Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 15233 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 15233 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 09/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a CASAGIOVE il 18/08/1958
avverso l’ordinanza del 12/09/2024 della CORTE APPELLO di NAPOLI
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME lette le conclusioni del PG
RITENUTO IN FATTO
Con l’ ordinanza in epigrafe la Corte d’appello di Napoli ha rigettato la domanda formulata da COGNOME NOME per la liquidazione dell’equa riparazione dovuta ad ingiusta sottoposizione a misura cautelare privativa della libertà personale sofferta dal 26 maggio 2008 al 12 giugno 2012 in custodia in carcere fino alla sentenza di assoluzione pronunciata dal Tribunale di Santa Mari Capua Vetere per il reato di cui al capo T ( 629 bis cod.pen.) per non a commesso il fatto e dalla Corte di appello di Napoli in data 19.06.201 anche per il reato associativo di cui al capo A ,per non aver commesso fatto. La misura cautelare e la contestazione riguardava l’aver, qu infermiere dell’Ospedale Moscati di Aversa, messo la propria attività disposizione del latitante NOME e per questa via, attraver contatti con altri sodali, di partecipare al clan dei casalesi.
L’ordinanza impugnata riferisce che il compendio indiziario, costituito principalmente dagli esiti delle attività di intercettazione, sebbene non è stato valutato idoneo ad affermare la penale responsabilità, era sintomatico di rapporti e frequentazioni di fiducia con il boss latitante COGNOME e anche con altri sodali di spicco, perciò tale da integrare colpa grave, idonea a inibire la riparazione concorrendo alla formazione dell’errore del giudice della cautela.
Tanto premesso, la Corte territoriale ha ritenuto sussistente la colpa grave dell’interessato ai sensi dell’art. 314, comma i, cod. proc. pen.
Per mezzo dei propri difensori, muniti di procura speciale, COGNOME NOME ha proposto ricorso contro l’ordinanza di rigetto, lamentando erronea applicazione dell’art. 314 cod. proc. pen. e vizi di motivazione anche per travisamento della prova.
Il ricorrente osserva che chi esercita una professione sanitaria è tenuto a prestare assistenza a chi ne ha bisogno, specie quando vi siano rapporti amichevoli e familiari. COGNOME è risultato del tutto estraneo alla consorteria criminosa ( pag 34 sentenza di appello), non ha risposto ad un “appello” del clan dei casalesi ma ad una richiesta di intervento della famiglia di COGNOME NOME; in nessuna parte del compendio probatorio risulta che il COGNOME si fosse impegnato a prestare assistenza infermieristica costante al boss latitante. L’assistenza infermieristica è stata prestata in due occasioni. Anche l’attività prestata in favore di COGNOME sottoposto ad estorsione da altro componente del clan trova la sua giustificazione in un rapporto meramente amichevole e familiare. Lamenta che il Giudice della riparazione confonde e travisa un rapporto di conoscenza e un rapporto di amicizia
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familiare come indice di un’appartenenza o contiguità ad una associazione criminosa. Rileva che, poiché questo dato della conoscenza familiare era evidente, il comportamento dell’imputato non può essere ritenuto causale rispetto alla adozione di una misura che era ab origine mancante del necessario presupposto di gravità indiziaria
Nei termini di legge il Procuratore generale ha rassegnato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.
Ha presentato conclusioni scritte per il tramite dell’Avvocatura dello stato il Ministero resistente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
Va premesso che, per giurisprudenza consolidata, il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è connotato da totale autonomia rispetto al giudizio penale, perché ha lo scopo di valutare se l’imputato, con una condotta gravemente negligente o imprudente, abbia colposamente indotto in inganno il giudice in relazione alla sussistenza dei presupposti per l’adozione di una misura cautelare. Ai fini dell’esistenza del diritto all’indennizzo, peraltro, può anche prescindersi dalla sussistenza di un “errore giudiziario”, venendo in considerazione soltanto l’antinomia strutturale tra custodia e assoluzione, o quella funzionale tra durata della custodia ed eventuale misura della pena; con la conseguenza che, in tanto la privazione della libertà personale potrà considerarsi “ingiusta”, in quanto l’incolpato non vi abbia dato o concorso a darvi causa attraverso una condotta dolosa o gravemente colposa, giacché, altrimenti, l’indennizzo verrebbe a perdere ineluttabilmente la propria funzione riparatoria, dissolvendo la ratio solidaristica che è alla base dell’istituto. (così Sez. U., n. 51779 del 28/11/2013, Nicosia, Rv. 257606). Si tratta di una valutazione che va effettuata ex ante, ricalca quella eseguita al momento dell’emissione del provvedimento restrittivo, ed è volta a verificare: in primo luogo, se dal quadro indiziario a disposizione del giudice della cautela potesse desumersi l’apparenza della fondatezza delle accuse, pur successivamente smentita dall’esito del giudizio; in secondo luogo, se a questa apparenza abbia contribuito il comportamento extraprocessuale e processuale tenuto dal ricorrente (cfr. Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, COGNOME, Rv. 247663).
Nell’esaminare il provvedimento impugnato e i motivi di ricorso si deve preliminarmente ribadire che vi è totale autonomia tra il giudizio penale e il successivo giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione. Tale autonomia è
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stata più volte sottolineata dalla giurisprudenza di legittimità e non solo dalle sentenze delle Sezioni Unite sopra richiamate. Si è affermato in proposito:
che «il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è del tutto autonomo rispetto al giudizio penale di cognizione, impegnando piani di indagine diversi e che possono portare a conclusioni del tutto differenti sulla base dello stesso materiale probatorio acquisito agli atti, ma sottoposto ad un vaglio caratterizzato dall’utilizzo di parametri di valutazione differenti» (Sez. 4, n. 39500 del 18/06/2013, COGNOME, Rv. 256764);
che «in tema di riparazione per ingiusta detenzione il giudice di merito, per stabilire se chi l’ha patita vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve valutare tutti gli elementi probatori disponibili, al fine di stabilire, con valutazione “ex ante” -e secondo un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito – non se tale condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale» (Sez. 4, Sentenza n. 3359 del 22/09/2016, dep.2017, COGNOME, Rv. 268952);
che «nel giudizio avente ad oggetto la riparazione per ingiusta detenzione, ai fini dell’accertamento della condizione ostativa del dolo o della colpa grave, può darsi rilievo agli stessi fatti accertati nel giudizio penale di cognizione, senza che rilevi che quest’ultimo si sia definito con l’assoluzione dell’imputato sulla base degli stessi elementi posti a fondamento del provvedimento applicativo della misura cautelare, trattandosi di un’evenienza fisiologicamente correlata alle diverse regole di giudizio applicabili nella fase cautelare e in quella di merito, valendo soltanto in quest’ultima il criterio dell’aldilà di ogni ragionevole dubbio» (Sez. 4, n. 2145 del 13/01/2021, COGNOME, Rv. 280246; nello stesso senso, Sez. 4, n. 34438 del 02/07/2019, Messina, Rv. 276859).
L’affermazione secondo cui, nell’escludere il diritto alla riparazione per la ritenuta sussistenza di un comportamento doloso o gravemente colposo che abbia “dato causa” (o concorso a dar causa) alla privazione della libertà personale, il giudice della riparazione deve attenersi a dati di fatto «accertati o non negati» nel giudizio di merito (Sez. U n. 43 del 13/12/1995 – dep. 1996, COGNOME, Rv. 203636) è coerente con questi principi. L’ autonomia tra i due giudizi, infatti, esclude che il dolo o la colpa grave possano essere desunti da condotte che la sentenza di assoluzione abbia ritenuto non sussistenti o non sufficientemente provate (Sez. 4, n. 46469 del 14/09/2018, COGNOME, Rv. 274350; Sez. 4, n. 21598 del 15/4/2014, COGNOME, non mass.; Sez. 4, n. 1573 del 18/12/1993, dep. 1994, COGNOME, Rv. 198491).
Proprio perché i due giudizi sono autonomi, tuttavia, il giudice della riparazione deve valutare autonomamente le emergenze processuali e tale valutazione, che deve essere compiuta “ex ante”, non può ignorare il quadro indiziario complessivamente emerso all’esito del giudizio, pur valutato inidoneo all’affermazione della penale responsabilità.
4. La motivazione del provvedimento impugnato sviluppa, sotto il profilo logico, un ragionamento esaustivo e coerente con queste premesse, non contraddittorio e scevro dai vizi che gli vengono addebitati. La Corte territoriale ricorda, infatti, che il ricorrente fu sottoposto alla misura cautelare perché le intercettazioni rendevano palesi e assidui i suoi rapporti di assistenza infermieristica con lo COGNOME, latitante, ed era consapevole dello stato di latitanza e dell’entità del “favore” che stava facendo oltre che del rischio connesso, anche perché i medicinali se li procurava sottraendoli illecitamente in ospedale ( fol 5)..
La Corte territoriale ha evidenziato anche l’altra condotta fortemente ambigua costituita dall’intervento di COGNOME presso il latitante COGNOME e altro sodale del clan casalesi, COGNOME NOME, per far cessare condotte estorsive nei confronti di certo COGNOME NOME, da parte di un affiliato del clan, NOME Giuseppe.
Risultava inoltre che il clan dei casalesi aveva cercato di coinvolgere COGNOME, quale soggetto di fiducia, nel settore delle estorsioni realizzate mediante la imposizione ai commercianti di gadget pubblicitari e che il ricorrente non aveva accettato l’offerta.
La Corte ha argomentato che, l’essere stato il COGNOME infermiere personale a disposizione del boss latitante COGNOME, in rapporti con quest’ultimo familiari e di fiducia tali da poter colloquiare direttamente con lui e con le altre figure di spicco del clan, svolgendo anche il ruolo di intermediario in una vicenda di estorsione patita da COGNOME e ricevendo offerte di far parte della schiera dei ” ragazzi ” che imponevano ai commercianti l’acquisto di gadget pubblicitari, costituivano condotte che hanno assunto efficacia certamente causale rispetto all’applicazione della misura, in quanto caratterizzate da grave imprudenza e perciò ostative al riconoscimento del diritto all’indennizzo. La Corte territoriale si è allineata agli insegnamenti di questa Corte di legittimità sulla valutazione dell’ambiguità delle condotte emerse in fase di indagini preliminari quale fattore condizionante l’errore dell’autorità giudiziaria. In generale, infatti, l frequentazioni ambigue con coloro che fanno parte di una consorteria dedita a traffici illeciti, che siano idonee ad essere oggettivamente interpretate come complicità, sono segni certamente sufficienti a creare la falsa rappresentazione del reato posta a fondamento del provvedimento cautelare. Si tratta, invero, di condotte che, per la loro prossimità all’ambiente criminale, possono facilmente indurre l’apparenza della partecipazione al reato (nel caso di specie, al reato
associativo) e dunque di condotte che, in quanto macroscopicamente imprudenti e causalmente connesse con la decisione adottata nei confronti dell’interessato,
ben possono essere inquadrate nella colpa grave.
Le argomentazioni della Corte territoriale sul punto appaiono pienamente conformi al principio di autoresponsabilità, più volte richiamato in materia dalla
giurisprudenza di legittimità, in ragione del quale la regola solidaristica sottesa al diritto all’equa riparazione, non può essere invocata in presenza di una condotta
volta alla realizzazione di un evento voluto confliggente con una prescrizione di legge, ma neppure a fronte di una condotta consapevole che – valutata dal giudice
della riparazione secondo le ordinarie regole di esperienza – sia tale da creare una situazione di allarme sociale che imponga l’intervento dell’autorità giudiziaria. È
pertanto, in questo senso, gravemente colposo quel comportamento che, pur non integrando il reato, ponga in essere – per grave negligenza, imprudenza,
trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari – una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento
dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso (cfr. Sez. U, n. 43 del 13/12/1995, dep. 1996, COGNOME, Rv. 203637).
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
5.1. Non si ritiene di dover procedere alla liquidazione delle spese sostenute dal Ministero resistente. La memoria’ depositata, infatti, si limita a riportare principi giurisprudenziali in materia di riparazione per ingiusta detenzione senza confrontarsi con i motivi di ricorso, sicché non può dirsi che l’Avvocatura dello Stato abbia effettivamente esplicato, nei modi e nei limiti consentiti, un’attività diretta a contrastare la pretesa del ricorrente (Sez. 4 n. 26952 del 20/06/2024 Cc. (dep. 09/07/2024 ) Rv. 286737 – 01; sull’argomento, con riferimento alle spese sostenute nel giudizio di legittimità dalla parte civile, da ultimo, Sez. U, n. 877 del 14/07/2022 dep. 2023, COGNOME, Rv. 283886; Sez. U, n. 5466, del 28/01/2004, Gallo, Rv. 226716; Sez.4, n. 36535 del 15/09/2021, A., Rv. 281923; Sez.3, n. 27987 del 24/03/2021, G., Rv. 281713).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Nulla per le spese in favore del Ministero resistente. Cosi deciso il 9.04.2025