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Indennità di esclusività: truffa e silenzio colpevole

La Corte di Cassazione conferma la condanna per truffa aggravata a una dipendente sanitaria che, pur svolgendo attività professionale privata, ha percepito per anni l’indennità di esclusività. Secondo la Corte, il silenzio maliziosamente serbato sulla propria situazione lavorativa integra l’elemento del raggiro, inducendo in errore l’amministrazione pubblica e causando un danno economico.

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Pubblicato il 10 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Indennità di Esclusività: Quando il Silenzio Diventa Truffa Aggravata

La recente sentenza della Corte di Cassazione Penale, n. 12967 del 2024, offre un’importante lezione sulla responsabilità dei dipendenti pubblici in relazione alla percezione dell’indennità di esclusività. Questo caso chiarisce come anche un comportamento omissivo, ovvero il silenzio malizioso, possa configurare il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato. Approfondiamo i dettagli di questa decisione per comprenderne la portata e le implicazioni.

I Fatti del Caso

Una dipendente sanitaria di un’Azienda Sanitaria Locale (ASL) è stata condannata in primo e secondo grado per truffa aggravata. La professionista, pur avendo un rapporto di lavoro che prevedeva l’esclusività, svolgeva contemporaneamente un’attività professionale privata (extra moenia). Di conseguenza, percepiva indebitamente l’indennità di esclusività, un compenso economico specificamente legato all’impegno di non esercitare altre professioni.

La difesa della dipendente sosteneva che non vi fosse stata alcuna condotta fraudolenta. Secondo la sua tesi, il rapporto di lavoro non esclusivo era stato semplicemente trasferito da un’ASL precedente e che l’erogazione dell’indennità era frutto di un errore interpretativo da parte della nuova amministrazione. La percezione delle somme sarebbe avvenuta in buona fede, nella convinzione che si trattasse di un compenso per il surplus di lavoro svolto.

La Decisione della Corte sull’Indennità di Esclusività

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la condanna. I giudici hanno stabilito che il comportamento della dipendente integrava pienamente gli estremi del reato di truffa aggravata ai sensi dell’art. 640 del codice penale.

Il punto centrale della decisione è che il raggiro, elemento costitutivo della truffa, non consiste necessariamente in un’azione positiva. Anche un silenzio ‘maliziosamente serbato’ su circostanze rilevanti può essere sufficiente a indurre in errore la controparte. In questo caso, la dipendente ha omesso per anni di comunicare all’amministrazione lo svolgimento di un’attività privata, una circostanza che, se conosciuta, avrebbe impedito l’erogazione dell’indennità.

Inammissibilità del Motivo sulle Statuizioni Civili

La Corte ha inoltre dichiarato inammissibile il motivo di ricorso relativo alle statuizioni civili (risarcimento del danno). I giudici hanno ricordato un principio fondamentale del processo: se una parte della sentenza di primo grado non viene specificamente contestata in appello, essa passa in giudicato. Poiché la difesa non aveva impugnato le statuizioni civili nel secondo grado di giudizio, non poteva farlo per la prima volta in Cassazione.

Le Motivazioni della Sentenza

La motivazione della Corte si fonda su diversi pilastri. In primo luogo, viene valorizzata la consapevolezza della ricorrente. La voce ‘indennità per lavoro in esclusiva’ era chiaramente indicata in ogni busta paga, rendendo inverosimile la tesi della buona fede o della confusione con un compenso per lavoro straordinario. L’omessa comunicazione dell’attività extra moenia e la mancata restituzione delle somme indebitamente percepite per un lungo periodo sono state interpretate come una condotta finalizzata a mantenere l’amministrazione in uno stato di errore.

La Corte ha sottolineato che il silenzio della dipendente ha integrato l’elemento del raggiro, influenzando la volontà negoziale dell’ente pubblico. Questo comportamento ha causato un danno economico all’ASL, costretta a erogare somme non dovute, e ha garantito un ingiusto profitto alla professionista. La tesi difensiva, basata su presunti errori dell’amministrazione e su una questione di rilevanza puramente civilistica, è stata respinta come manifestamente infondata.

Le Conclusioni

Questa sentenza ribadisce con forza il dovere di correttezza e trasparenza che grava sui dipendenti pubblici. La percezione dell’indennità di esclusività è strettamente condizionata a un preciso impegno, la cui violazione, se non comunicata, può avere gravi conseguenze penali. Il principio affermato è chiaro: il silenzio consapevole e mantenuto nel tempo su una circostanza che incide sul diritto a una componente retributiva non è una mera negligenza, ma una condotta fraudolenta che configura il reato di truffa. I professionisti del settore pubblico devono quindi prestare la massima attenzione alla comunicazione di ogni variazione del proprio status che possa influire sul rapporto di lavoro e sulla retribuzione.

Il silenzio di un dipendente pubblico riguardo a un’attività privata può costituire reato di truffa?
Sì. Secondo la Corte di Cassazione, il silenzio maliziosamente serbato su circostanze rilevanti, come lo svolgimento di un’attività professionale privata incompatibile con l’indennità di esclusività, integra l’elemento del raggiro necessario per configurare il reato di truffa, in quanto idoneo a indurre in errore l’amministrazione.

Percepire un’indennità non dovuta per un presunto errore dell’amministrazione esclude la responsabilità penale?
No. La Corte ha ritenuto che la chiara indicazione della causale (‘indennità per lavoro in esclusiva’) sulla busta paga rendesse la dipendente consapevole di ciò che stava percependo. L’aver omesso per anni di segnalare l’errore e di restituire le somme dimostra la consapevolezza e la volontà di trarre un ingiusto profitto, escludendo la buona fede.

È possibile contestare in Cassazione le decisioni sul risarcimento del danno se non sono state impugnate in appello?
No. La sentenza chiarisce che se le statuizioni civili del giudice di primo grado non vengono specificamente contestate con un motivo d’appello, esse acquistano efficacia di giudicato. Di conseguenza, il relativo motivo di ricorso in Cassazione è inammissibile.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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