Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 25920 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 25920 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 30/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME NOME SOAVE il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 13/06/2023 della CORTE APPELLO di MILANO
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del PG che ha chiesto il rigetto del ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza in data 13 giugno 2023, la Corte di appello di Milano ha respinto la domanda formulata da NOME COGNOME, volta ad ottenere la liquidazione dell’equa riparazione per l’ingiusta privazione della libertà personale subìta dal 18 maggio 2018 al 10 ottobre 2019 (in carcere dal 18 maggio 2018 al 25 maggio 2019, agli arresti domiciliari dal 26 maggio al 1° ottobre 2019).
La misura cautelare fu disposta dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano per la ritenuta sussistenza di gravi indizi GLYPH dei reati di peculato, arresto illegale, calunnia, falso, detenzione illecita di stupefacenti e abuso di ufficio; reati che COGNOME – sottoufficiale in forza presso la Compagnia Carabinieri di Cassano d’Adda – avrebbe commesso (in concorso con NOME COGNOME e col AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO) in occasione di arresti in flagranza per violazioni dell’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 eseguiti il 19 aprile 2016, il 21 giugno 2016, il 12 settembre 2016 e il 12 agosto 2017.
Secondo l’ipotesi accusatoria, in occasione dell’arresto del 21 giugno 2016, COGNOME, unitamente agli altri militari sottoscrittori dei verbali di arres perquisizione e sequestro, avrebbe attestato il falso, sia riguardo alla descrizione di ciò che era avvenuto, sia riguardo alle modalità di rinvenimento di una parte della sostanza stupefacente sequestrata, sia quanto all’esito della perquisizione e alla quantità di denaro rinvenuta in occasione della stessa (che gli operanti avrebbero indicato in misura inferiore a quella effettiva per impossessarsi della somma residua). Con riferimento agli arresti del 18 aprile 2016, 12 settembre 2016 e 12 agosto 2017, il quadro indiziario era riferito al reato di peculato e alla falsità dei verbali di perquisizione e sequestro, nei quali era stato attestato i rinvenimento di una somma contante inferiore a quella effettivamente detenuta dall’arrestato.
NOME COGNOME è stato assolto da tutte le imputazioni a lui ascritte con sentenza del Tribunale di Milano del 10 ottobre 2019. L’assoluzione è stata pronunciata «per non aver commesso il fatto» dalle imputazioni relative all’arresto del 12 settembre 2016 (per le quali NOME COGNOME ha riportato condanna) e «perché il fatto non sussiste» da tutte le altre imputazioni. La sentenza del Tribunale è stata confermata dalla Corte di appello di Milano il 14 giugno 2021 e la decisione è divenuta irrevocabile il 27 novembre 2021.
Il 16 maggio 2022 NOME ha chiesto la liquidazione dell’equa riparazione per l’ingiusta privazione della libertà personale.
La richiesta è stata respinta dalla Corte di appello con l’ordinanza oggi impugnata. La Corte territoriale ha osservato che, nel giudizio di cognizione, è emersa l’esistenza di una prassi in base alla quale i verbali di perquisizione e sequestro erano predisposti utilizzando come base verbali precedenti e che lo stesso COGNOME ha dichiarato di aver firmato i verbali predisposti dai colleghi senza neppure leggerli. Ha sottolineato inoltre che, in sede di cognizione, è stata accertata la non corrispondenza al vero di alcuni dei verbali firmati da COGNOME e, tra questi, del verbale di perquisizione e sequestro relativo all’arresto di NOME COGNOME (eseguito il 12 agosto 2017) che era stato proprio COGNOME a redigere. Secondo la Corte di appello, tale falsità – considerata frutto di errore dai giudici della cognizione – ebbe un ruolo sinergico nell’applicazione della misura cautelare perché forniva riscontro alle dichiarazioni rese da COGNOME, il quale sosteneva che la somma rinvenuta nella perquisizione eseguita presso la sua abitazione era superiore a quella che risultava dal verbale. L’ordinanza impugnata ha ritenuto che queste condotte, complessivamente valutate, fossero gravemente colpose e pertanto ostative al riconoscimento del diritto all’indennizzo.
Contro l’ordinanza della Corte di appello di Milano, NOME ha proposto tempestivo ricorso per mezzo del difensore.
Il ricorrente deduce violazione dell’art. 314 cod. proc. pen. per essere state ritenute gravemente colpose condotte che possono essere considerate tutt’al più disattente. La difesa rileva che la colpa può essere valutata grave quando vi è una divergenza macroscopica tra il comportamento imposto dalla regola cautelare e il comportamento tenuto e così non è nel caso di specie. Sottolinea, inoltre, che il giudice della riparazione non può escludere il diritto all’indennizzo sulla base di fatti che nel giudizio di cognizione sono stati esclusi o ritenuti non provati.
A questo proposito osserva:
quanto ai verbali relativi all’arresto del 21 giugno 2016, che le anomalie accertate dai giudici della cognizione si esauriscono in un «disallineamento temporale tra l’inizio dell’effettiva partecipazione del COGNOME all’operazione di polizia e la rappresentazione che ne è stata data nel verbale di arresto»;
che la presenza di imprecisioni, superficialità ed errori non consente di ipotizzare un comportamento gravemente negligente tanto più in presenza di verbali redatti in forma riassuntiva ai sensi dell’art. 134, comma 2, cod. proc. pen. (circostanza valorizzata dalle sentenze di assoluzione);
che il giudizio di cognizione ha escluso la consapevole attestazione di circostanze contrarie al vero da parte di COGNOME;
che i falsi contestati sono stati ritenuti non sussistenti;
che, secondo i giudici della cognizione, l’errore nella indicazione della somma sequestrata a COGNOME può essere ricollegato all’utilizzo, come modello, di un altro verbale di sequestro e ad una compilazione frettolosa, ma non si tratta di un falso;
che tale errore non era idoneo a riscontrare le dichiarazioni di COGNOME, perché si sarebbe dovuto tenere conto che egli era stato arrestato da NOME COGNOME e NOME COGNOME ed era stato condanNOME a una pena elevata (aveva quindi motivi di ostilità nei loro confronti), sicché quelle dichiarazioni avrebbero dovuto essere valutate con particolare cautela;
che l’ordinanza impugnata fa generico riferimento a contraddizioni esistenti negli interrogatori resi da COGNOME e dai coimputati, ma non spiega in cosa queste contraddizioni si sarebbero manifestate;
che, fin dal primo interrogatorio reso al PM, COGNOME ha sempre sostenuto la correttezza del proprio operato e tale correttezza è stata riconosciuta con l’assoluzione;
che anche NOME COGNOME, imputato a titolo di concorso con COGNOME, ha avanzato istanza per la riparazione dell’ingiusta privazione della libertà personale patita e l’ordinanza con la quale tale istanza è stata respinta è stata annullata da questa Corte di legittimità con sentenza del 13 febbraio 2024.
Il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte; chiedendo il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
Si deve premettere che, per giurisprudenza consolidata, il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è connotato da totale autonomia rispetto al giudizio penale, perché ha lo scopo di valutare se l’imputato, con una condotta gravemente negligente o imprudente, abbia colposamente indotto in inganno il giudice in relazione alla sussistenza dei presupposti per l’adozione di una misura cautelare. Ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo può anche prescindersi dalla sussistenza di un “errore giudiziario”, venendo in
considerazione soltanto l’antinomia strutturale tra custodia e assoluzione, o quella funzionale tra durata della custodia ed eventuale misura della pena; con la conseguenza che, in tanto la privazione della libertà personale potrà considerarsi “ingiusta”, in quanto l’incolpato non vi abbia dato o concorso a darvi causa attraverso una condotta dolosa o gravemente colposa, giacché, altrimenti, l’indennizzo verrebbe a perdere ineluttabilmente la propria funzione riparatoria, dissolvendo la ratio solidaristica che è alla base dell’istituto (così Sez. U., n. 51779 del 28/11/2013, Nicosia, Rv. 257606).
Nell’esaminare il provvedimento impugNOME e i motivi di ricorso si deve preliminarmente ribadire che vi è totale autonomia tra il giudizio penale e il successivo giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione.
Tale autonomia è stata più volte sottolineata dalla giurisprudenza di legittimità (per tutte: Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, COGNOME, Rv. 247663). Si è affermato in proposito:
che «il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è del tutto autonomo rispetto al giudizio penale di cognizione, impegnando piani di indagine diversi e che possono portare a conclusioni del tutto differenti sulla base dello stesso materiale probatorio acquisito agli atti, ma sottoposto ad un vaglio caratterizzato dall’utilizzo di parametri di valutazione differenti» (Sez. 4, n. 39500 del 18/06/2013, Trombetta, Rv. 256764);
che «in tema di riparazione per ingiusta detenzione il giudice di merito, per stabilire se chi l’ha patita vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve valutare tutti gli elementi probatori disponibili, al fine di stabilire, con valutazione “ex ante” e secondo un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito – non se tale condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale» (Sez. 4, n. 3359 del 22/09/2016, dep.2017, La Fornara, Rv. 268952);
che «nel giudizio avente ad oggetto la riparazione per ingiusta detenzione, ai fini dell’accertamento della condizione ostativa del dolo o della colpa grave, può darsi rilievo agli stessi fatti accertati nel giudizio penale di cognizione, senza che rilevi che quest’ultimo si sia definito con l’assoluzione dell’imputato sulla base degli stessi elementi posti a fondamento del provvedimento applicativo della misura cautelare, trattandosi di un’evenienza fisiologicamente correlata alle diverse regole di giudizio applicabili nella fase cautelare e in quella di merito, valendo soltanto in quest’ultima il criterio dell’aldilà di ogni ragionevole dubbio»
(Sez. 4, n. 2145 del 13/01/2021, COGNOME, Rv. 280246; nello stesso senso, Sez. 4, n. 34438 del 02/07/2019, COGNOME, Rv. 276859).
L’affermazione secondo cui, nell’escludere il diritto alla riparazione per la ritenuta sussistenza di un comportamento doloso o gravemente colposo che abbia “dato causa” (o concorso a dar causa) alla privazione della libertà personale, il giudice della riparazione deve attenersi a dati di fatto «accertati o non negati» nel giudizio di merito (Sez. U n. 43 del 13/12/1995 – dep. 1996, COGNOME, Rv. 203636) è coerente con questi principi. L’ autonomia tra i due giudizi, infatti, esclude che il dolo o la colpa grave possano essere desunti da condotte che la sentenza di assoluzione abbia ritenuto non sussistenti o non sufficientemente provate (Sez. 4, n. 46469 del 14/09/2018, COGNOME, Rv. 274350; Sez. 4, n. 21598 del 15/4/2014, COGNOME, non mass.; Sez. 4, n. 1573 del 18/12/1993, dep. 1994, COGNOME, Rv. 198491). Proprio perché i due giudizi sono autonomi, tuttavia, il giudice della riparazione deve valutare autonomamente le emergenze processuali e tale valutazione, che deve essere compiuta “ex ante”, non può ignorare il quadro indiziario complessivamente emerso all’esito del giudizio, pur valutato inidoneo all’affermazione della penale responsabilità.
Nel caso di specie, l’ordinanza impugnata ha individuato quali condotte ostative al riconoscimento del diritto alcune difformità tra quanto realmente avvenuto e il contenuto di atti sottoscritti da COGNOME o da lui personalmente predisposti.
L’ordinanza puntualizza che si tratta di difformità accertate nel giudizio di cognizione e osserva:
quanto ai verbali di arresto perquisizione e sequestro del 21 giugno 2016, che, sulla base del contenuto di quegli atti, il NOME COGNOME sarebbe stato presente durante tutta la durata dell’operazione di polizia conclusa con l’arresto di NOME COGNOME, ma è stato accertato in giudizio che egli sopraggiunse dopo circa tre ore;
quanto al verbale di sequestro del 12 agosto 2017 a carico di NOME COGNOME, che l’elenco delle monete e banconote sequestrate contenute in quel verbale portava ad un totale di C 5.003, ma il totale indicato nella prima pagina del verbale di sequestro era di C 2.733, e ciò rendeva attendibili le dichiarazioni rese da COGNOME, secondo le quali nella sua abitazione erano custoditi circa 5.000 euro.
Più in generale, l’ordinanza sottolinea (pag. 5): che il processo ha restituito uno «sconsolante panorama» di approssimazione nella redazione degli atti; che, secondo quanto accertato, i verbali di arresto, perquisizione e sequestro
venivano predisposti utilizzando verbali di precedenti operazioni e modificandoli senza neppure rileggerli con attenzione; che NOME ha ammesso di aver firmato alcuni verbali predisposti da altri senza neppure averli letti e ha ricondotto a disattenzione le anomalie riscontrate nei verbali da lui redatti.
La Corte di appello riferisce che i reati ascritti a COGNOME sono stati ritenuti non sussistenti perché le anomalie riscontrate nei verbali sono state considerate frutto di errore e valutate inidonee ad influire sul contenuto essenziale dell’atto. Osserva che, nel caso del sequestro a carico di COGNOME, i giudici della cognizione hanno ritenuto che l’errore fosse grossolano, il falso immediatamente percepibile e perciò privo di attitudine inganNOMEria, ma hanno riconosciuto che il verbale non conteneva una elencazione fedele delle monete e banconote sottoposte a sequestro.
Muovendo da queste premesse, l’ordinanza impugnata sostiene che le approssimative modalità di redazione dei verbali e le disattenzioni accertate nel corso del giudizio integrano colpa grave perché si tratta di condotte negligenti, imprudenti e non conformi ai doveri d’ufficio. Sottolinea, inoltre, che l’accertata divergenza tra quanto avvenuto e quanto attestato in verbali di atti irripetibili ebbe un ruolo sinergico nella adozione della misura cautelare perché portò a ritenere attendibili le denunce sporte da coloro che sostenevano di aver subito il sequestro dì somme maggiori rispetto a quelle indicate nei verbali. Con specifico riferimento all’arresto del 18 aprile 2016, l’ordinanza osserva che, come è stato accertato in giudizio, ad NOME COGNOME NOME fu realmente sequestrata una somma superiore a quella riportata nel verbale (1800 euro e non 180 euro) e COGNOME è stato assolto dalle relative imputazioni (delle quali è stato invece ritenuto responsabile il AVV_NOTAIO) per non aver commesso il fatto. La Corte territoriale sottolinea che, nel corso del giudizio, COGNOME ha dichiarato di aver sottoscritto il verbale predisposto da COGNOME senza neppure leggerlo (aveva dichiarato in precedenza di essersi limitato a una lettura superficiale) e sostiene che tale comportamento è gravemente colposo perché non conforme ai doveri propri di un ufficiale di Polizia Giudiziaria. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Secondo l’ordinanza impugnata (pagg. 9 e 10), in più occasioni, COGNOME contribuì, «direttamente o semplicemente attraverso la sottoscrizione, a dare contezza di una rappresentazione dei fatti diversa dalla realtà» e tale condotta, accertata in giudizio, pur non integrando estremi di reato ) è gravemente colposa perché si tratta di una «macroscopica negligenza», idonea a minare «la credibilità di atti dotati di una ben precisa funzione probatoria».
Nel contrastare tali conclusioni la difesa osserva che le divergenze
accertate tra quanto realmente avvenuto e quanto documentato nei verbali erano così marginali da non incidere sul contenuto degli atti. Sostiene che tali imprecisioni non potevano determinare un quadro di apparenza indiziaria e l’applicazione della misura cautelare fu resa possibile solo dalle dichiarazioni delle presunte persone offese nella quasi totalità dei casi valutate inattendibili dal Tribunale. L’argomentazione non coglie nel segno essendo evidente che le anomalie verificate costituivano riscontro alle dichiarazioni dei testimoni, risultate inattendibili solo all’esito dell’istruttoria dibattimentale.
5.1. Sotto diverso profilo, la difesa osserva che le superficialità e imprecisioni accertate non possono considerarsi frutto di colpaatteso che – come i giudici della cognizione hanno sottolineato – tutti i verbali asseritamente falsi furono redatti in forma riassuntiva ai sensi dell’art. 134, comma 2, cod. proc. pen.: erano dunque fisiologicamente imprecisi nella narrazione di alcuni dettagli.
Si obietta in proposito che – come l’ordinanza impugnata ha sottolineato tra le anomalie riscontrate negli atti redatti o sottoscritti da COGNOME ve ne erano alcune (in particolare, quelle relative alla presenza di uno o più operanti al compimento di determinati atti o all’entità delle somme sequestrate) che potevano assumere rilevanza nella ricostruzione del quadro probatorio acquisito a carico degli arrestati e nelle deliberazioni che l’autorità giudiziaria doveva adottare sicché, nel rispetto dei doveri d’ufficio, pur nell’ambito di un verbale redatto in forma riassuntiva, l’indicazione di quelle circostanze avrebbe dovuto avvenire quanto più fedelmente possibile.
A ciò deve aggiungersi che nessun profilo di contraddittorietà o manifesta illogicità può essere ravvisato nell’aver ritenuto negligente, imprudente e non conforme ai doveri di un pubblico ufficiale la scelta di sottoscrivere, senza neppure leggerli, i verbali da altri predisposti o di redigere verbali utilizzando modelli preesistenti senza rileggerli. La rilettura, infatti, costituisce una regola di comune cautela volta proprio ad evitare errori o refusi.
La difesa contesta la gravità della colpa sottolineando che il discostamento dalla realtà dei fatti come attestati nei verbali fu marginale, ma l’argomento non ha pregio. La gravità della colpa, infatti, deve essere valutata avendo riguardo al discostamento tra la condotta tenuta e la condotta doverosa. Nel caso di specie, dunque, la colpa potrebbe essere considerata lieve se le disattenzioni evidenziate fossero avvenute per difficoltà contingenti pur in presenza di modalità operative idonee a garantire la corretta compilazione degli atti. Nel giudizio di cognizione è emerso, invece, che, per prassi, i verbali venivano redatti utilizzando come modello verbali preesistenti e, dunque, le
modalità operative prescelte erano inidonee ad evitare gli errori che in concreto si verificarono. I comportamenti cui l’ordinanza impugnata fa riferimento appaiono caratterizzati da spiccata leggerezza e macroscopica trascuratezza e non è illogico aver ritenuto la grossolanità degli errori evidenziata dai giudici della cognizione per escludere la sussistenza dei falsi quale indice del carattere gravemente colposo delle condotte accertate. Ed invero, la grossolana predisposizione di verbali di arresto o sequestro e la sottoscrizione di quei verbali senza previa rilettura costituiscono gravi violazioni di un dovere di diligenza strettamente connesso alla funzione che i verbali degli atti di Polizia Giudiziaria sono destinati a svolgere nel processo e alla corretta esecuzione dell’attività istituzionale affidata a coloro che li redigono. A ciò deve aggiungersi che il mancato rispetto di questo dovere di diligenza esponeva COGNOME e i suoi colleghi alle rivalse dei soggetti interessati. Era pertanto prevedibile che un tale comportamento colposo potesse essere fonte di allarme sociale e determinare l’intervento dell’autorità giudiziaria.
7. L’ordinanza impugnata ha fatto buon governo del principio di autoresponsabilità, più volte richiamato dalla giurisprudenza di questa Corte nell’applicare l’art. 314 comma 1 cod. proc. pen. Come è stato osservato, infatti, la regola solidaristica sottesa al diritto all’equa riparazione, non può essere invocata in presenza di una condotta volta alla realizzazione di un evento voluto confliggente con una prescrizione di legge, ma neppure a fronte di una condotta consapevole che – valutata dal giudice della riparazione secondo le ordinarie regole di esperienza – pur non integrando estremi di reato, determini – per grave negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari – una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso (cfr. Sez. U, n. 43 del 13/12/1995, dep. 1996, COGNOME, Rv. 203637).
Non rileva in contrario che altra ordinanza, pronunciata con riferimento alla posizione di NOME COGNOME, sia stata annullata da questa Corte, atteso che si tratta di procedimenti diversi. A questo proposito basta osservare che non è noto quale fosse il tenore delle motivazioni dell’ordinanza con la quale la richiesta avanzata da COGNOME è stata respinta e che, nel giudizio per la riparazione della ingiusta privazione della libertà personale, le valutazioni sull’esistenza della colpa ostativa sono necessariamente connesse alla posizione soggettiva del richiedente.
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Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 30 maggio 2024
Il Consigligre estensore
Il Presidente/