Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 23735 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 23735 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 27/03/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI CATANIA
e da:
NOME nato a CATANIA il 19/05/1994
nel procedimento a carico di quest’ultimo
MINISTERO ECONOMIA E FINANZE
avverso l’ordinanza del 09/12/2024 della CORTE APPELLO di CATANIA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del PG
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza in data 9 dicembre 2024 la Corte d’appello di Catania, pronunciandosi sull’istanza di riparazione per ingiusta detenzione proposta nell’interesse di NOMECOGNOME in relazione al periodo di sottoposizione del medesimo alla misura della custodia cautelare in carcere e poi degli arresti domiciliari, in esecuzione dell’ordinanza del Gip del Tribunale di Catania in relazione al reato di cui all’art. 73 comma 1 e 1 bis d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309, in quanto eccedente la misura della condanna definitiva, ha parzialmente accolto l’istanza liquidando al medesimo la somma di Euro 105.887,00.
Riepilogando in sintesi la vicenda processuale:
NOME NOME veniva tratto in arresto in flagranza di reato il 18 maggio 2017, arresto convalidato in data 20 maggio 2017 con contestuale applicazione della misura cautelare della custodia cautelare in carcere poi modificata in arresti domiciliari con attivazione del braccialetto elettronico i forza di ordinanza del Tribunale del riesame del 22 ottobre 2018;
nel merito, il COGNOME veniva ammesso al giudizio abbreviato all’esito del quale il Gup del Tribunale di Catania lo dichiarava colpevole del reato di cui all’art. 73, comma 1 e comma 1 bis, d.p.r. n. 309 del 1990, condannandolo alla pena di anni cinque e mesi sei di reclusione ed Euro 20.000,00 di multa;
con sentenza del 29.5.2018 la Corte d’appello di Catania rideterminava la pena in anni tre, mesi otto di reclusione ed Euro 13.333, 30 di multa; quindi la Corte di Cassazione, a seguito di ricorso dell’imputato, con pronuncia del 7.5.2019 annullava la sentenza d’appello con rinvio, limitatamente alla valutazione circa la configurabilità del reato di cui all’art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309 del 1990;
con pronuncia del 27.11.2019 la Corte d’appello di Catania, riconosciuta l’ipotesi di cui all’art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309 del 1990, rideterminava la pena in anni due e mesi sei di reclusione ed Euro 3000,00 di multa disponendo ex art. 300, comma 4, cod.proc.pen, l’inefficacia della misura cautelare degli arresti domiciliari e quindi la liberazione del Denaro;
a seguito di nuovo ricorso dell’imputato, questa Corte di legittimità con pronuncia del 15.10.2020 annullava con rinvio la sentenza di appello, limitatamente alla motivazione sul trattamento sanzionatorio, sul rilievo che la Corte di merito avesse determinato la pena base in corrispondenza del massimo edittale e che, pur concedendo le circostanze attenuanti generiche, avesse applicato per le stesse una riduzione minima;
con sentenza n. 20 del 2022 emessa dalla Corte d’appello di Catania 1’11 gennaio 2022, in sede di secondo rinvio, il ricorrente veniva condannato alla
pena di mesi quattro di reclusione ed Euro 1000,00 di multa, con il beneficio della sospensione condizionale della pena.
Quindi avendo trascorso n. 572 giorni in regime di custodia cautelare e n. 351 giorni in regime di arresti domiciliari chiedeva riconoscersi l’indennizzo per l’ingiusta detenzione.
A fondamento dell’accoglimento parziale dell’istanza, la Corte d’appello, quale giudice della riparazione, ha ritenuto che l’ingiusta detenzione derivasse dalla diversa qualificazione giuridica del fatto operata in sede di merito, così accertando un reato per il quale non si sarebbe potuta adottare la misura della custodia in carcere. Quindi, ritenendo che quella diversa qualificazione fosse avvenuta sulla base degli stessi elementi trasmessi al giudice che ha adottato il provvedimento cautelare, ha affermato che nel caso di specie non opera la condizione ostativa, ritenendo altresì irrilevante la disposta sospensione condizionale della pena.
Ha ritenuto, invece, che il periodo trascorso in regime di arresti domiciliari non potesse dar luogo alla riparazione per ingiusta detenzione in quanto il reato di cui all’art. 73, comma 5 d.p.r. n. 309/1990 consentiva tale misura cautelare.
Ha quindi provveduto a liquidare l’indennizzo in relazione al periodo trascorso in regime di custodia cautelare in carcere in base al criterio aritmetico, non risultando neanche allegate ulteriori voci di danno.
Avverso detta ordinanza hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Catania e NOME COGNOME
3.1. Il primo ricorso é articolato in un solo motivo con cui si deduce la violazione dell’art. 314 cod.proc.pen. ed il difetto di motivazione ai sensi dell’art. 60 comma 1, lett. b) ed e), cod.proc.pen.
Si assume che la Corte d’appello non ha valutato che l’applicazione della misura cautelare deriva esclusivamente da una condotta dolosa del Denaro, ovvero quella di detenzione e cessione di stupefacenti per la quale ha riportato condanna definitiva, non tenendo conto della giurisprudenza di legittimità sul tema.
3.2. Il ricorso per NOME si articola in quattro motivi.
Con il primo motivo (sul capo dell’ordinanza che non riconosce l’indennizzo per la custodia cautelare agli arresti domiciliari eccedente la pena inflitta) deduce violazione della legge processuale, ex art. 606 lett. b) cod.proc.pen., e l’illogicit e la contraddittorietà della motivazione.
Si rileva che l’ordinanza impugnata allorché motiva l’esclusione della richiesta riparazione per il periodo trascorso in regime di arresti domiciliari fa un incomprensibile riferimento all’art. 657 cod.proc.pen.
Ed inoltre l’ordinanza é errata laddove esclude la rilevanza della concessione della sospensione condizionale della pena in quanto di essa deve tenersi conto nel computare la pena in eccesso. Infine, lamenta che la Corte di appello, illogicamente, non ha tenuto conto del fatto che gli elementi disponibili in sede cautelare erano i medesimi disponibili al giudice del merito, essendo stato celebrato il rito abbreviato.
Con il secondo motivo (sempre sul medesimo capo) deduce ai sensi dell’art. 606 lett. b) cod.proc.pen. la violazione e la falsa applicazione di legge con riferimento all’art. 314 cod.proc.pen., art. 5 comma 1, lett. b) e comma 5 CEDU, artt. 3, 13 e 117 Cost.
Si assume l’illegittimità del mancato riconoscimento dell’ingiusta detenzione per il periodo di custodia cautelare agli arresti domiciliari eccedente la pena inflitta.
In subordine si chiede di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 314, comma 2 cod. proc. pen., per violazione degli artt. 3 e 13 Cost. nella parte in cui non prevede il diritto all’indennizzo anche nel caso di misura adottata in assenza dei presupposti di cui all’art. 275, commi 2 e 2bis cod. proc. pen.
Con il terzo motivo (con riguardo al capo dell’ordinanza che ha escluso dalla liquidazione per la custodia in carcere la pena definitivamente irrogata) deduce ex art. 606 lett. e) cod.proc.pen. l’illogicità e/o la contraddittorietà de motivazione: “la pena finale irrogata può essere, logicamente, detratta o imputata solo alla custodia cautelare agli arresti donniciliari”.
Si censura la sottrazione dal calcolo dei giorni della pena finale irrogata in quanto manifestamente illogica e contraddittoria.
Con il quarto motivo (proposto solo sul capo dell’ordinanza che ha compensato le spese processuali tra le parti) deduce ai sensi dell’art. 606 lett. e) cod.proc.pen. la contraddittorietà della motivazione.
Si assume che la compensazione delle spese é stata motivata dalla mancata contestazione della domanda da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze, circostanza che tuttavia risulta contraddetta dalle conclusioni in cui si é chiesto il rigetto della domanda.
Il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione ha rassegnato conclusioni scritte con cui ha chiesto l’annullamento con rinvio per nuovo giudizio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Catania é inammissibile.
Nel caso in disamina NOME Paolo COGNOME per il tramite del proprio difensore e procuratore speciale, ha chiesto l’equa riparazione per l’ingiusta detenzione subita per aver scontato la misura cautelare, tra custodia in carcere e arresti domiciliari, per un periodo eccedente la misura della pena definitivamente inflitta di mesi quattro di reclusione e cioè per un totale di anni due, mesi due e giorni nove.
A riguardo questa Corte di legittimità ha riconosciuto il diritto alla riparazione pe ingiusta detenzione anche nel caso di custodia cautelare subita in eccedenza rispetto alla misura della pena definitivamente inflitta (Sez. 4, n.32357 dell’11/4/2012, COGNOME, Rv. 253651). Si è, tuttavia, precisato che tale diritto è configurabile, purché nella condotta del richiedente non siano individuabili condotte gravemente colpose che abbiano avuto un ruolo eziologico nella protrazione della restrizione della libertà (Sez. 4, 32136 del 11/04/2017, COGNOME, Rv. 270420; Sez. 4, n. 17788 del 6/3/2012, COGNOME ed altro, Rv. 253504).
E ciò in quanto il principio solidaristico sotteso all’istituto della riparazione ingiusta detenzione trova il suo naturale contemperamento nel dovere di responsabilità che incombe in capo a tutti i consociati, i quali evidentemente non possono invocare benefici tesi a ristorare pregiudizi da essi stessi colposamente o dolosamente cagionati. Anche nell’ipotesi in cui viene in rilievo, dunque, una detenzione sofferta per un periodo maggiore rispetto alla pena inflitta, il giudice è tenuto a valutare la sussistenza della condizione ostativa del dolo o della colpa grave, non già come concausa dell’errore del giudice in ordine al momento genetico della misura, che in caso di condanna non sussiste, ma in relazione alla eventuale incidenza sulla protrazione della misura oltre l’entità della pena irrogata.
In particolare, ove l’ingiustizia sia correlata alla diversa qualificazione, in sede merito, del fatto di reato, i cui limiti edittali di pena non avrebbero consentit l’applicazione della misura custodiale, la condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo, integrata dall’avere dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave, non opera se l’accertamento dell’insussistenza “ah origine” delle condizioni di applicabilità della misura avvenga sulla base dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha adottato il provvedimento cautelare, in quanto in tal caso la condotta dolosa o colposa dell’imputato è priva di efficienza causale in ordine all’emissione della misura (Sez. 4, n. 16175 del 22/04/2021, Rv. 281038).
1.1.Così ricostruita la cornice all’interno della quale va valutata l’ordinanza impugnata, va rilevato che il ricorso del Procuratore generale presso la Corte d’appello di Catania non coglie nel segno laddove si limita a puntualizzare che il Denaro all’esito di un complesso iter processuale é stato condannato in via
definitiva, sebbene per il reato di cui all’art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309 del 1990, con l’applicazione della pena di mesi quattro di reclusione; concludendo quindi che l’aver commesso il reato de quo integra pienamente il dolo o quantomeno la colpa grave di cui all’art. 314 comma 1, cod.proc.pen. ostativa all’accoglimento dell’istanza.
In tal modo il ricorrente omette di confrontarsi con la motivazione che pure impugna ed evidenzia un chiaro fraintendimento della disciplina invocata.
Il ricorso proposto per NOME NOME è parzialmente fondato nei termini che si andranno di seguito ad esplicitare.
2.1. I primi due motivi di ricorso, afferenti al medesimo capo, sono manifestamente infondati.
Esaminando l’ordinanza impugnata, si rileva che la Corte d’appello ha accolto parzialmente l’istanza ex art. 314 cod.proc.pen. richiamando in primo luogo il principio secondo cui, ove per effetto della diversa qualificazione giuridica data al fatto dal giudice di merito, i relativi limiti edittali di pena risultino incompa con l’applicazione della misura custodiale, l’indennizzo può essere riconosciuto e che se la riqualificazione è operata sulla scorta dei medesimi elementi disponibili al giudice della cautela, l’indennizzo va riconosciuto senza che possa essere ricercata l’eventuale colpa ostativa (riferimento a Sez. 4, n. 16175/2021).
Quindi ha rilevato che il reato di cui all’art. 73, comma 5 d.p.r. n. 309/90 non prevedeva al tempo una pena massima compatibile con la custodia in carcere.
Con riguardo al tema dell’indennizzabilità del periodo trascorso agli arresti domiciliari, la Corte d’appello, rilevando che tale misura era consentita dalla pena massima del reato di cui all’art. 73, comma 5 cit. ha concluso che “sussistendo i presupposti per l’applicazione della misura degli arresti domiciliari, il periodo in cui la stessa è sofferta, non viene in rilievo ai fini della ingiusta detenzione, a sensi dell’art. 657 c.p.p.” aggiungendo che: “la parte di custodia trascorsa agli arresti domiciliari eccedente la pena definitivamente applicata … andrà ad altro fine computata nei modi e nei termini di cui all’art. 657 cod. proc. pen.”.
Ebbene, la conclusione cui la Corte di merito é pervenuta va condivisa ma attraverso un differente iter logico motivatorio che, peraltro, prescinda da un incongruo riferimento all’art. 657 cod.proc.pen.
Va premesso che dall’esame della giurisprudenza di legittimità, letta anche alla luce della sentenza della Corte cost. n. 219 del 2008, non può trarsi il riconoscimento del principio dell’indennizzabilità della maggiore afflittività della misura imposta rispetto a quella che avrebbe dovuto applicarsi nell’ipotesi di riqualificazione giuridica del fatto che comporti il venir meno dell’idoneità della
nuova imputazione a legittimare autonomamente la compressione della libertà personale dell’imputato nella forma più severa della restrizione in carcere.
Si registra un precedente (Sez. 4, n. 12875 del 11/01/2010, Rv. 247020 – 01), in un caso di avvenuta riqualificazione del fatto, che contestato come concussione era stato riqualificato in tentata corruzione impropria; l’effetto era stato quello di dover fare riferimento non più ad una pena edittale massima ricadente nella previsione del comma 2 dell’art. 280 cod. proc. pen., ma ad una pena per la quale era consentito, ex art. 280, comma 1, cod. proc. pen., disporre la custodia agli arresti domiciliari. In questa occasione si affermò che “trarre … l conclusione che sia legittima ab origine la detenzione intramuraria e domiciliare complessivamente patita dall’istante e, quindi, respingerne la domanda di indennizzo, appare un’operazione dialettica viziata anch’essa da errore di diritto”.
La sentenza de qua fa appello alla sentenza n. 219 del 2008 della Corte costituzionale ritenendo la stessa si attagli anche al caso della riqualificazione del fatto che determini la legittimità degli arresti domiciliari ma non della custodia in carcere, la sola effettivamente applicata al richiedente. Ed inoltre ritiene che la soluzione sia imposta dal principio di eguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost. precisando che “se cioè l’istituto della riparazione non fosse applicato a tutti i casi in cui l’imputato abbia sofferto, completamente a vuoto o parzialmente in misura più afflittiva, una restrizione ingiusta del proprio diritto della libe personale, sarebbe ugualmente privo di ragionevolezza la disposizione di cui all’art. 314 c.p.p., onde essa dovrebbe essere denunciata al Giudice delle leggi per contrasto con l’art. 3 della Cost.”.
Dopo tale precedente non ne risultano altri che abbiano ribadito tale linea interpretativa. Per contro, la giurisprudenza di legittimità é consolidata nel ritenere che l’equa riparazione può essere negata ove l’interessato è stato prosciolto per prescrizione da un reato che non permetteva l’adozione di misure cautelari restrittive ( nel procedimento applicate per altro reato, in ordine al quale è stata pronunciata assoluzione) quando la condotta accertata contribuisca, unitamente ad altri elementi, a creare l’apparenza della commissione dei più gravi delitti ascritti all’interessato, per i quali è sta applicata la custodia cautelare in carcere (Sez. 4, n. 9199 del 31/01/2018, Palmisano, Rv. 272234 – 01; richiamata da 11751/2021 e da 36159/2024, entrambe in casi in cui vi era stata l’assoluzione da uno dei due reati che erano stati titolo della misura cautelare e la derubricazione dell’altro in reat procedibile a querela non proposta). Pertanto, pur riguardando tali decisioni una fattispecie concreta diversa da quella oggetto del presente procedimento, è tuttavia evidente che se di un reato per il quale è stata dichiarata la improcedibilità e che non consentiva l’adozione di misura cautelare è legittimo
tener conto ai fini della valutazione del giudice della riparazione, a maggior ragione deve potersi tener conto di un reato che, ritenuto dal giudice della imputazione, non consente la custodia in carcere ma consente quella degli arresti domiciliari. Nè comunque indicazioni a favore di una diversa interpretazione possono desumersi dalla sentenza n. 219 del 2008 della Corte costituzionale, atteso che costituiscono situazioni ontologicamente differenti essere sottoposti a misura senza che ve ne sia titolo o per un periodo eccedente, o invece essere sottoposti alla custodia in carcere in caso in cui essa non è consentita essendo però applicabili gli arresti domiciliari. In questa seconda ipotesi, invero, l’ordinamento prevede la limitazione della libertà e se essa discende da un comportamento dell’indagato o dell’imputato che vale ad integrare dolo o colpa ostativi non potrà mai dirsi ingiusta. Pur non potendosi negare che la custodia in carcere ha una maggiore afflittività rispetto agli arresti domiciliari, nell disciplina legale non vi sono, tuttavia, spunti testuali per ritenere che si si inteso dare rilievo a tale differenza. A riguardo é sufficiente considerare che nel secondo comma dell’art. 314 cod. proc. pen. il richiamo all’art. 280 del codice di rito può essere inteso anche come conducente alla negazione dell’ingiustizia formale solo che sia ammessa una delle misure coercitive in senso stretto previste da quella disposizione. D’altra parte, l’orientamento secondo il quale l’indennizzo va quantificato sulla base di un’unica unità di misura e, quindi, facendo riferimento, da un lato, alla durata della privazione di libertà e, dall’altro all’entità della somma massima fissata dal legislatore, unitamente alla durata massima di legge della custodia cautelare, salvo marginali aggiustamenti del dato aritmetico ricavabile dall’operazione anzidetta, valorizzando a tal fine circostanze accessorie tanto obiettive quanto soggettive (principio che può farsi risalire a Sez. 4, n. 981 del 09/07/1992, Rv. 191862 – 01) non ha mai preso in considerazione l’ipotesi di un indennizzo da rapportare ad una differenza di afflittività, richiamando i dati aritmetici individuati rispettivamente per un gior di arresti domiciliari e un giorno di custodia in carcere. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Fatte queste premesse, nella specie deve ritenersi che tutto il periodo di privazione della libertà personale sia legittimo, in quanto sostenuto dalla condanna pronunciata per il delitto di cui all’art. 73, co. 5 d.p.r. n. 309/1990 *
Ed invero la misura degli arresti domiciliari era astrattamente configurabile poiché consentita in costanza dei requisiti di legge, anche a seguito della riqualificazione della condotta come originariamente contestata, di talché il periodo di sottoposizione a detta misura non può dar luogo all’indennizzo per ingiusta detenzione.
Essendo acclarata l’esistenza di un periodo di detenzione superiore alla misura della pena inflitta, va fatta applicazione del diverso principio (di cui alla sentenza
della Corte cost. n. 219 del 2008) secondo cui va riconosciuto il diritto all’indennizzo allorquando la privazione della libertà si estenda oltre il limite dato dalla pena inflitta con la condanna.
Manifestamente infondata è la questione di legittimità costituzionale che si chiede di sollevare non emergendo alcuna violazione degli artt. 3, 13 e 117 Cost. nei termini enunciati.
Del pari manifestamente infondata é la censura con cui si assume che ai fini della individuazione di un periodo di privazione della libertà superiore a quello disposto con la condanna,’/si debba tenere conto di una condanna a pena sospesa.
A riguardo Sez. 4, n. 34327 del 04/05/2018, Rv. 273801 – 01, ha affermato che, se la durata della custodia cautelare subita soverchia la misura della pena inflitta con la condanna, a pena condizionalmente sospesa, il diritto alla riparazione sussiste limitatamente a quella parte della custodia cautelare che soverchi la misura di condanna. Tale principio era stato affermato già da Sez. 3, n. 12394 del 14/12/2016, dep. 2017, Rv. 270352 – 01, la quale ha affermato, sia pure in una fattispecie non coincidente con quella al presente esame, la “ontologica estraneità della sospensione condizionale della pena all’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, atteso che essa non può mai “sussistere” al tempo della adozione o della persistenza della misura restrittiva”.
A corroborare la tesi della estraneità della sospensione condizionale della pena alla riparazione per ingiusta detenzione depone altresì il dato che il termine per proporre l’istanza decorre dalla irrevocabilità della decisione; ciò rende irrilevante l’eventuale estinzione del reato ai sensi dell’art. 167 cod. pen.
3. Il terzo motivo è fondato.
Con riguardo alla determinazione dell’indennizzo la Corte d’appello ha sottratto al solo periodo di detenzione in carcere, pari a 572 giorni, i quattro mesi di reclusione riportati dal Denaro.
In realtà, sulla scorta di quanto sopra esposto, avrebbe dovuto decurtare di quattro mesi l’intero periodo di custodia in carcere, applicare al risultato i parametro di 235,82 euro e applicare quello di 117 euro per gli ulteriori 351 giorni agli arresti domiciliari.
Dovendo essere l’ordinanza in esame annullata con rinvio in relazione al quarto motivo, questa Corte reputa opportuno che anche il nuovo calcolo venga operato dal giudice del rinvio, alla luce dei parametri qui fissati.
4. Fondato, infatti, è anche il quarto motivo di ricorso.
Ed invero la compensazione delle spese processuali è stata disposta sul rilievo che il Ministero resistente non abbia contrastato la domanda del ricorrente mentre invece risulta che il Ministero nella memoria difensiva ne ha chiesto il
rigetto. Va altresì considerato il principio secondo il quale nel procedimento di riparazione per l’ingiusta detenzione, ove l’Amministrazione non si costituisca
oppure, costituendosi, non si opponga alla pretesa dell’interessato, il giudice, in caso di rigetto dell’istanza di riparazione, non può condannare l’instante alla
refusione delle spese processuali in favore del Ministero resistente, non essendo
(ex multis, configurabile la soccombenza secondo i principi civilistici
Sez. 4, n.
5923 del 21/12/2018, dep. 2019, Rv. 275124 – 01). Quando, invece, la procedura assuma natura contenziosa, come nel caso che occupa, il giudice deve
liquidare le spese secondo il principio della soccombenza; può perciò anche disporre la compensazione tra le parti delle spese del giudizio, ma al proposito
deve esibire una motivazione che dimostri la corretta applicazione della previsione dell’art. 92 cod. proc. civ. laddove nel caso che occupa la motivazione
sul punto tradisce la reale dinamica procedimentale.
5. In conclusione il ricorso del Procuratore Generale della Repubblica presso la
Corte d’appello di Catania va dichiarato inammissibile.
In parziale accoglimento del ricorso per NOME Paolo, l’ordinanza impugnata va annullata limitatamente alla decurtazione dell’indennizzo riconosciuto ed alla statuizione concernente la compensazione tra le parti delle spese del grado di merito, con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte d’appello di Catania. Il ricorso va dichiarato inammissibile nel resto.
P.Q. M .
dichiara inammissibile il ricorso del Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Catania.
Annulla l’ordinanza impugnata limitatamente alla decurtazione dell’indennizzo riconosciuto a NOME NOME e alla statuizione concernente la compensazione tra le parti delle spese del grado di merito, con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte d’appello di Catania.
Dichiara inammissibile nel resto il ricorso di NOMECOGNOME
Così deciso il 27.3.2025