Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 30435 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 30435 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 08/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOME nata a Cerignola il 15/05/1956
avverso la sentenza emessa il 9 gennaio 2025 dalla Corte d’appello di Milano
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso.
RILEVATO IN FATTO
1.NOME COGNOME ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Milano che ne ha confermato la condanna alla pena ritenuta di giustizia per il reato di cui all’art. 316ter cod. pen. La condanna attiene alla indebita erogazione alla ricorrente della indennità di disoccupazione (NASPI) per un ammontare complessivo di euro 17.242,98, in conseguenza della mancata comunicazione all’I.N.P.S. della circostanza relativa al reimpiego in attività lavorativa all’estero a partire dall’11 novembre 2016 fino al 22 novembre 2018.
La ricorrente deduce quattro motivi di ricorso di seguito riassunti nei termini strettamente necessari per la motivazione.
1.1. Violazione dell’art. 157 cod. pen. in relazione all’omessa declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione delle condotte riferite agli anni 2016 e 2017. Sostiene la ricorrente che il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite all’udienza del 28 novembre 2024 non può applicarsi retroattivamente, in quanto ciò contrasta con il principio di legalità e di irretroattività della norma sfavorevole ed è difforme rispetto al precedente orientamento giurisprudenziale che considerava ciascuna annualità come autonoma condotta penalmente rilevante.
1.2 Erronea qualificazione giuridica della condotta ascritta alla ricorrente, posto che la stessa non ha tenuto alcuna condotta mendace al fine di conseguire le indebite erogazioni.
1.3. Vizio di motivazione e violazione del diritto di difesa in relazione alla utilizzazione nei confronti dell’imputata di elementi probatori unilaterali, non sottoposti ad esaustiva verifica dibattimentale e in assenza della citazione in giudizio dell’I.NRAGIONE_SOCIALES., il quale, peraltro, non si è costituito parte civile. Si segnala, inoltre, che la ricorrente si è rivolta ad un C.A.F., non ha compilato nulla, ma si è limitata a rispondere alle domande dell’operatore. Si precisa, infine, che la ricorrente aveva presentato la domanda di indennità NASPI in relazione al rapporto con la ditta RAGIONE_SOCIALE dalla quale era stata licenziata il 31/10/2016, senza tacere che sin dal 2013 aveva lavorato part-time presso la società RAGIONE_SOCIALE Tale contratto era in essere al momento in cui la ricorrente presentò la domanda e di tale circostanza erano a conoscenza sia l’I.N.P.S. che il C.A.F.
1.4. Violazione di legge e vizio della motivazione in relazione al diniego della causa di non punibilità di cui all’art. 131bis CP, trattandosi di una sola domanda non istruita correttamente da terzi, in relazione alla quale la ricorrente non ha prodotto alcuna documentazione falsa, e tenuto conto della sua incensuratezza e della lieve intensità del dolo. Si richiama a tal fine Sez. 3, 26810 del 2020 che ha applicato l’istituto in relazione a un importo inferiore a 20.000 euro.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso va dichiarato inammissibile per le ragioni di seguito esposte.
Il primo motivo è manifestamente infondato. La tesi della ricorrente muove, infatti, dall’erroneo presupposto della assoluta novità del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 11969 del 28/11/2024, dep. 2025, COGNOME, Rv. 287649 -02, in cui la Corte ha affermato che in tema di indebita
percezione di erogazioni pubbliche, nell’ipotesi in cui il diritto alla riduzione dei contributi previdenziali e alle agevolazioni previste per il collocamento dei lavoratori in mobilità dall’art. 8 legge 23 luglio 1991, n. 223 (abrogato, a decorrere dal primo gennaio 2017, dall’art. 2, comma 71, lett. b), legge 28 giugno 2012, n. 92) sia stato indebitamente conseguito per effetto di una originaria condotta mendace od omissiva, il reato è unitario a consumazione prolungata quando i relativi benefici economici siano concessi o erogati in ratei periodici e in tempi diversi, con la conseguenza che la sua consumazione cessa con la percezione dell’ultimo contributo.
Contrariamente a quanto apoditticamente afferma la ricorrente, tale principio non costituisce un overruling rispetto ad un precedente e consolidato indirizzo ermeneutico, idoneo a ingenerare un affidamento incolpevole meritevole di tutela.
Le Sezioni Unite hanno , infatti, semplicemente ratificato l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario , che considerava il reato di cui all’art. 316 -ter cod. pen. come reato unitario ad esecuzione prolungata, dando atto della natura meramente apparente del contrasto segnalato dalla Sezioni rimettente. Ad avviso delle Supremo C onsesso, l’apparente opposto indirizzo, affermato da Sez. 6, n. 31223/2021, si giustifica in relazione alla peculiarità della fattispecie concreta in quanto, nel caso esaminato, veniva in rilievo, non una singola condotta omissiva, fonte di erogazioni dilazionate nel tempo, «bensì molteplici condotte tipiche, consistenti nella presentazione di plurimi modelli “DM10”, recanti singoli e distinti conguagli, in realtà non consentiti in ragione dell’omessa corresponsione dei contributi previdenziali spettanti al dipendente».
Sulla base di tali considerazioni, le Sezioni Unite hanno, pertanto, escluso la sussistenza di un contrasto ermeneutico sulla questione rimessa, ribadendo che nell’ipotesi, ricorrente nel caso in esame, in cui la pluralità delle erogazioni sia causalmente riconducibile ad un unico fatto originario, lesivo del medesimo bene tutelato (la corretta distribuzione delle risorse pubbliche) e rappresentato da una iniziale condotta decettiva ovvero di omessa informazione doverosa riguardo all’esistenza di circostanze ostative al conseguimento dei benefici oggetto delle agevolazioni contributive (cfr. punto 14.6.), l’iniziale deliberazione si invera attraverso una condotta omissiva unica, non ulteriormente frazionabile in una pluralità di atti deliberativi specificamente riferibili ad ogni singola percezione delle agevolazioni contributive. Si è, dunque, al cospetto della prosecuzione degli effetti di una originaria illecita deliberazione, cui si ricollegano, da un lato, l’impossibilità di realizzare l’artificiosa frantumazione di una condotta geneticamente sorta come unitaria e, dall’altro lato, la necessità di tener conto dell’importo complessivo delle
somme indebitamente accumulate nel tempo a seguito della iniziale condotta attiva od omissiva.
Il secondo e terzo motivo, da esaminare congiuntamente in quanto tra loro logicamente connessi, sono generici e manifestamente infondati. La ricorrente si limita, infatti, ad insistere sulla propria buona fede nei medesimi termini assertivi già evidenziati dalla Corte territoriale (cfr. pagina 3). Il tutto omettendo di confrontarsi criticamene con la motivazione della sentenza impugnata che, richiamando il compendio probatorio acquisito in primo grado, ha individuato il nucleo della condotta criminosa ascritta alla ricorrente, idoneo alla sua sussumibilità nel paradigma del reato di cui all’art. 316 -ter cod. pen., nella falsità della dichiarazione relativa alla propria condizione di disoccupazione (p. 4) a seguito della quale la donna ha percepito due anni di indennità.
Priva di pregio, oltre che meramente assertiva e di difficile comprensione, è, infine, la doglianza circa la asserita violazione del diritto di difesa.
Il quarto motivo è generico e manifestamente infondato. La Corte territoriale, infatti, con motivazione non manifestamente illogica e persuasiva, con la quale la ricorrente omette il dovuto confronto critico, ha negato il beneficio richiesto in ragione della non tenuità del fatto desunta dalla entità e dalla durata delle percezioni fraudolente, protrattesi per ben due anni, durante i quali la ricorrente ha percepito l’indennità non dovuta tacendo la propria condizione di occupata part time.
All’inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila da versare in favore della Cassa delle ammende, non potendosi ritenere che lo stesso abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. n. 186 del 2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso l’ 8 luglio 2025