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Indebita percezione erogazioni pubbliche e dolo

La Corte di Cassazione conferma la condanna per un imprenditore che ha ottenuto contributi Covid dichiarando un fatturato gonfiato da un’operazione che non aveva generato ricavi reali. La sentenza stabilisce che per il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche è sufficiente la consapevolezza di fornire dati non veritieri, a prescindere dalla possibilità di verifica da parte dell’ente erogatore, configurando così il dolo.

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Pubblicato il 14 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Indebita Percezione di Erogazioni Pubbliche: Quando la ‘Trasparenza’ Non Basta

Recentemente, la Corte di Cassazione ha affrontato un caso significativo in materia di indebita percezione di erogazioni pubbliche, chiarendo la sottile linea tra una richiesta formalmente corretta e una condotta penalmente rilevante. La sentenza in esame riguarda un imprenditore condannato per aver ottenuto i contributi a fondo perduto previsti per l’emergenza Covid-19, presentando dati sul fatturato ritenuti non veritieri. Questo caso offre spunti cruciali sulla prova del dolo e sull’irrilevanza della potenziale verifica da parte dell’Amministrazione finanziaria.

I Fatti del Caso: Una Fattura Anomala per Ottenere i Contributi

All’imprenditore, legale rappresentante di una società, era stato contestato di aver ottenuto un contributo a fondo perduto di quasi 145.000 euro. L’accusa si basava sulla presentazione di una dichiarazione che attestava un fatturato per il mese di aprile 2019 non corrispondente alla realtà operativa. Nello specifico, l’imprenditore aveva incluso nel calcolo una fattura di notevole importo, relativa alla vendita giudiziaria di un immobile della società. Questa operazione, sebbene formalmente corretta dal punto di vista fiscale, non aveva generato un’effettiva movimentazione di cassa o un ricavo per l’azienda, poiché le somme erano state destinate ai creditori.

Dal Primo Grado all’Appello: Visioni Opposte sul Dolo

In primo grado, il Giudice dell’udienza preliminare aveva assolto l’imputato, escludendo il dolo. La difesa aveva sostenuto la buona fede dell’imprenditore, evidenziando che la fattura era stata regolarmente trasmessa tramite il sistema di interscambio (SDI) e quindi era a piena conoscenza dell’Agenzia delle Entrate. Secondo il primo giudice, l’amministrazione avrebbe potuto effettuare le dovute verifiche.

La Corte di Appello, su ricorso del Pubblico Ministero, ha ribaltato completamente la decisione. I giudici di secondo grado hanno ritenuto che l’imprenditore fosse pienamente consapevole che la fattura in questione non rappresentava un ricavo effettivo e che il suo inserimento nel calcolo del fatturato aveva lo scopo di ‘drogare’ i dati per ottenere indebitamente il contributo. La conclusione della Corte d’Appello è stata quindi la condanna per il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche.

La Decisione della Cassazione e l’Indebita Percezione

La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul ricorso dell’imprenditore, ha rigettato le sue doglianze, confermando la condanna. I motivi della decisione sono chiari e tracciano un perimetro netto per la responsabilità penale in questi casi.

Differenza tra Truffa e Indebita Percezione

La Suprema Corte ha ribadito che il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316-ter c.p.) si differenzia dalla truffa aggravata perché non richiede l’induzione in errore dell’ente pubblico. Per configurare il reato, è sufficiente la presentazione di dichiarazioni false o l’omissione di informazioni dovute. L’ente erogatore, in questi casi, è chiamato solo a prendere atto dell’autocertificazione, non a svolgere un’autonoma attività di accertamento.

La Prova del Dolo nella Consapevolezza dell’Imprenditore

Il punto centrale della sentenza riguarda la prova del dolo. La Cassazione ha ritenuto che la Corte d’Appello avesse correttamente individuato la mala fede dell’imputato nella sua consapevolezza. L’imprenditore sapeva bene che l’operazione fatturata non aveva prodotto alcun ricavo per la società e che il termine ‘ricavi/compensi’ presente nel modulo di richiesta aveva un significato economico preciso, non meramente fiscale. L’aver utilizzato quella fattura per gonfiare artificialmente il dato del fatturato è stato considerato un atto cosciente e volontario finalizzato a ottenere un vantaggio illecito.

Le Motivazioni della Sentenza

La motivazione della Cassazione si fonda su principi consolidati. In primo luogo, la Corte ha specificato che il giudice d’appello non era tenuto a fornire una ‘motivazione rafforzata’ per ribaltare l’assoluzione, poiché la sentenza di primo grado era stata generica e assertiva nell’escludere il dolo, senza un’analisi approfondita degli elementi a disposizione. In secondo luogo, è stata giudicata irrilevante la circostanza che l’Agenzia delle Entrate potesse verificare la natura della fattura. La responsabilità penale sorge dalla condotta dell’richiedente, non dalla diligenza o negligenza dell’ente controllore. L’aver agito ‘a carte scoperte’ non esclude il dolo quando le ‘carte’ presentate rappresentano una realtà economica distorta al fine di accedere a benefici non spettanti.

Le Conclusioni

Questa sentenza invia un messaggio chiaro a imprenditori e professionisti: la massima trasparenza formale verso il Fisco non è uno scudo contro la responsabilità penale se accompagnata dalla consapevolezza di fornire dati sostanzialmente non veritieri. Il dolo nel reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche può essere provato dalla piena coscienza dell’agente che le informazioni fornite, pur basate su documenti esistenti, non riflettono la situazione economica richiesta dalla norma per l’ottenimento del beneficio. La responsabilità penale si concentra sulla veridicità sostanziale della dichiarazione e sulla finalità fraudolenta della condotta, a prescindere dall’attività di controllo dell’amministrazione.

Presentare una fattura vera ma non relativa a un ricavo effettivo per ottenere fondi pubblici costituisce reato?
Sì. Secondo la Corte di Cassazione, utilizzare una fattura, sebbene formalmente esistente, per rappresentare circostanze false come l’entità del fatturato, al fine di ottenere contributi pubblici, integra il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche (art. 316-ter c.p.).

Se l’Agenzia delle Entrate ha già tutti i dati e non fa controlli, l’imprenditore è comunque responsabile?
Sì, la responsabilità penale non viene meno. La Corte ha chiarito che il reato si perfeziona con la presentazione della dichiarazione non veritiera, indipendentemente dal fatto che l’amministrazione pubblica possa o meno verificare la veridicità dei dati. La mancata attivazione di controlli da parte dell’ente è una circostanza irrilevante ai fini della configurazione del reato.

Perché la Corte d’Appello non ha dovuto fornire una ‘motivazione rafforzata’ per condannare dopo un’assoluzione?
La Corte di Cassazione ha spiegato che l’obbligo di motivazione rafforzata non sussiste quando la sentenza di assoluzione di primo grado ha un contenuto motivazionale generico e meramente assertivo. In questo caso, la decisione del primo giudice si era limitata a escludere il dolo in modo non argomentato, rendendo la sentenza d’appello l’unica decisione realmente motivata sul punto.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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