Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 44333 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 44333 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 12/11/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME COGNOME nato a BENEVENTO il 09/09/1982 COGNOME NOME nato a BENEVENTO il 29/06/1984 COGNOME NOME nata a CAUTANO il 13/04/1961
avverso l’ordinanza del 28/06/2024 della CORTE APP.SEZ.COGNOME di NAPOLI udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del PG, che ha chiesto il rigetto dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza dell’Il maggio 2024 (depositata il 28 giugno 2024) la Corte di appello di Napoli ha respinto la domanda formulata da NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME per la liquidazione dell’equa riparazione dovuta ad ingiusta sottoposizione a misura cautelare privativa della libertà personale.
La misura cautelare fu disposta dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Benevento con ordinanza del 25 marzo 2013, eseguita il 2 aprile 2013. Fu applicata a NOME COGNOME e NOME COGNOME la custodia in carcere; la loro madre, NOME COGNOME, fu sottoposta agli arresti domiciliari.
Il G.i.p. ritenne sussistente un grave quadro indiziario in relazione al reato di cui agli artt. 416, commi 1, 2, 5 e 353 cod. pen. del quale, per quanto qui rileva, furono chiamati a rispondere: NOME COGNOME quale diretto collaboratore del padre NOME COGNOME (amministratore di fatto di tutte le imprese riferibili alla famiglia); NOME COGNOME quale titolare e direttore tecnico della «RAGIONE_SOCIALE»; NOME COGNOME, quale titolare della «RAGIONE_SOCIALE». Secondo l’ipotesi accusatoria NOME COGNOME era, insieme a NOME COGNOME direttore e coordinatore dell’associazione; NOME COGNOME e NOME COGNOME ne erano partecipi. Il sodalizio (del quale facevano parte più di dieci persone) era stabilmente dedito «alla ciclica turbativa di un numero imponente di gare di appalto» e finalizzato ad eludere «la libertà dei pubblici incanti nel settore edilizio ed urbanistico, nel territorio campano e molisano».
Nei confronti di NOME COGNOME e NOME COGNOME la misura cautelare fu disposta anche per violazioni degli artt. 110, 353 cod. pen.
Quanto a NOME COGNOME per aver concorso a turbare la libertà della gara relativa all’appalto pubblico per i lavori di sistemazione e risanamento idrogeologico del centro urbano del Comune di Pontelandolfo (capo M dell’imputazione provvisoria) e di quella relativa all’appalto bandito dal Comune di Pontelandolfo per i lavori di sistemazione, adeguamento e ripristino funzionale della strada comunale Marzilongo-COGNOME–COGNOME (capo O dell’imputazione provvisoria).
Quanto a NOME COGNOME e NOME COGNOME: per avere turbato, in concorso tra loro e con altri, la libertà della gara relativa all’appalto pubblico per manutenzione e sistemazione di INDIRIZZO NOME in INDIRIZZO del Comune di Arpaise (capo N dell’imputazione provvisoria).
Nel provvedimento della Corte di appello di Napoli si dà atto che, cori ordinanza del 15 aprile 2013, in sede di riesame del provvedimento del G.i.p., la misura cautelare fu revocata con riferimento ai reati di cui ai capi M) N) e O). Il Tribunale osservò: che i fatti erano stati commessi prima dell’entrata in vigore della legge 13 agosto 2010 n. 136 che ha portato a cinque anni di reclusione la
massima pena edittale prevista dall’art. 353; che la pena massima previgente era pari a due anni di reclusione; che, pertanto, la misura cautelare era stata applicata senza che sussistessero le condizioni previste dall’art. 280 cod. proc. pen. Fu confermata, invece, la sussistenza di un grave quadro indiziario e di esigenze cautelari in relazione al reato associativo. Il Tribunale del riesame sostituì la custodia in carcere con gli arresti domiciliari per NOME COGNOME e NOME COGNOME mantenne invece la misura domiciliare per NOME COGNOME. La privazione della libertà personale ebbe termine: il 30 settembre 2013 per NOME COGNOME; il 25 giugno 2013 per NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Con sentenza del Tribunale di Benevento del 16 maggio 2019, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME furono assolti da tutte le imputazioni loro ascritte «perché il fatto non sussiste». Questa decisione è divenuta irrevocabile il 16 ottobre 2019.
L’ordinanza impugnata ha ritenuto sussistente la colpa grave degli interessati ai sensi dell’art. 314, comma 1, cod. proc. pen. Ha sottolineato a tal fine che, secondo quanto emerso nel giudizio di merito:
v’era uno stretto collegamento tra le imprese commerciali gestite, di fatto o di diritto, da NOME COGNOME dai suoi figli, NOME COGNOME e NOME COGNOME e da altri imputati;
GLYPH NOME COGNOME Ciotta GLYPH (indicato GLYPH nell’imputazione GLYPH quale COGNOME promotore dell’associazione) era il titolare di fatto di tutte queste imprese e tutte erano gestite presso la sede della «RAGIONE_SOCIALE», ove era conservata la documentazione amministrativa, commerciale, gestionale e contabile di ciascuna impresa;
gli odierni istanti parteciparono contestualmente, con le rispettive imprese, a procedure di evidenza pubblica per l’assegnazione di appalti, ancorché si trattasse di imprese riferibili al medesimo gruppo familiare la cui gestione era stata centralizzata.
Secondo la Corte territoriale, agendo in tal modo, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME fecero sorgere la falsa apparenza dell’esistenza di una associazione a delinquere volta a turbare il regolare svolgimento di gare relative ad appalti pubblici. La Corte di appello ha individuato, inoltre, quale ulteriore profilo di colpa ascrivibile ai ricorrenti, il comportamento tenuto in sede di interrogatorio di garanzia ne corso del quale gli indagati si limitarono a dichiarare di aver presentato domanda di partecipazione alla gara per la propria impresa l’uno indipendentemente dall’altro e di non essersi neppure consultati tra loro negando così che le imprese di famiglia avessero un unico centro gestionale;
circostanza che è stata confermata, invece, nel giudizio di cognizione, pur conclusosi con pronuncia assolutoria.
Contro l’ordinanza della Corte di appello, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno proposto ricorso per mezzo del comune difensore. Con l’unico articolato motivo, i ricorrenti deducono violazione di legge e vizi di motivazione. In tesi difensiva, l’ordinanza impugnata avrebbe travisato le risultanze istruttorie e il contenuto letterale della sentenza di assoluzione.
Secondo la difesa, la condotta che la Corte di appello ha ritenuto storicamente accertata e ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo non sarebbe ascrivibile agli odierni ricorrenti perché era NOME COGNOME a gestire tutte le aziende riconducibili al gruppo familiare: era lui «l’imprenditore di fatto dietr ad ogni operazione delle varie società» (così testualmente pag. 8 dell’atto di ricorso).
La difesa osserva che, secondo la sentenza di assoluzione (pag. 19 e 20), la presenza di un «sostanziale collegamento» tra le diverse imprese che partecipavano alla stessa gara e la circostanza che questa situazione si sia ripetuta in più di una occasione non sono di per sé sufficienti «a sostenere la sussistenza dell’affectio societatis finalizzata al turbamento della regolarità delle gare con la presentazione di offerte coordinate stabilite da un unico centro decisionale». Secondo la medesima sentenza – sottolinea la difesa – non è «sufficiente a dimostrare l’esistenza del vincolo associativo la sussistenza di rapporti di parentela tra alcuni degli imputati e il loro succedersi all’interno delle compagini sociali». Gli elementi raccolti dall’accusa, inoltre, non sono stati ritenuti sufficienti «a dimostrare l’esistenza di un accordo collusivo tra le imprese sui contenuti delle offerte, con conseguente prova dell’effetto tossico sulla gara». Il difensore dei ricorrenti rileva che la sentenza definitiva di assoluzione non ha ritenuto raggiunta la prova della commissione dei reati scopo e che, per quanto riguarda le turbative d’asta ascritte agli odierni ricorrenti, gli appalti risultano essere stati aggiudicati ditte estranee al gruppo di imprese riconducibili alla famiglia COGNOME. Nel ricorso è trascritto il contenuto della sentenza di assoluzione (pag. 23) nella quale si legge: «pur essendo la turbativa d’asta un reato di pericolo, il compendio probatorio raccolto non consente di stabilire che le offerte presentate siano state determinate in modo tale da alterare il prezzo di aggiudicazione».
In sintesi, secondo la difesa, l’ordinanza impugnata ha «sovvertito» nella sostanza la decisione del Tribunale di Benevento e, solo per questo, ha potuto attribuire carattere gravemente colposo alla contestuale partecipazione di più imprese riconducibili alla famiglia COGNOME alle medesime gare di appalto. Questa
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contestuale partecipazione, infatti, non determinò per gli imputati alcun vantaggio e non risulta aver determinato l’alterazione delle offerte.
Quanto alle dichiarazioni rese dai ricorrenti in sede di interrogatorio di garanzia, la difesa osserva che non integra una ipotesi di dichiarazione mendace o menzognera la mera negazione della veridicità degli elementi di accusa o l’affermazione di estraneità agli addebiti e proprio questo è avvenuto nel caso di specie.
Nei termini di legge il Procuratore generale ha rassegnato conclusioni scritte chiedendo il rigetto dei ricorsi.
Con memoria in data 17 ottobre 2024, l’Avvocatura dello Stato ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità o, in subordine, il rigetto dei ricorsi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono infondati.
Si deve premettere che, per giurisprudenza consolidata, il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è connotato da totale autonomia rispetto al giudizio penale, perché ha lo scopo di valutare se l’imputato, con una condotta gravemente negligente o imprudente, abbia colposamente indotto in inganno il giudice in relazione all’esistenza dei presupposti per l’adozione di una misura cautelare. Ai fini di cui all’art. 314 cod. proc. pen. può anche prescindersi dalla sussistenza di un “errore giudiziario”, venendo in considerazione soltanto l’antinomia strutturale tra custodia e assoluzione, o quella funzionale tra durata della custodia ed eventuale misura della pena; con la conseguenza che, in tanto la privazione della libertà personale potrà considerarsi “ingiusta”, in quanto l’incolpato non vi abbia dato o concorso a darvi causa attraverso una condotta dolosa o gravemente colposa, giacché, altrimenti, l’indennizzo verrebbe a perdere ineluttabilmente la propria funzione riparatoria, dissolvendo la ratio solidaristica che è alla base dell’istituto (così Sez. U., n. 51779 del 28/11/2013, Nicosia, Rv. 257606).
La totale autonomia esistente tra il giudizio penale e il successivo giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è stata più volte sottolineata dalla giurisprudenza di legittimità (per tutte: Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, COGNOME, Rv. 247663). Si è affermato in proposito:
che «il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è del tutto autonomo rispetto al giudizio penale di cognizione, impegnando piani di indagine
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diversi e che possono portare a conclusioni del tutto differenti sulla base dello stesso materiale probatorio acquisito agli atti, ma sottoposto ad un vaglio caratterizzato dall’utilizzo di parametri di valutazione differenti» (Sez. 4, n. 39500 del 18/06/2013, COGNOME, Rv. 256764);
che «in tema di riparazione per ingiusta detenzione il giudice di merito, per stabilire se chi l’ha patita vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve valutare tutti gli elementi probatori disponibili, al fine di stabilire con valutazione “ex ante” e secondo un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito – non se tale condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale» (Sez. 4, Sentenza n. 3359 del 22/09/2016, dep.2017, COGNOME, Rv. 268952);
che «nel giudizio avente ad oggetto la riparazione per ingiusta detenzione, ai fini dell’accertamento della condizione ostativa del dolo o della colpa grave, può darsi rilievo agli stessi fatti accertati nel giudizio penale di cognizione, senza che rilevi che quest’ultimo si sia definito con l’assoluzione dell’imputato sulla base degli stessi elementi posti a fondamento del provvedimento applicativo della misura cautelare, trattandosi di un’evenienza fisiologicamente correlata alle diverse regole di giudizio applicabili nella fase cautelare e in quella di merito, valendo soltanto in quest’ultima il criterio dell’aldilà di ogni ragionevole dubbio» (Sez. 4′ n. 2145 del 13/01/2021, COGNOME, Rv. 280246; nello stesso senso, Sez. 4′ n. 34438 del 02/07/2019, Messina, Rv. 276859).
L’affermazione secondo cui, nell’escludere il diritto alla riparazione per la ritenuta sussistenza di un comportamento doloso o gravemente colposo che abbia “dato causa” (o concorso a dar causa) alla privazione della libertà personale, H giudice della riparazione deve attenersi a dati di fatto «accertati o non negati» nel giudizio di merito (Sez. U n. 43 del 13/12/1995 – dep. 1996, COGNOME, Rv. 203636) è coerente con questi principi. L’ autonomia tra i due giudizi, infatti, esclude che il dolo o la colpa grave possano essere desunti da condotte che la sentenza di assoluzione abbia ritenuto non sussistenti o non sufficientemente provate (Sez. 4, n. 46469 del 14/09/2018, COGNOME, Rv. 274350; Sez. 4, n. 21598 del 15/4/2014, COGNOME, non mass.; Sez. 4, n. 1573 del 18/12/1993, deo. 1994, COGNOME, Rv. 198491). Proprio perché i due giudizi sono autonomi, tuttavia, il giudice della riparazione deve valutare autonomamente le emergenze processuali e tale valutazione, che deve essere compiuta “ex ante”, non può ignorare il quadro indiziario complessivamente emerso all’esito del giudizio, pur valutato inidoneo all’affermazione della penale responsabilità.
4. Nel caso di specie, l’ordinanza impugnata ha individuato quali condotte ostative al riconoscimento del diritto la circostanza che, più di una volta, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME abbiano fatto partecipare ad una stessa gara di appalto le imprese delle quali erano titolari di fatto o di diritto, ponendole così in competizione in quella gara ancorché si trattasse di imprese riferibili ad un unico gruppo familiare, tutte gestite di fatto da NOME COGNOME. Secondo la Corte territoriale, a ciò deve aggiungersi che, in una situazione di accertato collegamento tra le imprese, gli indagati sostennero che ciascuno di loro aveva chiesto di partecipare alla gara per una diversa impresa di famiglia senza neppure consultarsi con gli altri e la falsità di queste dichiarazioni è stata confermata nel giudizio di cognizione, dal quale è emerso che tutte le imprese riferibili ai COGNOME erano gestite presso la sede della «RAGIONE_SOCIALE» e le decisioni operative venivano assunte da NOME COGNOME che era il titolare di fatto delle imprese di famiglia.
La motivazione non presenta profili di contraddittorietà o manifesta illogicità e si allinea agli insegnamenti di questa Corte sulla valutazione dell’ambiguità delle condotte emerse in fase di indagini preliminari quale fattore condizionante l’errore dell’autorità giudiziaria. Per contrastarla, la difesa si limita a ricordare che tutti ricorrenti sono stati assolti dalle imputazioni loro ascritte essendo stata escluse l’esistenza di un’associazione a delinquere finalizzata alla realizzazione di turbative d’asta e non essendo stata raggiunta la prova che le offerte contestualmente presentate avessero alterato il prezzo di aggiudicazione. Così argomentando, la, difesa trascura che la contestuale partecipazione alla medesima gara di più imprese appartenenti ad un unico gruppo familiare è stata accertata nel giudizio di cognizione e non spiega perché una tale condotta non sarebbe gravemente imprudente e tale da determinare la falsa apparenza dell’esistenza di una associazione a delinquere finallizzata a turbare la libertà degli incanti.
Le argomentazioni sviluppate dalla Corte di appello appaiono pienamente , conformi al principio di autoresponsabilità – più volte richiamato dalla giurisprudenza di legittimità nell’affrontare la materia – in ragione del quale la regola solidaristica sottesa al diritto all’equa riparazione, non può essere invocata in presenza di una condotta volta alla realizzazione di un evento voluto confliggente con una prescrizione di legge, ma neppure a fronte di una condotta consapevole che – valutata dal giudice della riparazione secondo le ordinarie regole di esperienza – sia tale da creare una situazione di allarme sociale che imponga l’intervento dell’autorità giudiziaria. È pertanto, in questo senso, gravemente colposo quel comportamento che, pur non integrando il reato, ponga in essere per grave negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari – una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi
nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso (cfr. Sez. U, n. 43 del 13/12/1995, dep. 1996, COGNOME, Rv. 203637).
Come si è detto, la Corte di appello ha negato il diritto all’indennizzo individuando, quale condotta caratterizzata da colpa grave (e perciò ostativa al riconoscimento di tale diritto), anche la scelta compiuta in sede di interrogatorio di garanzia dagli odierni ricorrenti, i quali sostennero di aver agito all’insaputa gli uni dagli altri senza neppure consultarsi tra loro. La Corte territoriale sottolinea che tali dichiarazioni sono incompatibili con quanto emerso dalle indagini e accertato nel giudizio di cognizione riguardo allo stretto collegamento esistente tra le imprese e all’unicità della struttura che le gestiva sotto il profilo amministrativo e contabile. Sostiene dunque che, nel caso di specie, gli indagati resero dichiarazioni mendaci e tale scelta contribuì a ingenerare la falsa apparenza di un accordo associativo. La difesa contrasta tali conclusioni limitandosi ad osservare, in termini apodittici, che gli imputati non mentirono, ma si dichiararono estranei agli addebiti.
5.1. Come noto, l’art. 314, comma 1, cod. proc. pen. è stato modificato dal d.lgs. 8 novembre 2021 n. 188. A seguito della riforma, «l’esercizio da parte dell’imputato della facoltà di cui all’articolo 64, comma 3, lettera b) , non incide sul diritto alla riparazione». Con questa norma, il legislatore ha stabilito che l’esercizio del diritto di difesa non può incidere sul diritto alla riparazione se si traduce nella scelta di avvalersi della facoltà di non rispondere, ma non ha escluso che possa rilevare in tal senso il mendacio. La riforma non impone, pertanto, di rivedere il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale il mendacio dell’indagato, pur costituendo esercizio del diritto di difesa, può rilevare sotto il profilo del dolo o della colpa grave ostativi al riconoscimento del diritto all’indennizzo (in tal senso, Sez. 4, n. 8615 del 08/02/2022, Z., Rv. 283017). Tale rilevanza, del resto, è stata opportunamente limitata a casi nei quali la scelta di mentire abbia avuto un ruolo causale nel determinare il sorgere o il permanere del quadro indiziario (Sez. 4, n. 47047 del 18/11/2008, COGNOME, 242759; Sez. 3, n. 29967 del 02/04/2014, COGNOME, Rv. 259941; Sez. 4, n. 46423 del 23/10/2015, COGNOME, Rv. 265287).
Nel caso di specie, gli indagati scelsero di rispondere, ma sostennero di aver agito l’uno all’insaputa dell’altro. Che tali dichiarazioni fossero mendaci emerge da un quadro indiziario non smentito dal giudizio di cognizione. Non è illogico, dunque (ed è conforme al citato principio di autoresponsabilità) aver ritenuto che la linea difensiva prescelta – pur legittimamente adottata – sia stata imprudente. Ed infatti, le dichiarazioni rese erano idonee a confermare l’esistenza tra gli indagati
di una comunione di interessi che andava al di là del vincolo familiare e, con essa, il valore indiziante degli elementi acquisiti.
6. Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Non si ritiene di dover procedere alla liquidazione delle spese sostenute dal Ministero resistente cui conseguirebbe la condanna dei ricorrenti alla rifusione delle stesse. La memoria depositata, infatti, si limita a riportare principi giurisprudenziali in materia di riparazione per ingiusta detenzione senza confrontarsi con í motivi di ricorso sicché non può dirsi che l’Avvocatura dello Stato abbia effettivamente esplicato, nei modi e nei limiti consentiti, un’attività diretta a contrastare la pretesa del ricorrente (sull’argomento, con riferimento alle spese sostenute nel giudizio di legittimità dalla parte civile, cfr. Sez. U, n. 877 del 14/07/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 283886; Sez. U., n. 5466, del 28/01/2004, Gallo, Rv. 226716; Sez. 4, n. 36535 del 15/09/2021, A., Rv. 281923,, Sez. 3, n. 27987 del 24/03/2021, G., Rv. 281713).
P.Q.M.
Rigetta i i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, Nulla sulle spese in favore del Ministero resistente
Cosi deciso il 12 novembre 2024