Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 9882 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 9882 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 12/12/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: NOME COGNOMECLASSE 1979) nato a ANDRANO il 23/07/1979
COGNOME NOME nato a MISTERBIANCO il 18/08/1966
avverso la sentenza del 19/03/2024 della CORTE APPELLO di CATANIA
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME NOME COGNOME
che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso di NOME COGNOME ed il rigetto di quello di NOME COGNOME, conclusioni condivise dall’avv. NOME COGNOME difensore della parte civile “Associazione Nazionale RAGIONE_SOCIALE NOME COGNOME“.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 19 marzo 2024 la Corte di appello di Catania, in parziale riforma di quella emessa dal Tribunale della stessa città nei confronti, tra gli altri, di NOME COGNOME ed NOME COGNOME, ha rideterminato in sette anni e sei mesi di reclusione – previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in rapporto di prevalenza sulle aggravanti e la recidiva – la pena inflitta al primo per i reati di associazione mafiosa armata ed estorsione pluriaggravata ed ha, invece, confermato il provvedimento impugnato con riferimento alla posizione del secondo, condannato alla pena di sei anni di reclusione e 5.000 euro di multa perché ritenuto autore del reato di estorsione pluriaggravata.
NOME COGNOME il quale, nel giudizio di appello, ha rinunciato ai motivi di ordine processuale ed a quelli afferenti alla responsabilità, propone, con il ministero dell’avv. NOME COGNOME ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, con il quale eccepisce violazione di legge sul rilievo che la Corte di appello non avrebbe profuso il dovuto impegno motivazionale nell’indicazione delle ragioni che la hanno indotta a non pronunciare sentenza di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen., a mutuare la qualificazione giuridica della condotta indicata nell’imputazione ed a ritenere la congruità della pena concordemente determinata dalle parti.
NOME COGNOME assistito dall’avv. NOME COGNOME propone, a sua volta, ricorso per cassazione articolato su sei motivi di ricorso, che saranno enunciati, in ossequio al disposto dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., nei limiti strettamente necessari per la motivazione e con i quali deduce, costantemente, violazione di legge, sostanziale e processuale, e vizio di motivazione.
3.1. Con il primo motivo, ascrive alla Corte di appello di avere disatteso l’eccezione di nullità della sentenza di primo grado, emessa all’esito di un dibattimento svoltosi innanzi ad un collegio del quale, per nove udienze, ha fatto parte, in spregio alla normativa vigente e, specificamente, all’art. 12 d.lgs. 13 luglio 2017, n. 116, un giudice onorario.
Rileva, al riguardo, che i giudici di merito, pur prendendo atto della dedotta irregolarità, hanno escluso che essa si riverberi sulla validità della sentenza, che supera la c.d. prova di resistenza (effettuata eliminando, dagli atti processuali utilizzabili ai fini della decisione, quelli compiuti in occasione delle udienze tenutR innanzi al collegio irregolarmente composto), in tal modo determinandosi,
forza di una non consentita applicazione analogica della normativa civilistica, in spregio alla previsione dell’art. 185 cod. proc. pen..
Aggiunge che le prove acquisite nel corso delle udienze cui ha illegittimamente partecipato il giudice onorario attengono all’esistenza ed alla composizione della consorteria per agevolare la cui attività il reato ascrittogli sarebbe stato commesso, ciò che ne rende tangibile, a dispetto di quanto affermato dalla Corte di appello, l’influenza sulla contestazione mossa a suo carico.
3.2. Con il secondo motivo, COGNOME osserva che la Corte di appello ha erroneamente escluso la decisiva incidenza delle dichiarazioni rese dal teste COGNOME sulla prova del delitto di estorsione ascrittogli.
3.3. Con il terzo motivo, si duole dell’affermazione della sua penale responsabilità in relazione ad una vicenda ricostruita sulla base delle ondivaghe ed incostanti dichiarazioni di NOME COGNOME e concernente una condotta priva di qualsivoglia attitudine minatoria.
3.4. Con il quarto motivo, obietta, in senso ostativo all’applicazione della circostanza aggravante prevista dall’art. 416-bis.1. cod. pen., di non essere mai venuto in contatto con le vittime della contestata estorsione, che non gli hanno mai consegnato somme di denaro, onde è impossibile che costoro siano state intimidite o, comunque, condizionate dalla sua appartenenza o contiguità ad un sodalizio di criminalità organizzata.
3.5. Con il quinto motivo, COGNOME lamenta che sia stata applicata, a suo carico, la circostanza aggravante prevista dall’art. 628, terzo comma, n. 3), cod. pen. – a lui non direttamente riferibile – in difetto delle condizioni, indicate all’art. 118 cod. pen., che ne consentono l’estensione a ciascuno dei concorrenti nel reato.
3.6. Con il sesto motivo, si duole dell’omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, in rapporto di prevalenza o, quantomeno, equivalenza con le ritenute aggravanti, che sarebbe stato giustificato, a suo modo di vedere, dal positivo contegno da lui serbato nel corso del procedimento e dal ravvedimento mostrato in epoca successiva alla commissione del reato oggetto di addebito.
Disposta la trattazione scritta, il Procuratore generale ha chiesto, il 20 novembre 2024, dichiararsi l’inammissibilità del ricorso di NOME COGNOME ed il rigetto di quello di NOME COGNOME, conclusioni condivise, con atto del 26 novembre 2024, dalla parte civile «RAGIONE_SOCIALE».
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono inammissibili perché vertenti su censure manifestamente infondate o non consentite.
NOME COGNOME il quale in appello, ha concordato con il Procuratore generale l’accoglimento di alcuni motivi di impugnazione, con rinuncia a quelli residui, e la conseguente rideterminazione della pena, iniziativa che ha avuto l’avallo della Corte procedente, ha articolato doglianze afferenti al proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen., alla qualificazione giuridica della condotta ed alla misura della pena irrogata.
In proposito, va ricordato che, in seguito alla reintroduzione del c.d. patteggiamento in appello, deve ritenersi nuovamente applicabile il principio elaborato dalla giurisprudenza di legittimità nel vigore del similare istituto previsto dell’art. 599, comma 4, cod. proc. pen. e successivamente abrogato dal d.l. 23 maggio 2008, n. 92 – secondo cui il giudice d’appello, nell’accogliere la richiesta di pena concordata, a causa dell’effetto devolutivo, una volta che l’imputato abbia rinunciato ai motivi d’impugnazione, limita la sua cognizione ai motivi non rinunciati così, tra le tante, Sez. 3, n. 30190 del 08/03/2018, Hoxha, Rv. 273755, e Sez. 1, n. 944 del 23/10/2019, dep. 2020, M., Rv. 278170), senza essere neppure tenuto a motivare sul mancato proscioglimento per taluna delle cause previste dall’art. 129 cod. proc. pen., in considerazione della radicale diversità tra l’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti l’istituto in esame (in questo senso, cfr. Sez. 4, n. 52803 del 14/09/2018, Bouachra, Rv. 274522 – 01, nonché, in relazione all’istituto previgente, Sez. 5, n. 3391 del 15/10/2009, dep. 2010, Camassa, Rv. 245919 – 01, e Sez. 6, n. 35108 del 08/05/2003, COGNOME, Rv. 226707 – 01).
La rinuncia ai motivi determina, pertanto, una preclusione processuale che impedisce al giudice di prendere cognizione di quanto, non solo in punto di affermazione di responsabilità, deve ormai ritenersi non essergli devoluto, sicché deve reputarsi inammissibile il ricorso per cassazione relativo a questioni, anche rilevabili d’ufficio, alle quali l’interessato abbia rinunciato in funzione dell’accord sulla pena in appello e che non si siano trasfuse nella illegalità della sanzione inflitta, in quanto non rientrante nei limiti edittali ovvero diversa dalla quel prevista dalla legge (Sez. 2, n. 22002 del 10/04/2019, COGNOME, Rv. 276102; Sez. 5, n. 7333 del 13/11/2018, dep. 2019, Alessandria, Rv. 275234; Sez. 2, n. 30990 del 01/06/2018, Gueli, Rv. 272969), ovvero alla qualificazione giuridica del fatto (Sez. 6, n. 41254 del 04/07/2019, COGNOME, Rv. 277196);
Il ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa ex art. 599-bis cod. proc. pen. risulta, per contro, ammissibile qualora vengano dedotti motivi relativi alla formazione della volontà della parte di accedere al concordato in appello, al consenso del Procuratore generale sulla richiesta ed al contenuto difforme della pronuncia del giudice.
Nel caso in esame, come detto, la difesa di COGNOME ed il Procuratore generale territoriale hanno concordato, davanti al giudice di secondo grado, l’accoglimento del motivo concernente la misura della pena applicata, con la conseguente rinuncia a qualsivoglia, differente motivo di censura da parte dell’imputato, onde tangibile appare l’inammissibilità del ricorso, vedente su profili diversi da quelli per i quali l’impugnazione è consentita.
Il primo motivo del ricorso di NOME COGNOME attiene al tema – già introdotto, in sede di appello, da altri imputati (NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME) – dell’incidenza della partecipazione al giudizio, in violazione di legge, di un magistrato onorario.
La decisione adottata, in proposito, dai giudici di merito si palesa ineccepibile in quanto imperniata, in punto di fatto, sul postulato che nel corso delle udienze tenute da collegio irregolarmente composto non è stata svolta attività processuale direttamente incidente in vista del vaglio dell’addebito mosso ad NOME COGNOME.
La Corte di appello si è, pertanto, determinata in ossequio al principio, costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui è consentito il ricorso alla c.d. «prova di resistenza» al fine di valutare se, espunte le prove inutilizzabili, la decisione sarebbe rimasta invariata in base a prove ulteriori, di per sé sufficienti a giustificare la medesima soluzione adottata (così, da ultimo, Sez. 4, n. 50817 del 14/12/2023, Stretti, Rv. 285533 – 01; negli stessi termini, cfr., tra le altre, Sez. 6, n. 1255 del 28/11/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 258007 – 01, ove si è affermato che «La Corte di cassazione che rilevi la fondatezza del ricorso con cui si lamenti l’illegale assunzione di una prova non deve procedere all’automatico annullamento della sentenza ma, invece, effettuare la cd. “prova di resistenza” e cioè valutare se gli elementi di prova acquisiti illegittimamente abbiano avuto un peso reale sulla decisione del giudice di merito, mediante il controllo della struttura della motivazione, al fine di stabilire se la scelta di una certa soluzione sarebbe stata la stessa senza l’utilizzazione di quegli elementi, per la presenza di altre prove ritenute sufficienti»).
Tanto, in ossequio al disposto dell’art. 185 cod. proc. pen., che dispone che «la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello
dichiarato nullo», in tale guisa postulando un nesso di dipendenza e condizionamento tra l’atto nullo e le successive attività, disposizione che la giurisprudenza di legittimità ha costantemente interpretato nel senso che «Ai fini della configurabilità della nullità derivata, è necessario che gli atti successivi a quello dichiarato nullo siano con esso in rapporto di derivazione, nel senso che l’atto dichiarato nullo deve costituire la premessa logica e giuridica di quelli successivi, per modo che, cadendo tale premessa, deve necessariamente venir meno anche la validità degli atti che ne seguono» (Sez. 1, n. 46419 del 10/09/2021, COGNOME, Rv. 282885 – 01; Sez. 4, n. 38122 del 15/05/2013, COGNOME, Rv. 256829 – 01).
Nel caso in esame, dunque, correttamente, la Corte territoriale, accertata la sussistenza di una causa di nullità, estesa ad alcune udienze, ha verificato se le prove assunte nel corso delle stesse fossero state o meno decisive rispetto alla pronuncia della sentenza di condanna nei confronti di COGNOME ed ha rilevato che «la nullità o, meglio, l’inesistenza dell’attività processuale, non può essere estesa a tutte le udienze in cui la prova si è regolarmente formata e in cui la prova acquisita non è strettamente collegata a quella parte della prova non acquisita regolarmente mediante un collegio irregolarmente costituito che, per facilità espositiva possiamo definire prova costituenda, formata a non giudice e, per tale ragione, inesistente».
La Corte di appello ha esaminato le prove assunte nelle udienze «viziate» ed i conseguenti riflessi in proiezione probatoria, affermando con un percorso motivazionale logico e coerente, per quanto riguarda la posizione di COGNOME, l’irrilevanza delle dedotte nullità.
Così facendo, si è determinata in linea con la lezione ermeneutica, impartita dal massimo nomofilattico, stando alla quale «La sentenza impugnata, pur se formalmente viziata da inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità, in tanto va annullata in quanto si accerti che la prova illegittimamente acquisita ha avuto una determinante efficacia dimostrativa nel ragionamento giudiziale, un peso reale sul convincimento e sul “dictum” del giudice di merito, nel senso che la scelta di una determinata soluzione, nella struttura argomentativa della motivazione, non sarebbe stata la stessa senza l’utilizzazione di quella prova, nonostante la presenza di altri elementi probatori dì per sè ritenuti non sufficienti a giustificare identico convincimento» (Sez. U, n. 16 del 21/06/2000, COGNOME, Rv. 216249 – 01).
A fronte di un percorso argomentativo coerente con la descritta cornice normativa e con l’elaborazione maturata in ambito applicativo, il ricorrente propone rilievi critici di irredimibile genericità, salvo segnalare, con il secondo motivo, che NOME COGNOME le cui dichiarazioni concorrono a formare il
compendio indiziario raccolto nei suoi confronti, è stato escusso all’udienza del 17 dicembre 2020 che, tuttavia, non è tra quelle (cfr., a pag. 7 della sentenza impugnata, il relativo elenco) tenute davanti a collegio irritualmente composto.
I motivi articolati da COGNOME in relazione alla fondatezza dell’addebito, alla qualificazione giuridica della condotta, alla sussistenza delle contestate aggravanti ed al trattamento sanzionatorio sono connotati da tangibile genericità, perché si traducono nella riproposizione, pressoché letterale, delle considerazioni critiche svolte con l’atto di appello, che la Corte territoriale ha disatteso seguendo un percorso argomentativo scevro da deficit logici e saldamente ancorato alle emergenze istruttorie.
La Corte di appello ha, in particolare, spiegato che COGNOME ha concorso nell’estorsione perpetrata da NOME COGNOME, successivamente divenuto collaboratore di giustizia, in danno del panettiere NOME COGNOME (costretto a consegnare periodicamente quantità di prodotto e somme di denaro), che lo ha identificato nel soggetto che, spendendo il nome di COGNOME, aveva formulato la richiesta estorsiva e, almeno in un’occasione, ricevuto una ‘somma di denaro.
A carico di COGNOME si pongono, dunque, gli apporti di COGNOME, il quale lo ha inserito nel novero dei soggetti da lui delegati alla riscossione del profitto del reato, che ha costituito attuazione del programma criminoso dell’organizzazione mafiosa della quale il dominus era esponente, peri poi specificare che l’odierno ricorrente, in quel periodo, era contiguo, ma non stabilmente intraneo, alla cosca, nel cui interesse collaborava alla commissione di illeciti di varia natura e dalla quale si era, dopo qualche anno, allontanato, per il timore di patire le conseguenze di tale condotta sul piano giudiziario.
La Corte di appello ha, altresì, disatteso le obiezioni difensive relative: all’attendibilità del riconoscimento fotografico operato dalla persona offesa e, più in generale, del suo contributo; alla marginalità delle discrasie tra le versioni offerte da COGNOME, rispettivamente, nel corso delle indagini preliminari ed in dibattimento; all’irrilevanza dell’omessa formulazione, da parte di COGNOME, di esplicite minacce, non necessaria stante il pregresso intervento di NOME COGNOME, accreditato mafioso aderente al clan operativo sul territorio, tale da produrre l’effetto intimidatorio nei confronti della vittima.
La Corte di appello ha, al contempo, confermato, in linea con quanto già statuito dal primo giudice:
che COGNOME è stato senz’altro consapevole che la condotta illecita perpetrata con il suo apporto è stata posta in essere al fine di agevolare l’attività del sodalizio di appartenenza di Cavallaro, con il quale egli ha a lungo cooperato nella commissione, facilitata dalla
spendita del rango malavitoso del correo, di reati costituenti estrinsecazione del programma associativo, ciò che induce a ritenere la sussistenza, anche sotto il profilo psicologico, dell’aggravante ex art. 416-bis.1. cod. pen., nella sua declinazione soggettiva;
-che in tal senso depone, peraltro, l’indirizzo avallato, nella sua composizione più autorevole, dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui «La circostanza aggravante dell’aver agito al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso ha natura soggettiva inerendo ai motivi a delinquere, e si comunica al concorrente nel reato che, pur non animato da tale scopo, sia consapevole della finalità agevolatrice perseguita dal compartecipe» (cfr. Sez. U, n. 8545 del 19/12/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278734 – 01);
-che ad analoghe conclusioni deve pervenirsi, avuto riguardo al criterio di imputazione stabilito all’art. 118 cod. pen., con riferimento GLYPH alla GLYPH circostanza GLYPH aggravante GLYPH connessa GLYPH alla partecipazione, certamente nota, per le ragioni sopra esplicate, a COGNOME, di Cavallaro al sodalizio mafioso, in tale direzione deponendo anche l’univoco orientamento applicativo stando al quale «In tema di estorsione, la circostanza aggravante della commissione del fatto ad opera di un partecipe all’associazione di tipo mafioso, non richiede che tutti gli agenti rivestano tale qualità e si estende anche ai concorrenti nel reato, trattandosi di circostanza che, ancorché soggettiva, attiene alla qualità personale del colpevole» (Sez. 5, n. 9429 del 13/10 /2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 269365 – 01; Sez. 6, n. 41514 del 25/09/2012, Adamo, Rv. 253807 – 01; Sez. 1, n. 5639 del 03/11/2005, dep. 2006, Rv. 233839 – 01);
-che, al cospetto di un fatto di notevole offensività, commesso da COGNOME grazie alla forza di intimidazione promanante da una accreditata organizzazione delinquenziale cui egli era, al tempo, vicino, non ricorrono le condizioni per mitigare il trattamento sanzionatorio, assente, a dispetto di quanto rivendicato dall’imputato, qualsivoglia elemento che deponga in tal senso.
La sentenza impugnata appare, come sopra già anticipato, frutto della ponderata delibazione di tutte le evidenze disponibili, sì da resistere alle sterili obiezioni di COGNOME il quale, nello sviluppare i motivi di ricorso, si limita replicare, sic et simpliciter, le doglianze svolte con l’atto di appello, che sono state debitamente vagliate dai giudici di merito.
•
Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale, rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 3.000,00 euro.
NOME COGNOME va, infine, condannato alla rifusione – nella misura e secondo le modalità indicate in dispositivo – delle spese di giudizio relative alla presente fase e sostenute dalla costituita parte civile, Associazione Nazionale RAGIONE_SOCIALE NOME COGNOME
La condanna alle predette deve essere circoscritta al solo COGNOME già condannato, a differenza di COGNOME, al risarcimento dei danni, in favore della menzionata parte civile, in entrambi i gradi di giudizio.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Condanna, inoltre, l’imputato NOME COGNOME alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, Associazione Nazionale Antimafia NOME COGNOME nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Catania con separato decreto ai sensi degli artt. 82 e 83 d.P.R. 115/02, disponendo il pagamento in favore dello Stato.
Così deciso il 12/12/2024.