento ostativo al riconoscimento del diritto alla riparazione non viene in rilievo la valutazione del compendio probatorio ai fini della responsabilità penale, ma solo la verifica dell’esistenza di un comportamento del ricorrente che abbia contribuito a configurare un grave quadro indiziario nei suoi confronti. Si tratta di una valutazione che ricalca quella eseguita al momento dell’emissione del provvedimento restrittivo ed è volta a verificare: in primo luogo, se dal quadro indiziario a disposizione del giudice della cautela potesse desumersi l’apparenza della fondatezza delle accuse, pur successivamente smentita dall’esito del giudizio; in secondo luogo, se a questa apparenza abbia contribuito il comportamento extraprocessuale e processuale tenuto dal ricorrente (Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, COGNOME, Rv.247663).
Ai medesimi fini, inoltre, il giudice deve esaminare tutti gli elementi probatori utilizzabili nella fase delle indagini e apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti, fornendo del convincimento conseguito motivazione, che, se adeguata e congrua, non è censurabile in sede di legittimità (Sez. 4 n. 27458 del 5/2/2019, NOME COGNOME, Rv. 276458).
Per quanto di interesse in relazione all’oggetto del presente ricorso, la Corte di legittimità ha in più occasioni affermato che la condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo, rappresentata dall’avere il richiedente dato causa all’ingiusta carcerazione, può essere integrata da comportamenti quali le frequentazioni ambigue con i soggetti condannati nel medesimo procedimento o in procedimento diverso, purché il giudice della riparazione fornisca adeguata motivazione della loro oggettiva idoneità ad essere interpretate come indizi di complicità, così da essere poste quanto meno in una relazione di concausalità con il provvedimento restrittivo adottato (Sez. 4, n. 850 del 28/09/2021, COGNOME, Rv. 282565; sez. 4, n. 53361 del 21/11/2018, COGNOME, Rv. 274498).
Così ricostruita la cornice normativa ed ermeneutica di riferimento, il primo motivo con cui si contesta la ritenuta sussistenza della colpa grave deve ritenersi infondato.
3.1. Si osserva in primo luogo, che nel caso in esame viene in rilievo, pur se la Corte della riparazione non lo afferma espressamente, un’ipotesi di c.d. ingiustizia sostanziale disciplinata dall’art. 314, comma 2, cod. proc. pen., in
quanto la misura cautelare applicata nei confronti di COGNOME è stata revocata dal Tribunale del Riesame per l’assenza dei gravi indizi di colpevolezza: ci troviamo di fronte, dunque, al caso in cui con una pronuncia irrevocabile è stato accertato che il provvedimento cautelare è stato emesso o mantenuto in violazione dell’art. 273 cod. proc. pen. La revoca della misura, tuttavia, è intervenuta dopo che le dichiarazioni rese da COGNOME nel corso dell’interrogatorio davanti al Pubblico RAGIONE_SOCIALE, cui si era sottoposto durante le indagini, avevano consentito di interpretare in maniera diversa il compendio indiziario posto a base della misura: la declaratoria di assenza delle condizioni di applicabilità della misura da .parte del Tribunale del Riesame è avvenuta, dunque, sulla base di elementi ulteriori rispetto a quelli a disposizione del giudice della cautela.
3.2. La Corte della riparazione, in maniera conforme con tali principi, ha ritenuto sussistente nel caso di specie la condizione ostativa della riparazione, con un percorso argomentativo coerente con i dati di fatto riportati e non illogico.
I Giudici, invero, hanno preso le mosse dal rilievo incontestato che lo zio del ricorrente, NOME COGNOME, era esponente di rilievo di RAGIONE_SOCIALE ed hanno, indi, valorizzato, quali condotte sintomatiche di colpa grave, così come accertate in fatto in quanto desunte dalle conversazioni intercettate e dai servizi di osservazione della polizia giudiziaria, le frequentazioni e i contatti di NOME COGNOME con tale congiunto. I particolare i giudici hanno ricordato:
-il prelevamento dello zio NOME COGNOME, esponente di spicco della associazione mafiosa, presso la éasa circondariale di Rebibbia al momento della scarcerazione;
-i numerosi incontri giornalieri fra i ricorrente e lo zio NOME COGNOME: NOME COGNOME era solito accompagnare lo zio ove questi desiderava recarsi, gli prestava il suo telefono cellulare per effettuare chiamate personali e interloquiva direttamente con il suo difensore di fiducia;
-l’essersi prestato il ricorrente quale intestatario di beni immobili per conto dello zio;
l’avere il ricorrente ricevuto le confidenze dello zio a proposito dei suoi progetti, quale quello di inserirsi nel mercato del pesce, ovvero di assumere la direzione di un centro scommessnel caso in cui il titolare non avesse ottemperato all’ultimatum di corrispondere una somma mensile ad un altro nipote;
-l’essere stato il ricorrente posto a conoscenza delle dinamiche organizzative interne al gruppo di cosa nostra;
l’essere intervenuto il ricorrente, su richiesta dello zio, per dirimere contese fra altre persone;
l’avere il ricorrente ripetutamente cercato l’imprenditore COGNOME, al fine di riscuotere dallo stesso una somma di denaro, coadiuvato dal padre NOME
NOME COGNOME e dallo zio NOME COGNOME. A tale ultimo proposito i giudici hanno dato conto che il Tribunale del riesame aveva negato la valenza indiziaria di tale condotta sulla base delle spiegazioni fornite nel corso dell’interrogatorio dal ricorrente, secondo il quale egli vantava un credito legittimo nei fronti di COGNOME in relaziona pregressi lavori edili, ma hanno rilevato che di tali lavori non era stato fornito alcun riscontro documentale.
La Corte ha, indi, spiegato che tali comportamenti, avvenuti in un contesto cronologico e spaziale ristretto, erano rivelatori di una vicinanza di NOME COGNOME rispetto agli affari dello zio NOME, che travalicava il confine dei normali rapporti di parentela e rivelava, piuttosto, una palese cointeressenza fra i due e la messa a disposizione del ricorrente per esaudire i “desiderata” dello zio, in’ quanto esponente della cosca mafiosa. Il comportamento del ricorrente, dunque, integrava la causa ostativa al riconoscimento della liquidazione, giacché esprimeva contiguità rispetto alla attività di ripresa del controllo mafioso del territorio.
3.4.A fronte del percorso argomentativo così articolato, la censura del ricorrente è infondata.
Nell’ordinanza impugnata si è fatto riferimento al silenzio serbato dal ricorrente nel corso dell’interrogatorio di garanzia non già per attribuire a tale scelta processuale la valenza della colpa grave, bensì solo per chiarire che le spiegazioni fornite dal ricorrente rispetto al contenutbdi alcune conversazioni, a distanza di cinque mesi, erano state determinanti nella adozione del provvedimento di revoca della misura per insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ma non erano evidentemente note al momento dell’adozione del titolo cautelare. La Corte, inoltre, ha descritto /in premessa, le condotte dello zio NOME COGNOME solo per tratteggiare la caratura criminale di questi e per attribuire, così, rilievo alla frequentazione e alla messa a disposizione nei suoi confronti dal parte del richiedente la riparazione, sicché i relativi riferimenti erano del tutto coerenti.
Il ricorrente si duole della carenza di motivazione in ordine alla efficacia sinergica della condotta individuata come gravemente colposa rispetto all’adozione della misura cautelare per i reati suindicati, ma non tiene conto che anche su tali specifici punti la Corte si è soffermata in maniera adeguata. Come detto, i giudici hanno spiegato che le indagini avevano documentato i contatti fra NOME COGNOME e lo zio, esponente di spicco di una cosca mafiosa, accompagnati dalla consapevolezza dei traffici illeciti e non giustificati dal semplice rapporto di parentela (in tema Sez. 4, n. 29550 del 05/06/2019, COGNOME, Rv. 277475 secondo cui “In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, le frequentazioni ambigue con soggetti condannati nel medesimo procedimento possono integrare
un comportamento gravemente colposo, ostativo al riconoscimento del diritto all’indennizzo, anche nel caso in cui intervengano con persone legate da rapporto di parentela, purché siano accompagnate dalla consapevolezza che trattasi di soggetti coinvolti in traffici illeciti e non siano assolutamente necessitate”) e hanno dato conto del fatto che tali contatti, macroscopicamente imprudenti, avevano creato un’apparenza di reato, tale da legittimare l’intervento dell’autorità giudiziaria. Come detto, nessun rilievo può assumere la circostanza per cui i comportamenti stigmatizzati dalla Corte di Appello siano stati ritenuti inidonei sotto il profilo della sussistenza della penale responsabilità, giacché il giudizio di merito non ha incidenza rispetto alla valutazione cui è chiamato il giudice della riparazione: si tratta di giudizi autonomi che, impegnando piani di indagine diversi, possono portare a conclusioni differenti sulla base dello stesso materiale probatorio acquisito agli atti, ma sottoposto ad un vaglio fondato su parametri di valutazione distinti (Sez. 4 n. 34438 del 02/07/2019, Messina, Rv. 276859).
Il secondo motivo è inammissibile. Il Giudice per le Indagini Preliminari, invero, ha rigettato la richiesta di revoca della misura in quanto negli atti non era presente l’interrogatorio cui nel frattempo il ricorrente si era sottoposto. Il Tribunale del Riesame, invece, ha accolto l’appello, proprio in ragione della valutazione di tale interrogatorio e dei documenti che erano stati in tale sede acquisiti. Ciò premesso, il ricorrente, nel sostenere che la protrazione della detenzione fra la decisione del Giudice per le Indagini Preliminari e quella del Tribunale del Riesame avrebbe dovuto essere dichiarata ingiusta e indennizzata, non ha assolto all’onere su di lui incombente di dimostrare che la documentazione presa in considerazione dal Tribunale del Riesame era già stata messa a disposizione del primo Giudice. Il motivo, dunque, sotto tale profilo, non è autosufficiente (sez. 4, n.46979 del 10/11/2015, COGNOME, Rv. 265053; sez. 2, n. 20677 del 11/04/2017, COGNOME, Rv. 27007; Sez. 5, n. 5897 del 03/12/2020, dep. 2021, Cossu, Rv. 280419).
Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta GLYPH il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.