Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 13395 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 13395 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 07/11/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a PALERMO il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 01/06/2023 della CORTE APPELLO di PALERMO
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette/sentite le conclusioni del PG
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’ordinanza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Palermo ha rigettato la domanda di riparazione per ingiusta detenzione avanzata da COGNOME NOME, in riferimento alla custodia cautelare sofferta in forza di ordinanza emessa in data 15/02/2013 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo per i reati di cui agli artt. 416-bis e 629 cod. pen., aggravato quest’ultimo dalla ricorrenza della circostanza aggravante di cui all’art. 7 della legge 12 luglio 1991, n. 203, nell’ambito del procedimento n. 11306/2011 r.g.n.r., 15484 r.g.Gip.
2. Al COGNOME è stata contestata l’appartenenza alla famiglia mafiosa dello Zen, in particolare di aver agito sotto le direttive di NOME COGNOME e di essersi occupato della materiale gestione delle estorsioni in danno dei cittadini dei “padiglioni” del predetto quartiere, destinando parti di tali entrate al sostentamento dei sodali detenuti e alle loro famiglie. Gli era stato altresì contestato il reato di estorsione continuata e aggravata dal metodo mafioso e dalla intenzione di agevolare il sodalizio criminoso, per aver costretto i cittadini abitanti nei “padiglioni” a versare periodiche somme destinate alle spese del condominio, in forza della minaccia di effettuare il distacco delle forniture di luce e acqua o di compiere danneggiamenti. A carico del COGNOME sono venuti in rilievo, principalmente, le dichiarazioni rese dal collaboratore NOME COGNOME, esponente del sodalizio mafioso, assurto a ruolo di reggente dello Zen nel corso del 2009, sino al febbraio 2010. Costui ha affermato che “RAGIONE_SOCIALE” si occupa di raccogliere il “pizzo” dei condomini, nel senso che ogni famiglia residente nei “padiglioni” dello Zen deve pagare non meno di 10 euro al mese nelle mani di un capo condominio, scelto dai referenti di “RAGIONE_SOCIALE“, il quale si occupa di garantire alcuni servizi essenziali al condominio ed alle singole famiglie che vi abitano e di versare una parte del ricavato nelle casse della consorteria locale o direttamente, su indicazione di esponenti apicali dell’organizzazione, alle famiglie degli affiliati residenti nei “padiglioni” e sottoposti a misure detentive. COGNOME ha raccontato di aver coordinato tale attività estorsiva in nome e per conto dell’organizzazione fino a ottobre 2009 e di essersi avvalso del COGNOME che, già prima della sua “reggenza”, aveva collaborato con gli esponenti mafiosi che lo avevano preceduto, con il precipuo compito di scegliere e controllare i diversi capi condominio i quali riscuotevano il denaro presso gli inquilini dei “padiglioni” e lo versavano, dopo aver trattenuto le spese, al COGNOME. Il collaboratore ha specificato che il COGNOME provvedeva personalmente a consegnare alle mogli di cinque soggetti Corte di Cassazione – copia non ufficiale
detenuti i cosiddetti “stipendi” loro dovuti, venendo retribuito per queste attività con la somma di euro 500 al mese. NOME, genero di NOME, ha confermato le dichiarazioni del suocero, in particolare riferendo che, quando si era trasferito ad abitare nel “padiglione” in cui era capo condominio il COGNOME, questi gli aveva chiesto di pagare il detto contributo ma lui si era rifiutato di versare alcunché, in ragione della sua condizione di affiliato a “RAGIONE_SOCIALE“.
3. Le fasi procedimentali della vicenda possono essere richiamate nei seguenti termini. Il 15/02/2013, il COGNOME rendeva interrogatorio di garanzia. Con ordinanza del 11/10/2013, il Tribunale del riesame, in sede di rinvio in seguito ad accoglimento del ricorso per cassazione, presentato dalla difesa dell’indagato, avverso il provvedimento del medesimo Tribunale che, in prima battuta, aveva rigettato la richiesta di riesame avverso l’ordinanza di custodia cautelare, annullava l’ordinanza genetica, in relazione alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ex art. 273 cod. proc. pen., e ordinava l’immediata scarcerazione dell’indagato. In esito a giudizio abbreviato, all’udienza del 23/07/2014, l’imputato veniva assolto da tutti i reati ascrittigli. Il Giudice dell’udienza preliminare, invero, riteneva che il compendio probatorio, così sinteticamente richiamato, non fosse sufficiente a dimostrare l’appartenenza dell’imputato all’associazione di stampo mafioso “RAGIONE_SOCIALE“. Pur valutando positivamente l’attendibilità intrinseca di COGNOME NOME, riteneva che la sua chiamata in correità, relativamente alla destinazione di parte del denaro versato dai condomini e raccolto dal COGNOME al mantenimento delle famiglie degli affiliati di “RAGIONE_SOCIALE” residenti nel quartiere Zen, non abbia trovato riscontro individualizzante in atti; e che le dichiarazioni rese da COGNOME NOME non possano offrire sicuro riscontro alla chiamata in correità del suocero, non essendo certa l’autonomia genetica delle informazioni in possesso dell’COGNOME, come peraltro già criticamente rilevato dalla Corte di cassazione in sede cautelare, sicché non era possibile distinguere quanto conosciuto direttamente da quest’ultimo da quanto appreso dal suocero. Il Gup assolveva il COGNOME anche dalle condotte estorsive, a lui contestate al capo 2) della rubrica, sul rilievo che il narrato dei collaboratori era del tutto generico e anche in ragione della smentita emersa dalle testimonianze di numerose abitanti dello Zen, assunti nelle indagini difensive. In conclusione, a giudizio del Giudice di primo grado, pur potendosi ritenere accertato che il COGNOME svolgesse il ruolo di capo condominio, poiché da lui stesso sostanzialmente riconosciuto, e che, in forza di tale ruolo, riscuotesse mensilmente somme di denaro dei singoli inquilini del suo Corte di Cassazione – copia non ufficiale
“padiglione”, non era stata raggiunta la prova adeguata sul suo ruolo di coordinatore dei capi dei condomini e sulla destinazione di parte delle somme riscosse al mantenimento delle famiglie dei detenuti, con la consapevole volontà di agevolare il sodalizio criminoso. La Corte di appello di Palermo, investita dell’impugnazione del pubblico ministero, procedeva alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, escutendo i collaboratori di giustizia COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME. Il giudizio di appello si concludeva in data 13/06/2016 con la conferma della sentenza di assoluzione. Avverso la predetta sentenza di appello il Procuratore generale interponeva ricorso per cassazione che veniva accolto il 27/10/2017, con sentenza di annullamento con rinvio. In tale ultima sede, la Corte territoriale, dopo aver proceduto ancora una volta alla rinnovazione istruttoria, confermava la sentenza di assoluzione del COGNOME da tutte le contestazioni ascrittegli, con pronuncia del 20/04/2021, divenuta irrevocabile il 05/10/2021.
4. Avverso l’ordinanza del Giudice della riparazione ricorrono i difensori dell’istante che, con un unico, articolato, motivo deducono violazione degli artt. 314 e 315 cod. proc. pen., per avere la Corte di appello negato il diritto alla riparazione in assenza di dolo o di colpa grave; contraddittorietà e/o illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta condotta colposa ascrivibile al COGNOME, sotto il profilo del travisamento probatorio dell’interrogatorio di convalida del fermo, reso in data 15/02/2013; violazione dell’art. 546 cod. proc. pen., per avere il Giudice della riparazione omesso di motivare in ordine al contenuto delle ordinanze emesse, in tema di riparazione per ingiusta detenzione, da altra Autorità giudiziaria nei confronti di due coimputati del ricorrente, COGNOME NOME e COGNOME NOME. L’ordinanza impugnata viola la legge laddove ritiene di individuare una condotta colposa in presenza di un titolo custodiale annullato ab origine. L’omogeneità degli elementi valutati dal Giudice che ha disposto la revoca della misura per assenza ab origine delle condizioni di cui agli artt. 273 e 280 cod. proc. pen. con quelli valutati dal Giudice che l’ha emessa determina, dunque, l’esclusione dell’operatività della condizione ostativa ai fini del riconoscimento del diritto all’equa riparazione, giacché non può essere ravvisata un’incidenza causale della condotta del soggetto passivo della misura nell’emissione del provvedimento coercitivo. La stessa Corte territoriale ha dato atto che la revoca della misura custodiale irrogata all’istante era stata disposta dal Tribunale del riesame, ex art. 309 cod. proc. pen., sulla base dei medesimi elementi sottoposti al Giudice della cautela.
Quanto alle differenti versioni rese dall’indagato in sede di interrogatorio di convalida del fermo e, poi, in sede di spontanee dichiarazioni, la difesa sostiene che il COGNOME non abbia affatto negato di svolgere la funzione di capo condominio e non abbia affatto modificato il tenore delle sue dichiarazioni, che sono sempre state di eguale contenuto. Il Giudice della riparazione non ha poi motivato con riguardo alle ordinanze, pronunciate dalla Corte di appello di Palermo, depositate ed acquisite nell’ambito del procedimento per l’ingiusta detenzione relativo al COGNOME, e in questa sede allegate per il principio di autosufficienza del ricorso, con cui è stata riconosciuta l’ingiusta detenzione nei confronti dei più sopra citati coimputati.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato, per l’effetto dovendo essere disposto l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Palermo.
Va premesso che, nella fattispecie in esame, si vede nell’ipotesi di ingiustizia della detenzione di carattere “formale” regolata dall’art. 314, comma 2, cod. proc. pen., attesa l’accertata insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ex art. 273 codice di rito, dichiarata dal Tribunale del riesame con ordinanza emessa in data 11/10/2013, in sede di rinvio, in seguito ad accoglimento del ricorso per cassazione proposto dall’indagato.
Assume pertanto rilievo il principio, più volte ribadito da questa Corte di legittimità (Sez. 4, n. 22103 del 21/03/2019, COGNOME, Rv. 276091; Sez. 4, n. 5452 del 11/01/2019, COGNOME, Rv. 275021; Sez. 4, n. 54042 del 09/11/2018, COGNOME, Rv. 274765; Sez. 4, n. 22806 del 06/02/2018, COGNOME, Rv. 272993) – in applicazione dell’insegnamento espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, COGNOME, Rv. 247663 – per cui, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, l’aver dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave non opera, quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto, qualora l’accertamento della insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura avvenga sulla base di una diversa valutazione dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare; in tale ipotesi, il giudice della riparazione non può neppure valutare – nemmeno al diverso fine della eventuale riduzione dell’entità dell’indennizzo – la condotta colposa.
Ciò, all’evidenza, è quanto si è verificato nel caso di specie, essendo stata per di più emessa, in esito a giudizio abbreviato, sentenza di assoluzione –
confermata nei due giudizi di appello più sopra richiamati – in ordine a tutti i reati ascritti all’odierno ricorrente, sulla base dei medesimi elementi sottoposti all’esame del giudice della cautela, sul presupposto che il compendio probatorio – sostanzialmente consistente nelle dichiarazioni di COGNOME NOME e del genero di questi, COGNOME NOME – non fosse sufficiente a dimostrare l’appartenenza del COGNOME all’associazione a delinquere di stampo mafioso “RAGIONE_SOCIALE“, pur avendo positivamente valutato la attendibilità intrinseca del NOME.
Nel caso di specie, il Giudice della riparazione ha del tutto omesso di valutare l’anzidetto profilo della ingiustizia formale, pur avendo dato atto (p. 2 ord.) che l’annullamento dell’ordinanza genetica, ad opera del Tribunale del riesame, era avvenuto proprio in relazione alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ex art. 273 cod. proc. pen. Spettava, pertanto, al Giudice della riparazione accertare se l’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura fosse avvenuta sulla base di una diversa valutazione dei medesimi elementi trasmessi al giudice che aveva emesso il provvedimento cautelare. Nel qual caso, come si è detto, non opera la condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo, integrata dall’avere dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave, appalesandosi in tal caso la condotta dolosa o colposa dell’imputato del tutto priva di efficienza causale in ordine all’emissione della misura.
In simili ipotesi, invero, non può esservi spazio per alcun giudizio relativo al comportamento dell’istante, eventualmente anche colposo, in quanto viene negata in radice l’efficienza causale della condotta dell’indagato sull’adozione della misura cautelare, da ritenere incompatibile con la riconosciuta autoreferenzialità dell’errore dell’Autorità giudiziaria.
In conclusione, l’ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio, per nuovo giudizio, alla Corte di appello di Palermo.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia, per nuovo giudizio, alla Corte di appello di Palermo.
Così deciso il 7 novembre 2023
Il Consigliere estensore
Il Presidente ,