Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 10458 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 10458 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 21/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a FIRENZE il 24/01/1989
avverso la sentenza del 06/06/2024 della Corte d’appello di Firenze Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dalla Consigliera NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME anche in sostituzione ex art. 102 c.p.p., per delega orale, dell’avvocato NOME COGNOME il quale si è riportato ai motivi d ricorso e ne ha chiesto l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Firenze ha confermato la decisione del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale della stessa sede del 24 gennaio 2022, con la quale, a seguito di giudizio abbreviato, NOME COGNOME era stato ritenuto responsabile del reato previsto dall’art. 449 cod.pen., contestatogli per aver cagionato, per colpa, l’incendio di circa 9000 mq. di terreno coltivato a oliveto di proprietà di NOME COGNOME e NOME COGNOME in occasione dell’espletamento dell’incarico di bruciare i residui della potatura, che gli era stato conferito dall’impresa RAGIONE_SOCIALE di NOME COGNOME, esecutrice della potatura di numerosi olivi. In Impruneta, il 23 giugno 2020.
La COGNOME aveva visto, alle sette del mattino, che il COGNOME, collaborato da altra persona che lo aveva aiutato anche nella fase della potatura, stava bruciando i residui della medesima. Alle 10,15, il COGNOME le aveva telefonato, dicendo che aveva perso il controllo del fuoco e che lo stesso si stava propagando. Per tali ragioni, la COGNOME aveva chiamato i Vigili del Fuoco e il cugino, il quale avvisò i
volontari dell’associazione “RAGIONE_SOCIALE“, che arrivarono in loco prima dei Vigili del Fuoco.
La Corte d’appello ha, in via preliminare, negato la violazione degli artt. 423 e 179 cod.proc.pen. da parte del GIP, posto che lo stesso, in sede di udienza preliminare, correttamente, aveva autorizzato la comunicazione al difensore della modifica della contestazione da parte del P.M., in quanto l’imputato non era presente. Si era, in particolare, trattato di una modifica del capo d’imputazione, prevista dall’art. 423 cod.proc.pen. applicabile ratione temporis, e non della contestazione di un fatto nuovo, dal momento che gli elementi essenziali del fatto erano rimasti immutati, intesi quali condotta, evento, nesso causale, luogo ed epoca dei fatti, avendo la modifica riguardato solo la veste in cui l’imputato aveva operato, vale a dire non quale titolare della ditta RAGIONE_SOCIALE, ma bensì come dipendente della medesima. La condotta addebitatagli riguardava alla stessa maniera sia la posizione del titolare che quella dell’operaio incaricato dell’esecuzione del medesimo lavoro, così come la colpa nasceva dalla violazione di cautele doverose imposte sia all’imprenditore che al dipendente, non trattandosi di reato proprio.
Quanto al merito, la Corte territoriale ha condiviso il giudizio del GIP, valorizzando soprattutto le dichiarazioni rese dalla committente del lavoro di potatura, NOME COGNOME nel corso delle indagini preliminari e pienamente utilizzabili a seguito della scelta del rito abbreviato.
Quanto, poi, al motivo d’impugnazione relativo alla concessione delle attenuanti generiche, la Corte d’appello ha ritenuto corretto il giudizio del GIP, trattandosi di pena corrispondente al minimo edittale ed essendo assenti elementi idonei a giustificare la concessione delle attenuanti generiche, compreso il buon comportamento processuale, che doveva escludersi in ragione della contestazione dell’evidenza e dell’adduzione di giustificazioni fantasiose che dimostravano corrività ed assenza di resipiscenza.
Avverso tale sentenza, ricorre per cassazione, a mezzo del proprio difensore, NOME COGNOME sulla base dei seguenti motivi, sintetizzati ex art. 173 disp. att. cod.proc.pen.:
Con il primo motivo, il ricorrente deduce erronea applicazione della legge processuale, in relazione agli artt. 423, comma 2, e 179 cod.proc.pen., e, in ogni caso, difetto di motivazione; evidenzia che era stato tratto a giudizio per rispondere del delitto previsto e punito dall’art. 449 cod.pen. per non aver adottato tutte le misure idonee allo svolgimento del lavoro di potatura ed abbruciamento dei residui della potatura stessa in sicurezza, in qualità di titolare della ditta RAGIONE_SOCIALE di Scandicci, come indicato dal P.M. nella richiesta datata 9 novembre 2021, ma, a seguito di propria produzione documentale, aveva dimostrato l’errore
di persona commesso dall’Autorità inquirente, la quale, volendo incolpare il titolare della ditta, per non aver adottato tutte le misure idonee ad evitare l’incendio, aveva invece iscritto il procedimento a nome dell’operaio, il quale non aveva certo alcun potere decisionale in merito alle misure idonee da adottare per evitare l’evento, ma era tenuto ad eseguire la propria prestazione servendosi degli strumenti messi a disposizione dal datore di lavoro e secondo le modalità indicate dallo stesso. Ad avviso del ricorrente, l’emersione dell’errore nella individuazione del titolare della ditta avrebbe dovuto condurre all’assoluzione del dipendente e su tale convincimento lo stesso aveva effettuato la necessaria produzione documentale ed aveva chiesto il rito abbreviato. Con la modifica del capo d’imputazione, invece, il Pubblico ministero, per la prima volta, secondo il ricorrente, aveva esplicitato la volontà di esercitare l’azione penale nei confronti del dipendente, per l’attività esecutiva allo stesso conferita, e non del datore di lavoro, per la omessa predisposizione delle necessarie misure di sicurezza. Si era trattato, dunque, della contestazione di un fatto nuovo, con la necessaria applicazione del comma 2, dell’art. 423 cod.proc.pen., non attinto dalle modifiche apportate dal d.lgs. n. 150 del 2022. Inoltre, il ricorrente evidenzia l’erroneità della motivazione adottata dalla Corte d’appello, nel negare che si trattasse di un fatto nuovo, essendo la contestazione passata da una condotta omissiva ad una commissiva, con consequenziale differente tipo di elemento soggettivo connesso. L’unico elemento comune alle due ipotesi di reato era stato l’evento dannoso per i proprietari dell’oliveto.
– Con il secondo motivo, si denuncia la violazione degli artt. 449, 43 e 40 cod.pen. In particolare, si rileva che la fattispecie incriminatrice punisce a titolo d colpa, chiunque cagiona un incendio, trattandosi dunque di reato a condotta libera. La sentenza sarebbe dunque anche viziata per non aver valutato il nesso di causalità tra condotta ed evento e per il mancato accertamento dell’elemento soggettivo del reato, costituito dalla colpa. Il ricorrente richiama la sentenza COGNOME, per evidenziare che la sentenza impugnata era venuta meno alla regola del doppio accertamento, della causalità omissiva e della causalità della colpa, in quanto non si era fatto ricorso, nell’accertamento del nesso causale, alla individuazione della legge universale o statistica, ovvero alla massima d’esperienza, in base alla quale, alla luce delle circostanze del caso concreto, si era fornita spiegazione del verificarsi dell’evento, con esclusione di tutti gl eventuali decorsi alternativi, con certezza ed al di là di ogni ragionevole dubbio. La Corte d’appello si era limitata ad affermare che la colpa era consistita nella omissione di cautele doverose, senza specificare quali fossero quelle che avrebbe dovuto osservare il COGNOME, né erano mai state indagate le cause per cui l’incendio si era sprigionato, dando per scontato che ciò si fosse verificato perché lo stesso
aveva perso il controllo delle fiamme. La difesa, però, aveva tempestivamente rilevato l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’imputato alla Polizia giudiziar in assenza delle formalità richieste dagli artt. 64 e ss. cod.proc.pen. ed aveva segnalato l’insufficienza delle dichiarazioni rese dalla committente.
Con il terzo motivo di ricorso, si denuncia la violazione dell’art. 62 bis cod.pen., posto che il diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche era privo di adeguata motivazione. Il ricorrente obietta che è stata l’attività del Pubblico Ministero, per la sua superficialità, a porre l’imputato nell condizione di non poter confutare in modo puntuale l’addebito. Anzi lo stesso aveva fattivamente collaborato all’accertamento della verità, attraverso la produzione documentale allegata agli atti ed attraverso la quale l’accusa si era resa conto dell’errore in cui era incorsa, identificando l’imputato quale titolare, anziché semplice operaio, della ditta RAGIONE_SOCIALE
Ciò premesso, il ricorrente ha chiesto annullarsi la sentenza impugnata.
All’udienza odierna le parti, come richiesto dal ricorrente, hanno concluso oralmente, secondo quanto riportato in epigrafe.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo è infondato. Come correttamente rilevato dalla Corte territoriale, nel caso di specie, è stato applicato l’art. 423, comma 1, cod.proc.pen., posto che il capo dell’imputazione è stato modificato e non immutato.
Ferma la condotta contestata e l’evento, si è emendata l’erronea indicazione che l’imputato fosse titolare della ditta RAGIONE_SOCIALE e non un dipendente. Al contrario di quanto assume il ricorrente, la contestazione originariamente mossa, così come quella modificata, ha per oggetto l’aver personalmente cagionato l’incendio, eseguendo le operazioni di bruciatura degli sfalci residuati dalla potatura, dopo aver eseguito la stessa. Si tratta dunque di attività esecutiva, materialmente finalizzata non a organizzare l’attività di bruciatura che altri avrebbe dovuto eseguire, ma proprio la medesima attività.
Dunque, se è vero che, in tema di incendio colposo, anche il legale rappresentante della ditta incaricata di svolgere attività pericolosa, quale quella di procedere alla bruciatura di sfalci di potatura nell’area agricola coltivata, assume una posizione di garanzia, che si sostanzia nell’obbligo di assicurarsi, con uno sforzo di diligenza e di attenzione maggiore, trattandosi dello svolgimento di un’attività pericolosa, che l’attività si svolga in presenza di condizioni di sicurezza idonee a prevenire rischi nei confronti dei terzi e ad assolvere al precetto del neminem ledere, una tale circostanza potrebbe in astratto solo aggiungere, a quella dell’esecutore, la responsabilità del titolare della ditta, ex art. 113 cod.pen.,
ma non escludere la efficienza eziologica della negligente condotta dell’odierno ricorrente.
Anche il secondo motivo è infondato. I fatti, concordemente accertati da entrambi i giudici del merito, si fondano essenzialmente sulle dichiarazioni della committente, sentita a s.i.t. La Corte di appello, in risposta al relativo motivo d’impugnazione, ha esplicitamente fatto riferimento a tali dichiarazioni.
Si tratta, infatti, di dichiarazioni pacificamente acquisibili anche senza consenso nel giudizio abbreviato (cfr. ex multis Sez. 6, n. 8675 del 26/10/2011, dep. 2012, Rv. 252279 – 01; Sez. 4, n. 6962 del 14/11/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 254396 – 01; Sez. 1, n. 35027 del 04/07/2013, Voci, Rv. 257213 – 01; Sez. 5, n. 6346 del 16/01/2014, COGNOME, Rv. 258961 – 01; Sez. 5, n. 44829 del 12/06/2014, COGNOME, Rv. 262192 – 01; Sez. 2, n. 47580 del 23/09/2016, Martino, Rv. 268509 – 01; Sez. 5, n. 13917 del 16/02/2017, COGNOME, Rv. 269598 – 01; Sez. 5, n. 32015 del 15/03/2018, COGNOME, Rv. 273642 – 01; Sez. 1, n. 15197 del 08/11/2019, COGNOME, Rv. 279125 – 01; Sez. 4, n. 2124 del 27/10/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 280242 – 01; Sez. 2, n. 22962 del 31/05/2022, COGNOME, Rv. 283409 – 01).
Non è vero, inoltre, come affermato dal ricorrente, che la sentenza impugnata abbia omesso di motivare in ordine alla condotta addebitata, al nesso causale ed all’elemento soggettivo, in quanto la sentenza ha riferito che da tale fonte di prova era emerso che il COGNOME stesso fosse l’autore dell’ innesco del fuoco, in quanto visto dalla COGNOME, e che lo stesso, sempre come riferito dalla stessa committente, la avvisò che il fuoco era sfuggito al controllo e che le fiamme si stavano propagando. Tale, seppur succinto, contenuto va considerato unitamente alla motivazione della sentenza di primo grado, in virtù dei noti principi fissati dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo cui, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, ricorre la cd. “doppia conforme” quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019; Rv. 277218 01).
In particolare, come si evince dalla lettura della motivazione della sentenza di primo grado, i giudici del merito hanno ben elaborato il tema qui riproposto del mancato accertamento della causa dell’incendio e quindi della affermata impossibilità di imputazione a carico dell’imputato.
Si è correttamente affermato che, una volta accertato che autore dell’innesco era stato il COGNOME il quale era rimasto sul posto sino al momento in cui le fiamme
sfuggirono al suo stesso controllo, a prescindere dalla eventuale cooperazione colposa offerta da altra persona mai identificata, dovesse essere considerata provata la fattispecie di reato contestata.
Il GIP del Tribunale in particolare, ha correttamente richiamato l’insegnamento di legittimità secondo cui, in tema di rapporto di causalità, la responsabilità dell’imputato per la determinazione di un dato evento naturalistico deve essere affermata anche nei casi in cui l’innesco della serie causale – sulla base delle prove raccolte – possa essere attribuito a più condotte colpose alternative, purché ciascuna tra esse sia riferibile allo stesso imputato, e debba essere esclusa l’incidenza di meccanismi eziologici indipendenti ( Sez. 4, n. 14358 del 06/02/2002, Rv. 222247 – 01; Sez. 4, n. 22147 del 11/02/2016, Rv. 266858 01).
Dunque, nel caso di specie, come hanno logicamente concluso i giudici del merito, è stato provato che il COGNOME ha perso il controllo sull’incendio dallo stesso appiccato. Non sono emerse, dall’ attività di ricognizione dei luoghi espletata nell’immediatezza dalle autorità intervenute, condizioni causali autonome, né l’imputato ha mai proposto tesi alternative. Si è dimostrato così che fu l’imputato a omettere la tenuta di una condotta sufficientemente attenta e prudente, specie ove si consideri il livello di pericolosità insito nella natura stessa dell’attività in corso di esecuzione – la quale, consistendo nell’appiccare il fuoco all’interno di un oliveto posto su area agricola di 9000 mq., richiede evidentemente un elevato grado di accortezza e diligenza.
Va ricordato che colui che svolge un’attività pericolosa, sebbene consentita, quale è quella di che trattasi, assume per ciò solo una “posizione di garanzia” al fine di prevenire eventuali rischi nei confronti dei terzi, che si sostanzia nell’obbligo di assicurarsi che tale attività si svolga in presenza di condizioni di sicurezza idonee a preservare da detti rischi e, più in generale, ad assolvere al precetto del neminem ledere.
Questo obbligo di garanzia, anzi, impone uno sforzo di diligenza e di attenzione maggiore rispetto alle attività comuni, in quanto, poiché nell’ambito della responsabilità colposa per esercizio di attività pericolose consentite la soglia della prevedibilità è più alta, nel senso che gli eventi dannosi sono maggiormente prevedibili rispetto alle attività comuni, maggiore deve essere la diligenza e la perizia nel precostituire condizioni idonee a ridurre il rischio consentito nei limiti del possibile.
Quanto poi, all’accertamento dell’elemento soggettivo, i giudici, si sono interrogati sulla effettiva prevedibilità dell’evento, accertando che nel caso di specie neanche l’imputato, che era sul posto per realizzare la specifica attività di
bruciatura degli sfalci della potatura che lui stesso aveva effettuato, aveva spiegato perché, imprevedibilmente, all’accensione del fuoco era poi seguito l’incendio.
Dunque, si è tratto il convincimento che la condotta dell’imputato, che ha posto le condizioni perché il fuoco si propagasse, consapevole delle condizioni di tempo e di luogo in cui esso era stato acceso, dovesse considerarsi imprudente.
Il giudizio è conforme al principio secondo cui, con valutazione ex ante, la condotta va valutata considerando le condizioni di tempo e di luogo nelle quali il fuoco venga acceso, valutando anche se l’agente abbia trascurato di adottare gli accorgimenti utili a prevenirne la diffusione.
La Corte di legittimità ha infatti più volte affermato che, in tema di delitti colposi, nel giudizio di “prevedibilità”, richiesto per la configurazione della colpa, va considerata anche la sola possibilità per il soggetto di rappresentarsi una categoria di danni sia pure indistinta potenzialmente derivante dalla sua condotta, tale che avrebbe dovuto convincerlo ad adottare più sicure regole di prevenzione: in altri termini, ai fini del giudizio di prevedibilità, deve aversi riguardo a potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione “ex ante” dell’evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità ed estensione (Sez. 4, n. 40785 del 19/06/2008, Rv. 241470 – 01; Sez. 4, n. 35309 del 25/06/2013; Rv. 255956 – 01).
9. Anche il terzo motivo è infondato. La Corte d’appello ha dato congrua motivazione delle ragioni del diniego della richiesta di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, facendo riferimento all’assenza di elementi positivi e contestando la bontà della condotta processuale tenuta, posto che non poteva effettivamente definirsi tale la adduzione di ricostruzioni fantasiose, mentre la pena determinata dalla sentenza di primo grado era da considerarsi già adeguata in quanto pari al minimo edittale. Dunque, la Corte territoriale, valutando, nel merito, l’incidenza non positiva della specifica condotta tenuta dall’imputato, ha dedotto che non vi fosse alcun indice da valutare positivamente. Si tratta di giudizio tipicamente appartenente al giudice di merito In particolare, va ricordato che il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 62-bis, disposta con il d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato ( Sez. 4, n. 32872 del 08/06/2022, Rv. 283489 – 01.
10. In definitiva, il ricorso va rigettato e l’imputato va condannato alle spese del giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna l’imputato alle spese del giudizio. Così deciso il 21 gennaio 2025.