Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 12274 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 12274 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 25/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI TORINO nel procedimento a carico di:COGNOME NOME nato a TORINO il 05/07/1978
MINISTERO ECONOMIA E FINANZE
avverso l’ordinanza del 28/11/2024 della CORTE APPELLO di TORINO
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME
lette le conclusioni del PG che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
letta la memoria difensiva depositata dalla resistente, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’ordinanza indicata in epigrafe la Corte di appello di Torino ha parzialmente accolto la domanda di riparazione per ingiusta detenzione formulata da NOME COGNOME in relazione alla misura cautelare della custodia in carcere applicata nei suoi confronti dal 25/03/2019 al 14/04/2019 e a quella degli arresti domiciliari applicata da tale data sino a 25/07/2019, in forza di ordinanza emessa dal GIP presso il Tribunale di Torino per il delitto previsto dall’art.73, comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n.309, dal quale era stata assolta con sentenza del GUP presso lo stesso Tribunale del 30/10/2019 (divenuta irrevocabile il 14/01/2020).
La Corte d’appello, quale giudice adito ai sensi dell’art.315 cod.proc.pen., ha premesso – in punto di fatto – che la ricorrente era stat tratta in arresto mentre si trovava con il proprio convivente NOME COGNOME COGNOME il quale era stato rinvenuto in possesso di una piccola quantità di hashish; che, all’esito della successiva perquisizione domiciliare, presso l’abitazione della coppia erano stati rinvenuti g 24,84 di hashish, g 21 di eroina, g 2 di marijuana ed € 865,00 in contanti, oltre a bilancini materiale per il confezionamento dello stupefacente, unitamente ad alcuni appunti che, secondo gli operanti, costituivano una sorta di contabilità delle somme ricavate dal commercio delle sostanze; ha esposto che la COGNOME aveva ammesso la detenzione dello stupefacente ma sostenendo che lo stesso fosse destinato a uso personale, dichiarando che la contabilità si riferiva all’attività commerciale dei propri genitori; venendo conseguentemente assolta dal GU Pft il quale aveva contestualmente condannato il COGNOME per il reato previsto dall’art.73, comma 5, T.U. stup..
Il Collegio ha quindi ritenuto spettante il richiesto indennizzo r atteso che – sulla base degli elementi a disposizione del giudice della cautela – per i concorrente nel reato erano stati ritenuti sussistenti gli elementi costituti del reato suddetto, punito – all’epoca del fatto – con la reclusione massima di quattro anni e quindi ostativa rispetto all’applicazione della misura d massimo rigore; ha osservato che doveva invece ritenersi consentita la misura degli arresti domiciliari e che, in relazione alla stessa, doveva riteners ravvisabile una fattispecie concausale di colpa lieve, avendo la ricorrente dichiarato agli operanti un indirizzo diverso rispetto a quello di effettiv residenza, circostanza espressamente analizzata e valorizzata dal giudice del riesame.
Per l’effetto ha riconosciuto alla ricorrente un importo di € 235,82 per ogni giorno trascorso in carcere e di € 58,95 (ovvero la metà di quello
astrattamente riconoscibile di € 117,91) per ogni giorno trascorso agli arresti domiciliari, sino alla misura sopra indicata.
Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Torino, articolando un unitario motivo di impugnazione, nel quale ha dedotto l’erronea applicazione dell’art.314 cod.proc.pen..
Ha ritenuto che, erroneamente, la Corte non avrebbe ravvisato la sussistenza della condizione ostativa del dolo o della colpa grave in capo all’istante; ha sottolineato, sul punto, la condotta mendace tenuta dalla ricorrente la quale, in sede di accertamento, aveva dichiarato alla Polizia giudiziaria di risiedere in INDIRIZZO (abitazione della madre) anziché presso l’effettivo indirizzo di INDIRIZZO; elemento ritenuto dal giudice della riparazione come ininfluente ma sulla base di una valutazione compiuta esclusivamente ex post anziché ex ante.
Ha altresì argomentato che la Corte non avrebbe idoneamente valutato che la ricorrente e il COGNOME convivevano presso lo stesso domicilio, ove era stata rinvenuta sostanza stupefacente unitamente a materiale idoneo al relativo confezionamento; risultandone che la ricorrente aveva volontariamente consentito la detenzione dello stupefacente, oltre a rendere dichiarazioni mendaci idonee a sviare le indagini, qualificandosi il comportamento come prettamente doloso e non assumendo rilevanza il dato della riqualificazione della condotta operata in sede di sentenza.
Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta, nella quale ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
La difesa della resistente ha depositato memoria nella quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato.
Con l’unitario motivo di censura, l’Ufficio ricorrente ha assunto che il giudice della riparazione non avrebbe, nello stretto merito, correttamente valutato la sussistenza del presupposto ostativo del dolo o della colpa grave, non considerando adeguatamente le circostanze del caso concreto in ordine alla valenza sinergica dei comportamenti tenuti dalla istante rispetto alla detenzione subìta.
I
Sul punto, va ricordato che la condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo, rappresentata dall’avere il richiedente dato causa all’ingiusta carcerazione, deve concretarsi in comportamenti, non esclusi dal giudice della cognizione, di tipo extra-processuale (grave leggerezza o macroscopica trascuratezza tali da aver dato causa all’imputazione) o processuale (autoincolpazione, silenzio consapevole sull’esistenza di un alibi), in ordine alla cui attribuzione all’interessato e incidenza sulla determinazione della detenzione il giudice è tenuto a motivare specificamente (Sez.4, 3/6/2010, n.34656, COGNOME, RV. 248074; Sez.4, 21/10/2014, n.4372/2015, COGNOME COGNOME, RV. 263197; Sez.3, 5/7/2022, n.28012, COGNOME, RV. 283411); in particolare, il giudice di merito, per stabilire se chi ha patito la detenzione vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve valutare tutti gli elementi probatori disponibili, al fine di stabilire, con valutazione ex ante e secondo un iter logicomotivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito – non se tale condotta integri gli estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale (Sez.4, 22/9/2016, n.3359/2017, COGNOME, RV. 268952), con particolare riferimento alla commissione di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti (Sez. 4, 05/02/2019, n.27548, COGNOME, RV. 276458).
Deve altresì essere ricordato che, sulla base dell’arresto espresso da Sez. U, 13/12/1995, n.43, dep.1996, COGNOME, RV. 203638, nel procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione è necessario distinguere nettamente l’operazione logica propria del giudice del processo penale, volta all’accertamento della sussistenza di un reato e della sua commissione da parte dell’imputato, da quella propria del giudice della riparazione ; il quale, pur dovendo operare, eventualmente, sullo stesso materiale, deve seguire un iter logico-motivazionale del tutto autonomo, perché è suo compito stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se queste si sono poste come fattore condizionante (anche nel concorso dell’altrui errore) alla produzione dell’evento “detenzione”; ed in relazione a tale aspetto della decisione egli ha piena ed ampia libertà di esaminare il materiale acquisito nel processo, non già per rivalutarlo, bensì al fine di controllare la ricorrenza o meno delle condizioni dell’azione (di natura civilistica), sia in senso positivo che negativo, compresa l’eventuale sussistenza di una causa di esclusione del diritto alla riparazione; derivandone, in diretta conseguenza di tale principio, quello ulteriore in base
al quale il giudice del procedimento di riparazione per ingiusta detenzione può rivalutare fatti emersi nel processo penale, ivi accertati o non esclusi, ma ciò al solo fine di decidere sulla sussistenza del diritto alla riparazione (Sez.4, 10/6/2010, n.27397, COGNOME, RV. 247867; Sez.4, 14/12/2017, n.3895/2018, P., RV. 271739); con il solo limite di non potere ritenere provati fatti che tali non sono stati considerati dal giudice della cognizione ovvero non provate circostanze che quest’ultimo ha valutato dimostrate (Sez. 4, Sentenza n. 12228 del 10/01/2017, Quaresima, Rv. 270039).
Nel caso di specie, devono ritenersi fondate le censure spiegate dall’Ufficio ricorrente in ordine alle carenze motivazionali ravvisabili nel provvedimento impugnato, alla luce dei principi sopra riassunti.
In particolare, il giudice della riparazione non ha adeguatamente considerato il dato fenomenico rappresentato dalla convivenza, all’interno della medesima abitazione, tra la ricorrente e il soggetto ritenuto successivamente responsabile della detenzione di sostanza stupefacente, senza che nel provvedimento sia stato dato concretamente atto delle modalità di custodia e di eventuale occultamento delle sostanze medesime.
Deve quindi ritenersi che il giudice della riparazione non abbia fornito adeguata motivazione in ordine al dato rappresentato dalla eventuale connivenza della ricorrente nella condotta tenuta dall’imputato, pure se la stessa situazione non è stata ritenuta idonea a fondare un giudizio di condanna.
Sulla relativa questione deve essere ricordato che – per giurisprudenza assolutamente consolidata di questa Corte – anche l’atteggiamento di mera connivenza (e pure se a questa sia attribuibile una connotazione meramente passiva) è idonei a escludere – in quanto comunque qualificabile come gravemente colposé – che sussista un diritto al riconoscimento dell’indennizzo quando, con presupposti tra loro non cumulativi ma alternativi, il comportamento: 1) sia indice del venir meno di elementari doveri di solidarietà sociale per impedire il verificarsi di gravi danni alle persone o alle cose; 2) si concretizzi non già in un mero comportamento passivo dell’agente riguardo alla consumazione del reato ma nel tollerare che tale reato sia consumato, sempreché l’agente sia in grado di impedire la consumazione o la prosecuzione dell’attività criminosa in ragione della sua posizione di garanzia; 3) risulti aver oggettivamente rafforzato la volontà criminosa dell’agente, benché il connivente non intendesse perseguire tale effetto e vi sia la prova positiva che egli fosse a conoscenza dell’attività criminosa dell’agente (Sez. 4, Sentenza n. 15745 del 19/02/2015, COGNOME,
Rv. 263139; Sez. 3, n. 22060 del 23/01/2019, COGNOME, Rv. 275970 – 02; Sez. 4, n. 4113 del 13/01/2021, Sanyang, Rv. 280391).
Si tratta di situazione non adeguatamente considerata dalla Corte territoriale, concretizzandosi quindi il denunciato vulnus motivazionale.
Deve ritenersi fondato, altresì, il punto di doglianza attinente alla valenza attribuita dalla Corte – in punto di determinazione finale dell’indennizzo – al dato rappresentato dalla non sottoponibilità della ricorrente alla misura di massimo rigore in relazione alla riqualificazione della fattispecie operata, nei confronti del coindagato, sotto l’ambito del reato previsto dall’art.73, comma 5, T.U. stup..
Sul punto, difatti, questa Corte ha ritenuto che il mutamento della qualificazione giuridica del fatto è irrilevante ai fini del riconoscimento del diritto alla riparazione in presenza di un’accertata condotta gravemente colposa che abbia concorso a dare causa all’emissione del provvedimento restrittivo della libertà personale (Sez. 3, n. 19748 del 18/03/2010, COGNOME, Rv. 247176; Sez. 4, n. 28354 del 22/06/2022, COGNOME, Rv. 2834471 ( che ha affermato il relativo principio in una fattispecie di applicazione al ricorrente di misura custodiale per concorso nel reato di illecita detenzione di stupefacenti poi riqualificato, in grado di appello, in favoreggiamento personale, dichiarato non punibile ex art. 384 cod. pen., in cui la Corte ha comunque qualificato come dolosa ed atta a ingenerare la convinzione della sussistenza di un grave quadro indiziario la condotta consistita nel lancio dalla finestra di un involucro contenente la sostanza).
Infine, appare fondato anche il profilo di doglianza con il quale l’Ufficio ricorrente ha censurato la decisione gravata per avere qualificato unicamente sotto il profilo della colpa lieve la condotta consistita nell’avere inizialment indicato agli operanti un indirizzo di residenza non veritiero; elemento, tra l’altro, espressamente valorizzato in sede di procedimento di riesame.
Sul punto, va difatti rilevato che in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, anche a seguito della modifica dell’art. 314 cod. proc. pen. ad opera dell’art. 4, comma 4, lett. b), d.lgs. 8 novembre 2021, n. 188, il mendacio dell’indagato in sede di interrogatorio, ove causalmente rilevante rispetto alla determinazione cautelare, costituisce una condotta volontaria equivoca rilevante ai fini dell’accertamento del dolo o della colpa grave ostativi al riconoscimento del diritto alla riparazione, posto che la falsa prospettazione di situazioni, fatti o comportamenti non è condotta assimilabile al silenzio serbato nell’esercizio della facoltà difensiva previst
dall’art. 64, comma 3, lett. b), cod. proc. pen. (Sez. 4, n. 3755 de 20/01/2022, Pacifico, Rv. 282581; Sez. 4, n. 24608 del 21/05/2024, F., Rv. 286587).
Alla luce delle predette considerazioni, l’ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Torino, affinché rivaluti – sulla base dei predetti principi – il profilo relativo all’an e al quantum dell’indennizzo richiesto.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla Corte di Appello di Torino.
Così deciso il 25 febbraio 2025
Il Con sliere estensore
Il Presidente