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Ingiusta detenzione: il silenzio non nega il risarcimento

Un uomo, assolto dall’accusa di narcotraffico dopo un lungo periodo di custodia cautelare, si è visto negare la riparazione per ingiusta detenzione perché durante l’interrogatorio non aveva confutato le accuse. La Corte di Cassazione ha annullato tale decisione, stabilendo che l’esercizio del diritto al silenzio, garantito dalla legge, non può essere considerato una condotta colposa che impedisce il risarcimento.

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Pubblicato il 10 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Ingiusta Detenzione: il Diritto al Silenzio non Preclude il Risarcimento

Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sent. N. 13396/2024) ha riaffermato un principio fondamentale dello stato di diritto: l’esercizio del diritto al silenzio da parte di un indagato non può essere usato come motivo per negargli il risarcimento per ingiusta detenzione. Questa pronuncia chiarisce che le scelte difensive, garantite dalla legge, non possono essere interpretate come una condotta colposa che contribuisce alla privazione della libertà personale.

I Fatti del Caso

La vicenda riguarda un cittadino che aveva subito un lungo periodo di custodia cautelare, circa un anno e mezzo tra carcere e arresti domiciliari, con l’accusa di partecipazione a un’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. Sebbene condannato in primo grado, era stato successivamente assolto in appello con la formula “per non aver commesso il fatto”, sentenza poi divenuta irrevocabile.

Nonostante l’assoluzione piena, la sua richiesta di equa riparazione per l’ingiusta detenzione era stata respinta dalla Corte d’Appello. La motivazione del rigetto si basava sul comportamento tenuto dall’uomo durante l’interrogatorio di garanzia. Secondo i giudici, non avendo confutato in modo persuasivo gli elementi a suo carico e avendo fornito versioni ritenute non chiarificatrici, egli avrebbe contribuito con colpa grave a causare la propria detenzione, precludendosi così il diritto al risarcimento.

Il Ricorso in Cassazione e la Rilevanza del Silenzio Difensivo

L’imputato ha presentato ricorso in Cassazione, contestando la decisione della Corte territoriale. Il motivo principale del ricorso si è incentrato sulla palese violazione del diritto di difesa. Si è sostenuto che attribuire una valenza negativa al silenzio o alle dichiarazioni non pienamente collaborative dell’indagato equivale a vanificare una facoltà processuale fondamentale.

Il ricorrente ha evidenziato come la Corte d’Appello avesse erroneamente posto a suo carico un onere di “persuasiva confutazione” delle accuse, trasformando un diritto difensivo in un comportamento colposo ostativo alla riparazione per ingiusta detenzione.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha accolto il ricorso, annullando l’ordinanza impugnata e rinviando il caso a un’altra sezione della Corte d’Appello per un nuovo esame. La motivazione dei giudici di legittimità è netta e si fonda su una recente e importante modifica legislativa.

Il cuore della decisione risiede nell’articolo 314, comma 1, del codice di procedura penale, come novellato dal D.Lgs. n. 188 del 2021. Questa norma ora stabilisce esplicitamente: «L’esercizio da parte dell’imputato della facoltà di cui all’art. 64, comma 3, lettera b), non incide sul diritto alla riparazione di cui al primo periodo». La lettera b) citata si riferisce proprio alla facoltà di non rispondere.

La Cassazione ha chiarito che questo principio è immediatamente applicabile e fondamentale. Pertanto, il silenzio serbato dall’indagato su elementi di indagine significativi, nell’esercizio di una facoltà difensiva prevista dalla legge, non può essere considerato un comportamento ostativo al diritto alla riparazione.

Il ragionamento della Corte d’Appello, che di fatto penalizzava l’indagato per non aver contraddetto efficacemente l’accusa, è stato giudicato errato perché svuota di significato la garanzia del diritto al silenzio. Eliminando questo elemento (il silenzio colposo), l’intera struttura motivazionale della decisione impugnata è crollata, non sussistendo più un nesso di causalità tra una condotta colposa dell’indagato e l’applicazione della misura cautelare.

Le Conclusioni

La sentenza rappresenta un baluardo a difesa dei diritti processuali dell’imputato. Stabilisce in modo inequivocabile che le strategie difensive, incluso il diritto a non rispondere, sono legalmente neutre ai fini della valutazione del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione. Un individuo non può essere punito per aver esercitato un suo diritto fondamentale. Questa decisione rafforza la presunzione di innocenza e garantisce che la richiesta di risarcimento per un’ingiusta privazione della libertà sia valutata sulla base di reali condotte dolose o gravemente colpose, e non su legittime scelte difensive.

L’esercizio del diritto al silenzio può impedire di ottenere un risarcimento per ingiusta detenzione?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito, sulla base di una specifica modifica legislativa (art. 314 cod. proc. pen.), che l’esercizio della facoltà di non rispondere non incide sul diritto alla riparazione e non può essere considerato un comportamento colposo che preclude il risarcimento.

Su quale base la Corte d’Appello aveva inizialmente negato il risarcimento?
La Corte d’Appello aveva negato il risarcimento sostenendo che l’indagato, durante l’interrogatorio di garanzia, non aveva confutato in modo persuasivo le accuse a suo carico, contribuendo così con colpa grave a determinare e mantenere la misura cautelare nei suoi confronti.

Perché la Corte di Cassazione ha annullato la decisione precedente?
La Cassazione ha annullato la decisione perché riteneva che il ragionamento della Corte d’Appello violasse il principio fondamentale del diritto al silenzio. Penalizzare un indagato per non aver contraddetto attivamente l’accusa vanifica una garanzia difensiva essenziale e non può costituire il fondamento per negare un’equa riparazione dopo un’assoluzione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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