Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 9803 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 9803 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 14/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOME COGNOME nato a Milano 1’8.12.1967
avverso la sentenza in data 17.10.2023 della Corte di Appello di Trieste visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per la sospensione del giudizio con la proposizione della questione di costituzionalità;
udito il difensore, avv. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso
RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza in data 17.10.2023 la Corte di Appello di Trieste ha integralmente confermato la condanna alla pena di due anni di reclusione pronunciata dal Tribunale di Udine all’esito del primo grado di giudizio in data 4.3.2021 nei confronti di NOME COGNOME ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 5 d. Igs. 74/2000 per l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2015 con conseguente evasione di imposta per un valore superiore alla soglia di punibilità. A fondamento della dichiarazione di responsabilità è stato ritenuto che le somme confluite sul conto corrente
dell’imputato provenienti dalla RAGIONE_SOCIALE società di cui questi è amministratore, pur accedendo alla tesi difensiva secondo cui si sarebbe trattato di una distribuzione di utili, fossero state impiegate per fini personali e che la loro omessa contabilizzazione fosse preordinata all’evasione dell’Irpef stante il superamento della soglia di C 50.000 prevista ex lege, escludendosi, in difetto di prova certa in ordine alla loro destinazione che fossero state utilizzate per il ripianamento dei debiti della suddetta società.
Avverso il suddetto provvedimento l’imputato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione articolando quattro motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all’art. 173 disp.att. cod.proc.pen.
2.1. Il primo motivo ha ad oggetto una questione squisitamente processuale fondata sul fatto che il Presidente del collegio della Corte di appello, che aveva pronunciato la sentenza impugnata e che ne era stato altresì l’estensore, era la stessa persona fisica che aveva rivestito all’udienza preliminare, svoltasi innanzi al Tribunale di Udine, il ruolo GIP e che pertanto aveva emesso il decreto con cui era stato disposto il giudizio nei confronti dell’imputato in palese violazione del divieto stabilito dall’art. 34 secondo comma cod. proc. pen., in forza del quale non può partecipare al giudizio il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare. Rileva per l’effetto la nullità della sentenza ai sensi degli artt. 33 primo comma e 178 primo comma lett. a) cod. proc. pen. vertendosi in un’ipotesi di incapacità del giudice, consistente nella mancanza dei requisiti occorrenti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali e non già delle condizioni specifiche per l’esercizio di tali funzioni in uno specifico procedimento, avvalorata dal disposto di cui all’art. 178 cod. proc. pen. che non distingue tra capacità generica e capacità specifica. Contesta conseguentemente l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’esistenza di una causa di incompatibilità non determina, non incidendo sulla capacità del giudice, la nullità del provvedimento, riconosciuta invece solo in presenza di un vizio di capacità generica, rilevando come tale approdo si ponga in contrasto non soltanto con la littera legis ma altresì con la giurisprudenza sovranazionale che ha ritenuto giudice non idoneo colui che versi in situazioni caratterizzate dalla forza della prevenzione, che fa venir meno i caratteri della terzietà e dell’imparzialità. Solleva, in subordine, questione di legittimità costituzionale dell’art. 33 cod. proc. pen. così, come interpretato in relazione agli artt. 25, 11 e 117 Cost. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
2.2. Con il secondo motivo deduce la violazione dei criteri di valutazione della prova per essersi la sentenza impugnata limitata a ripercorrere lo stesso iter motivazionale della pronuncia di primo grado senza alcuna disamina degli specifici motivi di doglianza articolati dalla difesa. Deduce che la rilevata carenza motivazionale concerne in primo luogo il fatto che, essendo stato l’imputato assolto con la formula “perché il fatto non costituisce reato” dal delitto di omessa
dichiarazione del reddito derivato dalla distribuzione di utili sottratti al Fisco dall RAGIONE_SOCIALE, da lui stesso amministrata, all’esito di sparato procedimento svoltosi innanzi al Tribunale di Udine giusta sentenza in data 3.3.2023, mancasse il presupposto, ovverosia l’addebito di mancata produzione degli utili nei confronti della società, fondante la contestazione sub judice in ordine alla sottrazione al Fisco dell’utile confluito sul suo conto corrente. In secondo luogo lamenta che attraverso il richiamo per relationem alla sentenza di primo grado non sia stata data alcuna risposta alla doglianza relativa alla mancata disamina dei singoli costi, specificamente indicati nell’atto di gravame, sostenuti dall’imputato per conto della società che avrebbero, ove considerati all’interno del reddito imponibile, escluso il superamento della soglia di punibilità, rilevando come non potesse darsi una risposta alle doglianze sollevate avverso la sentenza di primo grado richiamando paradossalmente proprio la stessa pronuncia impugnata.
2.4. Con il quarto motivo contesta, in relazione al vizio di violazione di legge riferito agli artt. 62 bis, 132 e 133 cod. pen. e al vizio motivazionale, la severità del trattamento sanzionatorio con particolare riferimento al diniego delle attenuanti generiche senza che fossero stati considerati gli elementi positivi addotti dalla difesa, quali il dolo nella forma meno significativa e la collaborazione prestata nel corso delle indagini della Guardia di Finanza e alla quantificazione
della pena in misura superiore al minimo edittale, quantunque l’imposta evasa si discostasse di pochissimo dalla soglia di punibilità.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo non può reputarsi fondato.
La doglianza formulata dalla difesa, volta a far valere la nullità della sentenza impugnata in quanto pronunciata da un giudice che avendo a suo tempo emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare, costituito dal decreto di rinvio a giudizio dell’imputato, si fonda su un’indebita confusione tra incapacità ed incompatibilità del giudice.
Va infatti rilevato che, secondo l’orientamento ampiamente consolidato nella giurisprudenza di legittimità, enunciato anche dalle Sezioni Unite, l’eventuale incompatibilità del giudice costituisce motivo di ricusazione, ma non vizio comportante la nullità del giudizio (cfr., per questa soluzione, in particolare, Sez. U, n. 23 del 24/11/1999, dep. 2000, Scrudato, Rv. 215097-01, e Sez. U, n. 5 del 17/04/1996, D’COGNOME, Rv. 204464-01, nonché, tra le più recenti delle Sezioni semplici massimate, Sez. 5, Sentenza n. 13593 del 12/03/2010, COGNOME, Rv. 246716; Sez. 1, Sentenza n. 24919 del 23/04/2014, COGNOME, Rv. 262302; Sez. 6, n. 12550 del 01/03/2016, K., Rv. 267419).
Se già nella vigenza del codice di procedura penale del 1930 il supremo consesso di questa Corte aveva con un illuminante arresto puntualizzato che la nullità allora prevista dall’art 185 n 1 concerne esclusivamente il difetto di capacita generica e l’esercizio dei poteri giurisdizionali da parte di un giudice non legittimamente investito delle funzioni, laddove l’incompatibilità dipende, invece, da una particolare condizione del giudice, che determina un difetto – relativo della capacita specifica di esercizio in concreto del potere di giudicare, ma che tuttavia, proprio perché tale non rientrava nella previsione di nullità di cui alla citata norma, costituendo unicamente motivo di ricusazione, da farsi valere, a pena d’inammissibilità, nei modi e nei termini prescritti dalla legge (Sez. 2, n. 2467 del 27/11/1973, dep. 1974, COGNOME, Rv. 126298 – 01), l’attuale formulazione del codice di rito ha indotto la giurisprudenza ad affermare univocamente che il difetto di capacità del giudice di cui all’art. 178, lett. a), cod. proc. pen, deve esser inteso quale mancanza dei requisiti occorrenti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali e non anche come difetto delle condizioni specifiche per l’esercizio di tali funzioni in un determinato procedimento (così, segnatamente, Sez. U, n. 5 del 1996, D’Avino, cit.), ipotesi per la quale è espressamente previsto lo strumento della ricusazione. In tanto si può configurare un difetto assoluto di capacità del giudice idoneo a generare una nullità, in ciò risiedendo in sintesi il principio su cui
si fonda la suddetta interpretazione, in quanto il sistema processuale non offra un rimedio volto a prevenirla, che nel caso dell’incompatibilità, è costituito dall’istanza di ricusazione.
Soluzione questa che trova il suggello della Consulta la quale, sin dalla sentenza n. 473 del 1999, ha chiarito che dal principio costituzionale di soggezione del giudice soltanto alla legge non discende che l’osservanza delle prescrizioni atte a garantirne l’imparzialità, ed in particolare di quelle sulle cause d’incompatibilità, debba essere assicurata con lo strumento della nullità assoluta, ben potendo il legislatore ritenere più appropriati, anche per evitare il protrarsi di situazioni di incertezza, gli strumenti dell’astensione e della ricusazione del giudice che versi in situazione di incompatibilità, sempreché ponga la parte interessata in condizione di dedurla (cfr. in termini analoghi anche le ordinanze Corte Cost. n. 346 del 2000 n. 36 del 1999).
Non solo il ricorrente non ha mai avanzato alcuna istanza di ricusazione del giudice ritenuto incompatibile, ma neppure può ritenersi – qualora si intendesse seguire l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale possono farsi valere come cause di nullità mediante l’impugnazione della decisione le incompatibilità ravvisate solo successivamente alla deliberazione, come avviene di norma nei procedimenti camerali de plano (cfr. Sez. 2, n. 2467 del 27/11/1973, cit.), quantunque si tratti di interpretazione di recente disattesa essendosi ribadito che l’incompatibilità del giudice costituisce unicamente motivo di ricusazione dello stesso, non potendo integrare vizio comportante la nullità del giudizio neppure allorquando la causa di essa sia divenuta nota solo dopo la definizione del relativo grado processuale, e sia ormai preclusa la proponibilità di istanza di ricusazione (Sez. 3, n. 34581 del 19/05/2021, COGNOME, Rv. 282136) -, che versasse nell’impossibilità di conoscere tempestivamente la data della deliberazione e la composizione del collegio giudicante nel procedimento di appello, di cui faceva parte il giudice ritenuto inhabilis.
Risulta invero dagli atti di causa che la composizione del collegio giudicante, resa nota con il decreto di fissazione dell’udienza ritualmente notificato alle parti, è rimasta immutata durante la celebrazione del processo, svoltosi in forma pubblica nel contraddittorio fra le parti in due udienze, per essere stata la prima, tenutasi in data 1.6.2023, rinviata al successivo 17.10.2023 per consentire l’esame della documentazione prodotta e in tale data essendo stata resa la decisione impugnata. Dovendo perciò ritenersi che l’imputato fosse pienamente in grado di conoscere tempestivamente sia la data dell’udienza, cui hanno ritualmente preso parte i propri difensori, che la composizione del collegio, incombeva sul medesimo l’onere di attivarsi con l’istanza di ricusazione, tale essendo lo strumento accordato dall’ordinamento alle parti per far valere l’incompatibilità del giudice che aveva rivestito nell’udienza preliminare di quel
medesimo processo il ruolo di Gip emettendo il provvedimento conclusivo di rinvio a giudizio. Se dunque lo strumento azionabile per far valere la causa di incompatibilità del giudice chiamato a rendere la decisione deve precedere la decisione stessa, la questione della sua incompatibilità non può essere più sollevata dall’interessato sotto forma di impugnazione allorquando la sentenza sia stata già resa, mirando lo strumento della ricusazione, correlativamente a quello dell’astensione, ad impedirne l’invalidazione successiva come avviene per le cause di nullità riguardanti la capacità del giudice quale mancanza dei requisiti occorrenti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali.
Se d’altra parte l’incompatibilità va intesa come causa di inidoneità al corretto esercizio delle funzioni giurisdizionali solo in relazione ad uno specifico procedimento, ne consegue che la suddetta inabilità del giudice si differenzia da tutte quelle situazioni contemplate dall’art. 185 n.1 cod. proc. pen. che ostano in via generale, e dunque assoluta, all’esercizio di tali funzioni. Ragione questa che ha indotto questa Corte a dichiarare l’irrilevanza della questione di legittimità sollevata dall’imputato che nel giudizio di merito non aveva sollevato alcuna richiesta di ricusazione sul rilievo che l’inosservanza delle disposizioni di cui all’art. 34 cod. proc. pen. non è deducibile come motivo di nullità della decisione in sede di gravame, ma può costituire motivo di ricusazione del giudice, ai sensi dell’art. 37, comma 1, lett. a), cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 35216 del 19/04/2018, Illiano, Rv. 273852; Sez. 1, n. 4521 del 16/03/1998, Ferrari, Rv. 210471).
Pertanto, anche in tal caso la questione di legittimità costituzionale sollevata in subordine dal ricorrente, che di fatto contesta l’interpretazione dell’art. 33 cod. proc. pen. univocamente seguita dal diritto vivente, sostenendone la contrarietà agli artt. 11, 25 e 117 della Carta fondamentale, risulta, al di là dei rilievi già spes in ordine alla sua fondatezza, palesemente irrilevante, in quanto l’eventuale sentenza di accoglimento da parte della Corte Costituzionale non potrebbe comunque spiegare alcuna influenza sulla risoluzione della questione relativa all’incompatibilità, che dovrebbe essere in ogni caso respinta per la ragione pregiudiziale di non essere stata tempestivamente proposta per mezzo della ricusazione (Sez. 3, n. 285 del 26/11/1999, dep. 2000, COGNOME, Rv. 215352).
Inammissibile per mancanza di specificità deve ritenersi invece il secondo motivo.
2.1. La carenza motivazionale lamentata per essere stato l’imputato assolto con sentenza pronunciata dal Tribunale di Udine in data 3.3 .2023 quale amministratore della società RAGIONE_SOCIALE dal reato di cui all’art. 5 d. Igs. 74/2000 per omessa presentazione delle dichiarazioni di imposta relative all’anno 2015, sentenza di cui la Corte distrettuale non avrebbe, secondo la difesa, tenuto conto, si sfalda in ragione della irrilevanza della doglianza: non essendo in discussione che le somme fossero pervenute all’imputato diventa ininfluente la causale in forza
della quale gli importi dal medesimo utilizzati fossero pervenuti nella sua definitiva disponibilità, incentrandosi la contestazione di cui al presente processo e la correlativa condanna sulla mancata indicazione degli stessi nella dichiarazione IRPEF relativa all’annualità 2015 e sulla conseguente evasione della relativa imposta. Il tema della provenienza delle somme confluite sul conto corrente del Leone non entra in gioco rispetto all’affermazione di responsabilità per il reato in contestazione perché quand’anche gli fossero pervenute a titolo di utili distribuiti dalla RAGIONE_SOCIALE, quel che rileva è la loro omessa dichiarazione, non avendo l’imputato fornito alcuna dimostrazione del mero transito, come da costui asserito, di tali importi sul proprio conto personale in quanto devoluti al pagamento di debiti facenti capo alla medesima società. Di talché del tutto ininfluenti rispetto alla condotta criminosa sub judice risultano le pregresse vicende penali subite dalla RAGIONE_SOCIALE che aveva distribuito gli utili ai soci, peraltro con riferimento ad imposte di tutt’altra natura, quali VIVA e l’IRES, e la conseguente assoluzione dell’imputato nella veste di legale rappresentante della medesima.
Al rilievo conferito dalla Corte di appello alla mancanza di prove certe sull’effettiva destinazione delle somme ricevute dal prevenuto a pagamenti nell’interesse della società non viene opposta dalla difesa alcuna specifica confutazione, tale da incrinare la tenuta logica del ragionamento probatorio dei giudici distrettuali, secondo cui l’utile sottratto al Fisco in relazione all’IRPEF riferi all’annualità 2015 riguardava le somme non dichiarate pervenute all’imputato che, seppur corrispondenti agli utili distribuiti dalla RAGIONE_SOCIALE ed accreditatigli in qualit di socio, dovevano ritenersi entrate a far parte del suo reddito personale.
2.2. Del resto, anche con riferimento ai costi asseritamente deducibili viene sottolineata dalla sentenza impugnata la mancanza di prove certe, stante la mancata contabilizzazione dei versamenti effettuati e al contempo la presenza di fatture intestate allo stesso imputato, in ordine alla riferibilità delle somme in uscita alla società, rilievo che la difesa non supera limitandosi a richiamare il motivo di appello nel quale vengono indicate, peraltro a mero titolo esemplificativo, voci di spesa prive di certa attinenza con la società, laddove già il giudice di primo grado aveva proceduto a ridurre l’imponibile in relazione ai costi afferenti all’impresa specificamente dimostrati.
In definitiva le dispiegate censure non si confrontano con i puntuali rilievi spesi da entrambi i giudici di merito che nella coerente declinazione dei criteri fissati dalla giurisprudenza, lungi dall’aver affermato un’inversione dell’onere probatorio, hanno constatato l’omessa dimostrazione della rispondenza dei costi indicati dalla difesa, necessariamente gravante sul contribuente, a quelli inerenti all’attività di impresa svolta dalla società, in difetto della relativa documentazione contabile o quanto meno di elementi che, seppur fattuali, fossero comunque indicativi della destinazione dei relativi esborsi. Ed invero l’evidenza della condotta delittuosa non
è affatto il frutto dell’applicazione delle presunzioni tributarie, come sostiene inopinatamente la difesa, derivando per contro l’affermazione di responsabilità dalle risultanze istruttorie, in alcun modo confutate, in cui all’accertamento dei ricavi non dichiarati derivante dalla verifica fiscale si è accompagnata la mancata dimostrazione, a carico dell’imputato, dei costi sostenuti suscettibili concorrere, ancorché non contabilizzati, alla determinazione dell’imponibile. Conseguentemente di nessuna censura motivazionale è passibile la sentenza impugnata posto che se è vero che alla ricostruzione del reddito dell’impresa nell’esercizio di competenza concorrono anche le spese e gli altri componenti negativi, ciò non toglie che questi debbano essere certi o comunque determinabili in modo obiettivo, non potendo essere puramente e semplicemente presunti: incombe perciò sull’imputato che lamenti la mancata deduzione dei costi sostenuti per l’attività di impresa, provarne l’esistenza (artt. 187 e 190, cod. proc. pen.), o quanto meno allegare i dati fattuali da cui desumere la certezza o comunque il ragionevole dubbio della loro esistenza ((Sez. 5, Sentenza n. 40412 del 13/06/2019, COGNOME, Rv. 277120; Sez. 3, Sentenza n. 8700 del 16/01/2019, Holz, Rv. 275856; Sez. 3, n. 37131 del 09/04/2013, Siracusa, Rv. 257678).
3. Né maggior consistenza rivestono le doglianze articolate con il terzo motivo in ordine all’elemento soggettivo che il ricorrente assume insussistente in mancanza di consapevolezza del superamento della soglia di punibilità stante l’intervenuta assoluzione dal reato di cui al medesimo art. 5 d. Igs. 74/2000 contestatogli in veste di amministratore della RAGIONE_SOCIALE pronunciata con la sentenza sopra esaminata del 3.3.2023.
Trapela dalla formulazione della doglianza la stessa confusione tra i due procedimenti che, come già sopra osservato, non hanno alcuna attinenza l’uno con l’altro essendosi l’affermazione di responsabilità fondata, come ben precisato dal giudice di primo grado, su quanto il Leone ha “di fatto ricevuto” dalla società RAGIONE_SOCIALE ovverosia sulla somma di cui, sottratte le spese riferibili effettivamente all’attività di impresa, egli ha liberamente disposto per fini personali, costituente a tutti gli effetti reddito imponibile.
Risultando dai calcoli eseguiti dal Tribunale e confermati dalla Corte di appello che l’imposta evasa, pari ad C 102.683, l’entità del superamento rispetto alla soglia di punibilità è stata correttamente posta dalla sentenza impugnata a fondamento della ritenuta sussistenza del dolo specifico di evasione in capo all’imputato, unitamente alla piena consapevolezza da parte dello stesso dell’esatto ammontare dell’imposta che sarebbe stata dovuta, ad escludere la quale non valgono le convinzioni personali sulla deducibilità dei costi, vanamente reiterate con il presente ricorso, in assenza di alcun confronto con il dirimente rilievo relativo alla loro mancata dimostrazione o quanto meno ad una allegazione idonea ad ingenerare un ragionevole dubbio sulla loro natura di spese per conto della società.
Né la difesa ha addotto alcuno specifico elemento da cui possa desumersi che l’imputato non abbia omesso di presentare la direzione dei redditi se non allo scopo di evadere l’imposta. Ne deriva l’inammissibilità, per genericità, del motivo in esame.
Fondato risulta, invece, il quarto motivo.
A fronte dello specifica censura articolata con l’atto di appello con cui veniva contestata tanto la quantificazione della pena quanto il diniego delle attenuanti generiche da parte del giudice di primo grado, nessuna risposta è stata data su tale seconda doglianza dai giudici del gravame, limitatasi a confermare la dosimetria della pena all’interno dell’arco edittale in quanto “rispettosa dei criteri fissati dall’art. 133 cod. pen.” (cfr. pag.5 della sentenza impugnata).
Non può, invero, ritenersi compreso nella conferma del trattamento sanzionatorio, neppure in forma implicita, il diniego del beneficio invocato dall’appellante che, lungi dall’aver formulato sul punto una doglianza generica, aveva addotto a sostegno della richiesta tanto il discostamento (a suo avviso modesto) dell’imposta evasa dalla soglia di punibilità, quanto la duplicazione delle contestazioni sul piano personale e societario: censure che, rispetto al mancato riconoscimento delle attenuanti ex art. 62 bis cod. pen. da parte del Tribunale di Udine fondato sull’assenza di elementi di segno positivo, esigevano una specifica risposta della Corte distrettuale, tenuto conto che diverse possono essere le ragioni poste a fondamento della dosimetria della pena all’interno dell’arco edittale, rispondenti all’esigenza di una graduazione che risulti conforme ai principi di proporzionalità e di adeguatezza rispetto a quelle astrattamente valevoli per una sua ulteriore riduzione secondo gli specifici elementi addotti dalla difesa relativi a peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto della personalità dell’imputato al fine di conformarla all’effettivo disvalore della condotta delittuosa ed alla indole del colpevole.
Non sussistendo un rapporto di necessaria interdipendenza tra le due statuizioni le quali, pur richiamandosi entrambe ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen., si fondano su presupposti diversi (Sez. 6, n. 1694 del 22/12/1998, COGNOME, Rv. 212505), la mancata disamina della suddetta richiesta impone limitatamente a tale punto l’annullamento della sentenza impugnata, dovendo la discrezionalità del giudice del merito, per quanto ampia, trovare una sua giustificazione nella motivazione della decisione resa (Sez. 3, n. 42121 del 08/04/2019, Egbule, Rv. 277058). Deve pertanto essere disposto il rinvio per il relativo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Trieste, dovendo per il resto il ricorso essere rigettato
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al punto concernente le attenuanti generiche con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Trieste. Rigetta il ricorso nel resto
Così deciso il 14.10.2024