Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 15735 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 15735 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 14/10/2024
Oggi, GLYPH 2 2 APR. 2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
GLYPH
IL
FUNZIONARI
COGNOME nato a Melito Porto Salvo il 6.10.1967 GLYPH
NOME
avverso la ordinanza in data 8.2.2024 della Corte di Appello di N oli
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso
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RITENUTO IN FATTO
1. La richiesta di equo indennizzo per ingiusta detenzione svolta da NOME COGNOME in relazione alla custodia cautelare sofferta per il reato di associazione mafiosa dal quale è stato poi definitivamente assolto, è stata oggetto di un primo f’t4z,; · Cd.e….41-· provvedimento di rigetto della Corte di appello di Nt,aoli reso in data 13.1(7.2022 che ha ritenuto che costui, all’epoca dei fatti infermiere presso il carcere di Reggio Calabria, intrattenesse rapporti con soggetti intranei al sodalizio o comunque ad esso contigui fungendo a tramite per far giungere messaggi od oggetti personali. A seguito di annullamento con rinvio disposto da questa Corte con sentenza del 10.5.2023 che censurava il provvedimento impugnato per aver affermato la ^
sussistenza della colpa grave sulla base di elementi desunti dalla stessa ordinanza cautelare, peraltro neppure particolarmente significativi in termini di contiguità mafiosa e comunque reputati irrilevanti in sede di cognizione, senza aver individuato le ragioni per le quali la frequentazione con i soggetti malavitosi detenuti all’interno del carcere dove lo stesso istante prestava attività lavorativa integrasse un comportamento gravemente colposo, la Corte di appello si è nuovamente pronunciata con ordinanza in data 8.2.2024, respingendo l’istanza.
2. Avverso il suddetto provvedimento il COGNOME ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione articolando un unico motivo con il quale deduce, in relazione al vizio di violazione di legge riferito agli artt. 314, 125 178 3 627 cod. proc. pen., che il giudice del rinvio sia incorso negli stessi errori censurati dalla sentenza rescindente, riproponendo a fondamento della colpa grave risultanze istruttorie di cui la pronuncia assolutoria aveva escluso la rilevanza penale. Rileva come tutte le condotte poste a fondamento della colpa grave corrispondano ad eventi non accertati (come indicativi della sua appartenenza al sodalizio mafioso), tenuto conto che: a) la “imbasciata a Remingo COGNOME” presentava, quanto al suo contenuto, contorni sfumati così da non potersi ritenere, come affermato dai giudici della cognizione, che avesse ad oggetto questioni associative; b) il rapporto con NOME COGNOME era rimasto privo di prova come del resto riconosciuto dalla stessa ordinanza impugnata, in relazione all’oggetto e al destinatario di quanto consegnato dal partecipe alla cosca mafiosa all’istante; c) non era stato spiegato in cosa fossero consistiti i rapporti intrattenuti con il Sindaco NOME e con NOME COGNOME, né la loro incidenza rispetto alla detenzione disposta nei confronti del ricorrente atteso che la condotta gravemente colposa, per essere ostativa al riconoscimento dell’indennizzo, deve comunque presentare indizi di reità con riferimento al reato su cui si fonda il vincolo cautelare tali da configurare un apprezzabile nesso di causalità. Deduce, in sintesi, la difesa che l’esistenza di rapporti non trasparenti non è sufficiente a configurare la colpa grave, occorrendo che i comportamenti segnalati determinino un’apparenza di reità in relazione alla specifica ipotesi criminosa nella specie costituita dall’appartenenza del ricorrente all’associazione di stampo mafioso. Lamenta inoltre la mancata valutazione degli elementi probatori in contrasto con le conclusioni raggiunte quali il rifiuto opposto dall’istante di prestarsi ad attività illecite agli esponenti del sodalizio, il disinte mostrato da costui per quanto sarebbe potuto accadere a seguito dell’intervento della Polizia a Melito Porto Salvo, nonché l’avversione nutrita nei confronti di NOME COGNOME il mancato riconoscimento della sua persona da parte di NOME COGNOME ed infine la sua estraneità a contesti di criminalità organizzata . Corte di Cassazione – copia non ufficiale
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CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso deve ritenersi fondato.
A fronte della motivazione resa dalla sentenza rescindente già pronunciata da questa Corte che stigmatizzava una duplice censura della precedente ordinanza, anch’essa reiettiva della richiesta di equo indennizzo, concernente tanto la mancata indicazione di episodi significativi in termini di contiguità mafiosa dell’istante al sodalizio criminale locale rispetto alle condotte ritenute irrilevanti d giudice della cognizione ai fini di un’affermazione di colpevolezza, quanto la omessa individuazione della condotta dolosa o gravemente colposa ascrivibile al ricorrente tale da aver rivestito incidenza causale nell’emissione della misura restrittiva della libertà personale, i giudici del rinvio, pur avendo riprodotto n corpo dell’ordinanza impugnata le linee direttrici del nuovo esame fissate dalla pronuncia di annullamento, hanno finito, focalizzando il proprio esame sulle medesime condotte passate in rassegna dalla sentenza di assoluzione, con il riprodurre gli stessi errori del provvedimento cassato.
Pur dovendosi ribadire, in linea generale, l’autonomia del processo di equa riparazione rispetto a quello di cognizione, occorre tuttavia chiarire che il dolo o la colpa grave idonei ad escludere l’indennizzo per ingiusta detenzione devono sostanziarsi in comportamenti specifici che abbiano “dato causa” all’instaurazione dello stato privativo della libertà o comunque abbiano “concorso a darvi causa”, sicché è ineludibile l’accertamento del rapporto causale, eziologico, tra tali condotte ed il provvedimento restrittivo della libertà personale. E’ perciò necessario che ove il giudice pervenga, come nel caso di specie, al rigetto della richiesta di equo indennizzo, la sua pronuncia, nell’enucleare le condotte ostative all’accoglimento della domanda, si fondi, come a suo tempo già chiarito dalla pronuncia a Sezioni Unite Sarnataro, su dati di fatto certi, cioè ad elementi «accertati o non negati» (Sez. U n. 43 del 13/12/1995 – dep. 1996, Rv. 203636): principio questo sviluppato dalle successive pronunce delle Sezioni semplici che hanno precisato come tale valutazione non possa essere operata sulla scorta di elementi congetturali, non definitivamente comprovati non solo nella loro ontologica esistenza, ma neppure nel rapporto eziologico tra la condotta tenuta e la sua idoneità a porsi come elemento determinativo dello stato di privazione della libertà, né tantomeno su condotte escluse o ritenute non sufficientemente provate (in senso accusatorio) con la sentenza di assoluzione (Sez. 4, n. 46469 del 14/09/2018, COGNOME, Rv. 274350; Sez. 3, n. 19998 del 20/04/2011, COGNOME, Rv. 250385; Sez. 4, n. 12228 del 10/01/2017, Quaresima).
A ciò deve aggiungersi, sempre ai fini del corretto inquadramento dell’istituto, che la verifica che il giudice adito ai sensi dell’art. 314 cod. proc. pen. è chiamato a compiere deve consistere nell’accertamento della sussistenza o meno di una
causa ostativa al riconoscimento dell’indennizzo data dall’incidenza causale di una condotta connotata da dolo o colpa grave tenuta, sia pure nel concorso dell’errore dell’autorità procedente, dall’istante nella produzione dell’evento costitutivo del diritto, ovverosia dell’emissione del provvedimento coercitivo, e dunque tale da essersi posta come fattore condizionante alla produzione dell’evento “detenzione”: a tal fine deve perciò valutare se la condotta tenuta dall’istante tanto anteriormente quanto successivamente all’adozione della misura restrittiva della libertà personale fosse, ancorchè tesa ad altri risultati, connotata da macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, tale da provocare una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi, a causa dell’ingenerato allarme sociale, nell’adozione del provvedimento coercitivo (Sez. U, n. 34559 del 26/06/2002, Min. tesoro in proc. COGNOME, Rv. 222263, nonché fra le sezioni semplici cfr. ex multis Sez. 4, Sentenza n. 10516 del 12/11/2013, COGNOME, Rv. 259206; Sez. 4, Sentenza n. 27458 del 05/02/2019, COGNOME, Rv. 276458)
Orbene, nessuna delle condotte individuate dalla Corte reggina come ostative, in quanto emblematiche di un sua contiguità alla cosca mafiosa operante nel territorio di Melito Porto Salvo, al riconoscimento dell’indennizzo, quali “l’imbascata” per conto di NOME COGNOME e i rapporti con altri affiliati del sodalizio criminale capeggiato da quest’ultimo intrattenuti dal ricorrente, risponde ai requisiti sopra indicati, prestando pertanto apertamente il fianco alle censure articolate dall’impugnativa innanzi a questa Corte.
Va infatti rilevato che, quanto alla cosiddetta “imbasciata” ricevuta dal dominus del clan mafioso, che è proprio la riferibilità della comunicazione all’operatività del consesso criminale degli COGNOME ad essere stata esclusa dalla sentenza di assoluzione, nulla essendo emerso in ordine all’epoca in cui 1 11.” comunicazione sarebbe stata eseguita dal COGNOME, al suo contenuto e soprattutto al suo destinatario, ragione per la quale i giudici della cognizione hanno ritenuto che la provenienza del messaggio da NOME COGNOME soggetto nei confronti del quale il ricorrente, peraltro, nutriva una chiara avversione, non consentisse di ricondurre l’incarico svolto per suo conto ad un contributo all’attività criminale associativa. Trattasi invero di una condotta che, in quanto neutralizzata nella sua valenza causale in ordine anche solo ad una contiguità del COGNOME al sodalizio mafioso o comunque ritenuta non sufficientemente provata dal giudice della cognizione, non poteva conseguentemente essere assunta come idonea ad ingenerare, neanche sul piano della falsa apparenza, una connotazione illecita.
Quanto, invece, alla ritenuta contiguità con gli altri soggetti, pacificamente intranei alla cosca COGNOME, emerge dall’ordinanza impugnata che il ricorrente abbia intrattenuto rapporti ambigui con NOME COGNOME, NOME COGNOME
e NOME COGNOME rivelatori, secondo la Corte distrettuale, di una sua contiguità al clan mafioso.
Tuttavia di nessuna disamina sono state oggetto le dichiarazioni rese dallo stesso COGNOME in ordine alla natura del rapporto con il COGNOME – per conto del quale avrebbe dovuto eseguire una consegna di cui neppure risulta individuato l’oggetto ad un detenuto recluso all’interno del carcere, neanch’esso identificato rapporto invece relegato dall’istante, secondo la versione dal medesimo fornita al momento dell’adozione della misura restrittiva, ad un’occasionale fornitura di pellet. La spiegazione alternativa, di cui per vero dà atto lo stesso provvedimento in contestazione, così come la circostanza che l’attività da costui svolta fosse quella di infermiere all’interno dello stesso carcere dove sarebbe dovuta avvenire la consegna, resta un tema del tutto inesplorato dai giudici del rinvio, limitatisi a stigmatizzare come gravemente imprudente la condotta del ricorrente in riferimento al contatto avuto con l’esponente del clan mafioso, senza alcuna valutazione delle ragioni addotte a sua discolpa e della loro plausibilità.
Va al riguardo ribadito che il procedimento relativo alla riparazione per l’ingiusta detenzione, quantunque si riferisca ad un rapporto obbligatorio di diritto pubblico e comporti perciò il rafforzamento dei poteri officiosi del giudice, è tuttavia ispirato ai principi del processo civile, con la conseguenza che l’istante ha l’onere di provare i fatti costitutivi della domanda (la custodia cautelare subita e la successiva assoluzione), mentre alla parte resistente incombe di provare il dolo o la colpa grave da parte dell’istante medesimo quali causa o concausa del provvedimento restrittivo (Sez. 4, n. 18828 del 28/03/2019, Di, Rv. 276261 – 01), gravando pertanto sul giudice l’operazione di enucleazione e di valutazione dei fatti non nella loro portata indiziaria o probatoria, che può essere ritenuta insufficiente e condurre all’assoluzione, bensì sul piano della loro idoneità a determinare, unitamente ed a cagione di una condotta negligente od imprudente dell’imputato, l’adozione della misura restrittiva della libertà personale. A tale fine è necessario che vengano esaminati, nell’ambito di un giudizio complessivo, tutti gli elementi a disposizione dell’autorità emittente la misura cautelare unitamente alla condotta posta in essere dall’istante sia prima che dopo la perdita della libertà personale e, più in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico, onde verificare, con valutazione ex ante, in modo del tutto autonomo e indipendente dall’esito del processo di merito, se tale condotta, risultata in quella sede tale da non integrare un fatto-reato, abbia ciononostante costituito il presupposto che abbia ingenerato, pur in eventuale presenza di un errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di “causa ad effetto” (Sez. 4, Sentenza n. 3359 del 22/09/2016, COGNOME, Rv. 268952; Sez. 4, n. 9212 del 13/11/2013, dep. 2014, Maltese, Rv. 259082). ,
4)
Sotto tale profilo lo scrutinio eseguito dalla Corte reggina risulta pertanto gravemente carente.
Con riferimento, invece, ai rapporti con NOME COGNOME e NOME
NOME non solo manca, anche in tal caso, qualunque riferimento alle dichiarazioni eventualmente rese dall’interessato al riguardo, ma neppure è dato
comprendere su quali presupposti si fondi la condotta gravemente colposa rimproverata al ricorrente, restando del tutto sfumati i contorni dei contatti con il
COGNOME che risulta soltanto avere accompagnato una volta la moglie e il figlio di
NOME COGNOME ad un colloquio con il proprio congiunto all’interno del carcere, senza che risulti neppure chiarito quale ruolo abbia in tale occasione svolto il
COGNOME né emergendo, quanto al COGNOME, nulla di più della richiesta di una raccomandazione da parte dell’odierno ricorrente affinché la propria moglie
venisse assunta da una cooperativa da cui avrebbe percepito un compenso di €
120 mensili. Al di là del rilievo che l’assunzione della donna non risulta essersi mai verificata, non è dato comprendere quale coinvolgimento del COGNOME nel
sodalizio criminoso, sia pur in termini di contiguità, trapeli dalla suddetta sollecitazione, tenuto conto che il NOME, quantunque condannato dal giudice
della cognizione per il reato di cui all’art. 416 bis cod. pen. in quanto partecipe della cosca mafiosa, rivestiva comunque all’epoca il ruolo di Sindaco di Melito Porto Salvo, comune di residenza dell’istante.
Ad incrinare ulteriormente la tenuta della motivazione resa dai giudici del rinvio si aggiunge la mancata disamina degli ulteriori elementi, emersi già all’epoca delle indagini, cd. a discarico nei confronti del ricorrente, quali il disinteresse risultante dal compendio intercettato, da costui mostrato in relazione a quanto potuto accadere a seguito di eventuali operazioni di polizia giudiziaria che avrebbe dovuto essere espletate nel Comune di Melito Porto Salvo, così come sulle sorti del trasferimento dei detenuti dal carcere di Reggio Calabria.
Si impone, in conclusione, l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Reggio Calabria in diversa composizione, che provvederà altresì alla regolamentazione delle spese del presente grado di giudizio
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per appello di Reggio Calabria in diversa composizione Così deciso il 14.10.2024 nuovo giudizio alla Corte di