Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 12748 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 12748 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 17/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOME nata a Poggio Rusco il 17/7/1965
avverso la sentenza emessa il 30 maggio 2024 dalla Corte d’appello di Brescia
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso. udite le richieste del difensore, Avv. NOME COGNOME quale sostituto processuale dell’Avv. NOME COGNOME che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Brescia che, per quanto rileva in questa Sede, ne ha confermato la condanna aiia pena ritenuta di giustizia per il reato di cui all’articolo 319 -quater, comma secondo, cod. pen.
Deduce due motivi di ricorso di seguito riassunti nei termini strettamente necessari per la motivazione.
1.1. Violazione dell’art. 63 cod. proc. pen. e inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’appuntato COGNOME nonché, per l’effetto, di quelle de relato del luogotenente COGNOME
Sostiene la ricorrente che le dichiarazioni da questa rese nel corso di una conversazione telefonica con COGNOME (“il colonnello COGNOME mi è costato 30.000 euro per non fare niente”) non sono utilizzabili in quanto, avendo la ricorrente reso dichiarazioni autoaccusatorie, sono state assunte senza le garanzie previste dall’art. 63 cod. proc. pen. Sono, pertanto, errate le argomentazioni sul punto della sentenza impugnate che fanno leva: i) sulla mancata impugnazione nel corso del giudizio di primo grado dell’ordinanza ammissiva della prova testimoniale; ii) sulla non applicabilità della norma processuale nel caso di specie. Sostiene, invece, la ricorrente che la norma processuale trova applicazione nonostante le dichiarazioni siano state ricevute in via confidenziale da COGNOME e nonostante questo non prestasse servizio presso gli uffici di Suzzara.
Per tale ragione si eccepisce anche la inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da COGNOME in quanto lo stesso ha riferito de relato le informazioni apprese da COGNOME.
1.2. Violazione di legge ed erronea qualificazione giuridica del fatto che, in tesi difensiva, dovrebbe essere sussunto nell’art. 346 cod. pen. ovvero nell’art. 346-bis cod. pen., nella versione vigente all’epoca dei fatti, con conseguente non punibilità della ricorrente.
Si deduce, a tal fine, che, anche a voler ritenere utilizzabili le dichiarazioni rese da COGNOME ed COGNOME: i) manca nel caso di specie una induzione da parte del pubblico ufficiale risultando, di contro, che fu COGNOME a suggerire alla ricorrente di rivolgersi ad Urban, il quale, peraltro, si limitò a suggerire alla ricorrente il nome di un avvocato tributarista; ii) Urban non aveva alcun potere di ingerirsi nella procedura di verifica a carico della società della ricorrente e del marito e, come riferito dal teste COGNOME non ha tenuto alcun atteggiamento, ostruzionistico o di favore, con riferimento all’accertamento a carico della società RAGIONE_SOCIALE; iii) al di là delle due visite di cortesia presso il Comando di Suzzara, non vi sono stati altri incontri tra la ricorrente e Urban; iv) non vi è prova di alcun pagamento effettuato dalla ricorrente.
Risulta, invece, che tutta l’attività svolta da RAGIONE_SOCIALE con COGNOME era volta a far credere alla ricorrente che il primo fosse in grado di intervenire a suo favore nella verifica fiscale. Peraltro, ai fini della eventuale riqualificazione del fatto sensi dell’art. 346-bis cod. pen., non vi è alcuna prova che l’asserito accordo tra Urban e la ricorrente avesse ad oggetto una mediazione illecita.
Il Procuratore Generale ha depositato una memoria in cui ha chiesto il rigetto del ricorso, rilevando, quanto al primo motivo di ricorso, la sua genericità ed aspecificità rispetto alle argomentazioni della sentenza impugnata che ha escluso l’applicabilità dell’art. 63 cod. proc. pen. in ragione dell’inesistenza, in quel momento, finanche di un procedimento penale in cui dovessero essere inserite le suddette dichiarazioni, argomento, questo, non censurato dalla ricorrente che si limita a reiterare la medesima eccezione dedotta in appello; quanto al secondo motivo, ne rileva la genericità per omesso confronto con le argomentazioni della sentenza impugnata che ha posto l’accento, in primo luogo, sul fatto che l’effettiva promessa o dazione di un’utilità risulta riscontrata in almeno tre incontri tra Urban, COGNOME e la ricorrente. Si sottolinea, inoltre, che ai fini della configurabilità del reato ascritto è sufficiente che l’atto oggetto d mercimonio rientri nella sfera di competenza o di influenza dell’ufficio di appartenenza del pubblico ufficiale e che risultano dalla sentenza impugnata le interferenze di Urban nell’attività ispettiva in corso, come l’essersi ripetutamente recato dal Lgt. COGNOME, Comandante della Tenenza della Guardia di Finanza di Suzzara, in precedenza diretto sottoposto di Urban allorché questi era comandante del Comando Provi41e di Mantova.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è complessivamente infondato e va, pertanto, rigettato per le ragioni di seguito esposte.
Il primo motivo è inammissibile in quanto generico e manifestamente infondato. La ricorrente, infatti, si limita ad insistere nella sua tesi senza confrontarsi criticamente con la motivazione della sentenza impugnata e, soprattutto, con l’argomento, a giudizio del Collegio decisivo, relativo a al fatto che, nel momento in cui avvenne la conversazione telefonica tra COGNOME e COGNOME, quest’ultimo non svolgeva alcuna funzione nel procedimento amministrativo a carico della società, essendo stato trasferito a Todi, e, soprattutto, non vi era alcun procedimento penale a carico della ricorrente.
Come premesso, si tratta di un argomento decisivo in quanto, ad avviso del Collegio, le garanzie e la sanzione processuale previste dall’art. 63 cod. proc. pen. sono normativamente limitate alle sole dichiarazioni rese davanti all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria.
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Ne consegue, pertanto, che le dichiarazioni rese dalla ricorrente sono estranee al perimetro di applicabilità della norma, trattandosi di dichiarazioni rese in via confidenziale ad un soggetto che non risultava svolgere funzioni di
polizia giudiziaria e in un momento in cui non era stato ancora aperto alcun procedimento penale a carico della ricorrente o di terzi.
Oltre alla inapplicabilità dell’art. 63 cod. proc. pen., va, inoltre, rilevato ch le dichiarazioni rese da COGNOME e, conseguentemente, anche quelle rese da COGNOME, sono utilizzabili anche in ragione della consolidata regula iuris che limita il divieto di testimonianza sulle dichiarazioni rese dall’imputato o dalla persona sottoposta alle indagini alle dichiarazioni rese, nel corso del procedimento, all’autorità giudiziaria, alla polizia giudiziaria e al difensore nell’ambi dell’attività investigativa, escludendo da tale divieto le dichiarazioni, anche se a contenuto confessorio, rese dall’imputato o dall’indagato ad un soggetto non rivestente alcuna di tali qualifiche o a un agente di polizia al di fuori del contesto procedimentale, non sussistendo, in tale caso, il collegamento funzionale con il procedimento penale alla base del divieto stesso (Sez. 5, n. 38457 del 17/05/2019, COGNOME, Rv. 277093; Sez. 5, n. 30895 del 09/03/2016, COGNOME, Rv. 267699; Sez. 5, n. 8897 del 19/11/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 266127).
3. Il secondo motivo è infondato.
3.1. Preliminarmente, va rammentato che, secondo l’ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte regolatrice – espressa anche a Sezioni Unite – il delitto di induzione indebita, di cui all’art. 319-quater cod. pen., è caratterizzato, sotto il profilo oggettivo, da una condotta di pressione non irresistibile da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, che lascia al destinatario un margine significativo di autodeterminazione e si coniuga con il perseguimento di un indebito vantaggio per lo stesso, distinguendosi dal reato di concussione, il quale si configura quando la condotta del pubblico ufficiale limita radicalmente la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo (Sez. U, n. 12228 del 2014, COGNOME, Rv. 258470; Sez. 6, n. 15641 del 19/10/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 286376 – 05; Sez. 6, n. 37655 del 11/07/2014, COGNOME, Rv. 260183; Sez. 6, n. 5496 del 07/11/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 259055).
Le Sezioni Unite, nel definire il rapporto tra il reato in esame e quello di concussione, hanno, infatti, chiarito che la condotta di “induzione” si distingue dall’abuso costrittivo che connota il reato di concussione, in quanto consiste in un’attività di persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in un’induzione in errore), di pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivata dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico (Sez. U. n. 12228 del 2014, Maldera, cit.).
Le Sezioni Unite hanno, inoltre, perimetrato il confine tra le due modalità di realizzazione della condotta del pubblico agente chiarendo che: a) l’abuso della qualità – c.d. abuso soggettivo – consiste nell’uso indebito della posizione personale rivestita dal pubblico funzionario e, quindi, nella strumentalizzazione da parte di costui non di una sua attribuzione specifica, bensì della propria qualifica soggettiva – senza alcuna correlazione con atti dell’ufficio o del servizio – così da fare sorgere nel privato rappresentazioni costrittive o induttive di prestazioni non dovute; b) tale abuso della qualità, per assumere rilievo come condotta costrittiva o induttiva, deve sempre concretizzarsi in un facere ( on è configurabile in forma omissiva) e deve avere una efficacia psicologicamente motivante per il soggetto privato che deve comunque avvertire la possibile estrinsecazione dei poteri del pubblico agente, con conseguenze per sé pregiudizievoli o anche ingiustamente favorevoli e, proprio per scongiurare le prime o assicurarsi le seconde, decide di aderire all’indebita richiesta; c) l’abuso dei poteri – c.d. abuso oggettivo – consiste invece nella strumentalizzazione da parte del pubblico agente dei poteri a lui conferiti, nel senso che questi sono esercitati in modo distorto, vale a dire per uno scopo oggettivamente diverso da quello per cui sono stati conferiti e in violazione delle regole giuridiche di legalità, imparzialità e buon andamento dell’attività amministrativa; d) tale abuso può essere realizzato in forma sia commissiva che omissiva, potendo il pubblico funzionario deliberatamente astenersi dall’esercizio dei propri poteri, ricorrendo a sistemi defatigatori di ritardo o di ostruzionismo volti a conseguire la dazione o la promessa di denaro o di altra utilità in cambio del sollecito compimento dell’atto richiesto (si veda, in tal senso, anche Sez. 6, n. 10066 del 25/02/2021, COGNOME, Rv. 280942).
Nella successiva giurisprudenza delle Sezioni semplici si è, inoltre, aggiunto che l’abuso della qualità che connota la prevaricazione abusiva del pubblico ufficiale comprende la spendita o la prospettazione, da parte dell’agente, di un efficace potere di ingerenza nel compimento di atti formalmente estranei alle proprie competenze, ma pur sempre spettanti alla pubblica amministrazione cui egli è preposto, in modo da procurare nel soggetto interessato la percezione di poter subire conseguenze sfavorevoli o, al contrario, ingiustamente favorevoli (Sez. 3, n. 29321 del 14/07/2020, Rv. 280439 – 02).
3.2. La sentenza impugnata, con motivazione immune da vizi logici o giuridici, muovendosi nel solco della giurisprudenza di questa Corte, ha legittimamente qualificato la condotta della ricorrente ai sensi dell’art. 319quater cod. pen., escludendone la riconducibilità alle diverse fattispecie su cui insiste il motivo in esame (artt. 346 o 346-bis cod. pen.).
Premesso che non assume alcuna rilevanza, ai fini della configurabilità del reato, l’iniziativa assunta dal privato indotto, si è, in primo luogo, posto l’accento
sull’abuso di qualità posto in essere da Urban, sia pure con la mediazione di COGNOME nel prospettare alla ricorrente il suo potere di influenza sui militari della Tenenza di Suzzara, che stavano procedendo alla verifica fiscale a carico della società riconducibile alla ricorrente e al marito.
In secondo luogo, la Corte territoriale, motivando adeguatamente sulla credibilità delle dichiarazioni rese da COGNOME, ha valorizzato l’accordo intercorso tra Urban e la ricorrente avente ad oggetto un intervento del primo sui militari che stavano procedendo alla verifica fiscale, dietro pagamento di una somma di denaro di cui, secondo quanto riferito da COGNOME, la ricorrente aveva già versato 30.000 euro, avendo, tuttavia, in programma un altro incontro per la consegna di una ulteriore somma di denaro necessaria per mettere a tacere non meglio specificati rilievi o problematiche correlate alla verifica ispettiva (cfr. p. 19 della sentenza di primo grado).
La condizione di soggezione della ricorrente emerge proprio dalla complessiva ricostruzione fattuale, desunta, oltre che dalla deposizione di COGNOME anche dal contenuto dei messaggi rinvenuti nei telefoni cellulari in sequestro.
Assumono, a tal fine, rilevanza sia le connotazioni del rapporto tra la ricorrente e Urban che il rilevante ammontare della somma versata dalla COGNOME: la Corte territoriale ha, infatti, posto l’accento, trascrivendo a tal fine anche il contenuto dei messaggi inviati da COGNOME a Urban e di quelli tra il primo e la COGNOME, sulle allusioni relative al potere esercitabile da Urban, veicolate da COGNOME, il quale, a fronte dell’evidente interesse della donna a far “chiudere” la verifica fiscale, la rassicurava in merito al potere di influenza di Urban sui militari della Tenenza di Suzzara ed organizzava gli incontri con il pubblico ufficiale, dandole indicazioni sugli appuntamenti e sulle modalità di consegna del denaro, nonché raccomandandole, in una occasione, di portare, oltre alla busta con i soldi, anche una «borsettina» per la moglie del pubblico ufficiale, elemento, quest’ultimo, ulteriormente sintomatico della condizione di soggezione della ricorrente rispetto a Urban.
Ad ulteriore riscontro della concretezza dell’accordo e dell’impegno assunto da Urban, la Corte territoriale ha sottolineato la sovrapponibilità cronologica tra gli incontri tra la ricorrente e il pubblico ufficiale e le visite di quest’ultimo comandante di Suzzara (Errante), il quale ha riferito dei colloqui avuti con Urban che, in una circostanza, gli chiese del marito della ricorrente e, in altra, manifestò interesse ad avere notizie riservate sull’attività ispettiva a suo carico.
Sulla base di tale ricostruzione fattuale, la sentenza impugnata ha, dunque, legittimamente escluso la sussunnibilità del fatto sia nel delitto di traffico di influenze, tenuto conto delle connotazioni sopra descritte del rapporto e della percezione diretta dell’utilità da parte del pubblico ufficiale (cfr. Sez. 6, n. 4113
del 14/12/2016, dep. 2017, Rigano, Rv. 269736), che nel delitto di millantato credito, escludendo che la suggestione relativa al potere di influenza di Urban possa ricondursi ad una mera millanteria del pubblico ufficiale, provenendo da un soggetto appartenente al medesimo corpo dei verificatori e in posizione sovraordinata rispetto a questi.
Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 17 gennaio 2025