Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 6838 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 6838 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 21/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOMECOGNOME nato a Torano Nuovo il 19/05/1940
avverso la sentenza del 16/05/2024 della Corte di appello di L’Aquila visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile; udito il difensore, avv. NOME COGNOME che ha concluso chiedendo
l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di L’Aquila riformava, sull’appello del P.M., la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Teramo del 28 agosto 2023 che aveva assolto, all’esito di giudizio abbreviato, l’imputato NOME COGNOME dal reato di cui agli artt. 81 e 316-ter co
n
pen. perché il fatto non costituiva reato, e segnatamente dichiarava la sua responsabilità penale e lo condannava alla pena di anni uno di reclusione.
All’imputato era stato contestato di aver, quale legale rappresentante di una società, conseguito indebitamente contributi, erogati a fondo perduto dall’Agenzia delle Entrate per far fronte alla diminuzione di fatturato per l’emergenza Covid (d.l. del 19 maggio 2020 n. 34, c.d. decreto rilancio), per un importo complessivo di euro 144.732, mediante la presentazione di dichiarazioni attestanti circostanze false e, comunque, omettendo informazioni dovute e segnatamente per aver rappresentato circostanze non veritiere sull’entità del fatturato per il mese di april 2019 e aver omesso di comunicare che la fattura si riferiva in realtà ad un’operazione che non aveva creato una effettiva movimentazione di cassa.
Mentre il primo giudice aveva escluso il dolo dell’imputato, la Corte di appello riteneva questa conclusione non condivisibile in quanto non solo vi era un ampio scostamento tra il fatturato effettivo e quello rappresentato, ma l’imputato era ben consapevole, nel presentare l’istanza telematica, che la fattura in questione fosse relativa ad una vendita giudiziaria di un immobile, addebitata alla società solo per ragioni fiscali.
Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, denunciando i motivi di annullamento, di seguito sintetizzati conformemente al disposto dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Violazione di legge in relazione agli artt. 125, 546, 598 cod. proc. pen. e vizio di motivazione in caso di riforma di giudizio assolutorio.
La motivazione che sorregge la riforma risulta priva dei caratteri indicati dalla giurisprudenza di legittimità.
La Corte di appello non ha infatti dimostrato la unicità ed incontrovertibilit della interpretazione, limitandosi a proporre una lettura alternativa delle evidenze, ritenuta più condivisibile e corretta di quella liberatoria.
Il primo giudice aveva ritenuto non raggiunta la prova del dolo, mentre la Corte di appello in termini assertivi ed apodittici ha opposto il suo divers convincimento, senza dimostrare l’insostenibilità delle ragioni che avevano condotto all’assoluzione. Si tratta pertanto di soluzioni poste su un piano di parità.
2.2. Vizio di motivazione.
La difesa aveva dimostrato la buona fede dell’imputato facendo presente che le circolari dell’Agenzia delle Entrate facevano riferimento a tutte le fatture atti e che la fattura in discussione era ben a conoscenza dell’Agenzia delle Entrate (fattura elettronica inserita nella piattaforma SDI; inserita tra quelle per liquidazione dell’IVA).
Tali circostanze, che smentivano l’intento fraudolento ipotizzato dall’accusa (l’imputato aveva agito a “carte scoperte”), non sono state valutate.
2.3. Violazione di legge in relazione all’art. 316-ter cod. pen. per aver qualificato le istanze telematiche inviate all’Agenzia delle Entrate per l’ottenimento del contributo come attestanti circostanze non vere e omettenti informazioni dovute.
La Corte di appello ha ritenuto fraudolenta la condotta dell’imputato perché mendace quando invece attestava circostanze vere (il richiamo alla fattura). La istanza poteva essere sbagliata o non accoglibile, ma non certo mendace.
La Corte territoriale ha ritenuto la condotta dell’imputato come reticente, ma il modulo previsto per l’istanza non prevedeva la allegazione di altre circostanze o dati. In ogni caso la causale della fattura era già stata comunicata all’Agenzia delle Entrate come illustrato in precedenza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è complessivamente da rigettare, risultando infondato e a tratti anche non superare la soglia di ammissibilità.
Va premesso che il primo Giudice aveva accertato che non vi era alcun dubbio sulla non spettanza dei contributi richiesti dall’imputato, posto che la vendita giudiziaria di beni della società esecutata del ricorrente non aveva determinato alcun incremento delle componenti attive del conto economico della stessa società (la somma fatturata non era confluita nelle casse della società ma era stata assegnata in favore dei creditori procedenti, salvo che per la parte eventualmente eccedente il debito). Peraltro, aveva ritenuto che dalla mera illegittimità della richiesta, presentata con un modulo predefinito con caselle da riempire (che non offrivano alcuno spazio per eventuali precisazioni), non potesse discendere la illeceità penale della condotta e il suo inserimento in uno scenario doloso orientato a trarre in inganno l’amministrazione pubblica.
Eventuali precisazioni sull’oggetto della fattura, secondo il Giudice, potevano essere oggetto soltanto di una successiva interlocuzione con l’Amministrazione finanziaria e comunque non erano emersi tasselli indiziari utili ad evidenziare la finalità fraudolenta o un silenzio maliziosamente serbato.
La Corte di appello ha in primo luogo ritenuto irrilevante la circostanza della mancata attivazione da parte dell’Agenzia delle Entrate di verifiche o soltanto di contatti con la società del ricorrente per ottenere chiarimenti sulla fattura; ha poi rilevato come la mala fede dell’imputato fosse provata dalla consapevole utilizzazione di una fattura di consistente importo, che solo apparentemente
poteva incidere sul fatturato, ma che in realtà non aveva prodotto alcuna entrata per la società.
Così sintetizzato il ragionamento giustificativo esposto dalle sentenze di merito, il primo motivo è da ritenersi infondato.
Va rammentato che il giudice di appello che riformi la decisione di assoluzione pronunciata in primo grado, pervenendo ad una sentenza di condanna, non ha l’obbligo di fornire una motivazione rafforzata nel caso in cui il provvedimento assolutorio abbia un contenuto motivazionale generico e meramente assertivo, posto che, in tale ipotesi, non vi è neppure la concreta possibilità di confutare argomenti e considerazioni alternative del primo giudice, essendo la decisione di appello l’unica realmente argomentata (Sez. 6, n. 11732 del 23/11/2022, dep. 2023, Rv. 284472).
Nel caso in esame, la sentenza di primo grado si era limitata a contestare la sussistenza dell’ipotesi delle “informazioni omesse” (in quanto non dovute nel modello della richiesta), escludendo per il resto in modo del tutto assertivo la prova del dolo.
La Corte di appello ha invece affrontato il profilo della contestazione, di per sé assorbente, relativo alla rappresentazione di informazioni mendaci (nella specie, dell’entità del fatturato), indicando gli elementi che deponevano per il dolo, ovvero l’utilizzazione di una fattura di consistente importo che era servita a “drogare” l’ammontare del fatturato complessivo e che il ricorrente ben sapeva non aver apportato alcun ricavo alla società.
In questa prospettiva, la sentenza impugnata non merita censura, in quanto con riferimento alla prova del dolo, non aveva specifici argomenti da confutare con motivazione rafforzata.
4. Anche il secondo motivo non ha fondamento.
Va ribadito che il reato di indebita percezione di pubbliche erogazioni si differenzia da quello di truffa aggravata, finalizzata al conseguimento delle stesse, per la mancata inclusione, tra gli elementi costitutivi, della induzione in errore dell’ente erogatore, essendo quest’ultimo chiamato solo a prendere atto dell’esistenza dei requisiti autocertificati e non a compiere una autonoma attività di accertamento (Sez. F, n. 44878 del 06/08/2019, Rv. 279036; Sez. 2, n. 23163 del 12/04/2016, Rv. 266979).
Pertanto, anche l’altro argomento accolto dal primo giudice – la possibilità che l’Amministrazione pubblica potesse verificare la causale della fattura o interloquire con l’imputato – è circostanza irrilevante, come correttamente ha indicato la Corte di appello.
Quanto alla buona fede del ricorrente, la stessa sentenza di primo grado aveva evidenziato come fosse pacifico – anche richiamando specifiche circolari della Amministrazione finanziaria – che il fatturato che dava diritto al contributo era soltanto quello rappresentativo di “ricavi” della impresa. Il primo giudice non aveva infatti ipotizzato al riguardo incertezze interpretative o difficoltà applicative della normativa di settore.
Il terzo motivo è privo di evidente fondamento.
Il reato, secondo quanto accertato dalla Corte di appello, è consistito nel rappresentare, nella istanza telematica, circostanze false, ovvero l’entità del fatturato della società del mese di aprile 2019.
Invero, il modello prevedeva la compilazione di un’apposita sezione su “ricavi/compensi” per l’anno 2019 e del fatturato per il mese di aprile 2019.
Sulla base di quanto premesso, il ricorso deve essere rigettato con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 2141/2025.