Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 11472 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 11472 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 12/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOMECOGNOME nato in Marocco il 19/10/2000
avverso la sentenza del 06/06/2024 della Corte di appello di L’Aquila visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria redatta ai sensi dell’art. 23 d.l. 28 ottobre 2020, n. Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso; letta la memoria redatta dai difensori, avv. NOME COGNOME e avv.
NOME COGNOME che insistono per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con l’impugnata sentenza, la Corte di appello di L’Aquila ha confermato la pronuncia resa dal G.u.p. del Tribunale di Avezzano all’esito del giudizio abbreviato e appellata dall’imputato, la quale aveva condannato NOME COGNOME alla pena di sei anni, un mese e dieci giorni di reclusione e 26.667 di multa, in relazione al delitto di cui agli artt. 81 cpv., 73, commi 1 e 4, 80, comma 2, d.P.R. n. 309 del 1990, per aver detenuto, per una successiva cessione a terzi, kg. 3,116 netti di cocaina e kg. 2,314 di NOME.
Avverso la sentenza, l’imputato, per il tramite del difensore di fiducia, ha presentato ricorso per cassazione, deducendo i seguenti motivi:
2.1. violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. per difetto di motivazione in relazione alla richiesta di esclusione della continuazione, come dedotta con il primo motivo d’appello, che viene integralmente riprodotto nel corpo del ricorso;
2.2. violazione dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 247, comma 1, 250, comma 1, 251, 326, 352, comma 1, cod. proc. pen. e 103 d.P.R. n. 309 del 1990 in riferimento alla perquisizione domiciliare, dopo la fase della flagranza, che aveva legittimato le precedenti perquisizioni, come dedotto con il quarto motivo di appello; a sostegno del motivo, si indicano le sentenze della Corte costituzionale n. 219 del 2019, n. 252 del 2020 e n. 247 del 2022;
2.3. violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. con riferimento alla nullità delle operazioni svolte nel corso della perquisizione domiciliare per effetto del malgoverno della disciplina di cui agli artt. 251, 352, comma 2, cod. proc. pen. e 103 d.P.R. n. 309 del 1990; sul punto, la Corte di merito avrebbe travisato il terzo motivo di appello riferendosi al concetto di inutilizzabilità, laddove, invece, si chiedeva la nullità delle operazioni compiute e la conseguente invalidità degli atti consecutivi rispetto a quello affetto da nullità;
2.4. violazione dell’art. 606, comma 1, lett. , e), cod. proc. pen. con riferimento al diniego delle circostanze attenuanti generiche, posto che la Corte di merito si è limitata al rinvio alla sentenza di primo grado, senza misurarsi con le argomentazioni introdotte con il secondo motivo di appello, in cui si valorizzava il comportamento positivo dell’imputato, la giovane età, l’incensuratezza;
2.5. violazione dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. per omessa traduzione del decreto di citazione nel giudizio di appello nella lingua dell’imputato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile perché reitera censure che la Corte di merito ha rigettato con una motivazione immune da violazioni di legge e da vizi motivazionali, con la quale il ricorrente omette di rmisurarsi criticamente.
Il quinto motivo, di contenuto processuale e la cui trattazione, conseguentemente, riveste priorità logica, è inammissibile perché generico.
A prescindere dalle eventuali conseguenze derivanti dalla mancata traduzione del decreto di citazione per il giudizio di appello nel caso in cui l’imputato non conosca la lingua italiana, si osserva che la Corte di merito ha rigettato l’eccezione formulata dalla difesa all’udienza del 6 giugno 2024, e qui nuovamente riproposta, sul rilievo che l’imputato abbia una buona conoscenza della lingua italiana, come si desume dai verbali di arresto e di convalida.
Per confutare tale motivazione, il ricorrente avrebbe dovuto dedurre il vizio di travisamento, allegando i verbali indicati dalla Corte di merito per evidenziare, che, invece, da essi emerge l’esatto contrario, ossia che l’imputato non conosce la lingua italiana; per contro, il motivo si limita a contestare in maniera generica e assertiva la motivazione, dal che discende l’inammissibilità del motivo stesso.
Inammissibili, per genericità e per manifesta infondatezza, sono il secondo e il terzo motivo, esaminabili congiuntamente essendo collegati.
3.1. Invero, molteplici sono i profili di genericità dei motivi in esame, posto che il ricorrente non indica, in maniera specifica e puntuale con riferimento all’attività di concretamente espletata, né quali siano le norme asseritamente violate e le garanzie difensive che sarebbero state negate, né, soprattutto, le conseguenze che ne discenderebbero, posto che, per uniforme e costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità, inaugurata dalle Sezioni Unite nel 1996 (n. 5021 del 27/03/1996, COGNOME, Rv. 204643 – 01) e mai smentita, l’eventuale illegittimità dell’atto di perquisizione compiuto ad opera della polizia giudiziaria non comporta effetti invalidanti sul successivo sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, che costituisce un atto dovuto a norma dell’art. 253, comma 1, cod. proc. pen. (da ultimo, Sez. 2, n. 16065 del 10/01/2020, COGNOME Rv. 278996 – 01).
3.2. Questi principi trovano conferma – e non smentita, come pretende il ricorrente – nella giurisprudenza della Corte costituzionale.
Invero, in numerose decisioni (ordinanza n. 332 del 2001, sentenze n. 219 del 2019, 252 del 2020, n. 247 del 2023), la Corte costituzionale ha
costantemente dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 191 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che la sanzione dell’inutilizzabilità degli atti di perquisizione ed ispezione compiuti dalla polizi giudiziaria in maniera illegittima si estende alla conseguente attività di sequestro, questioni che evidentemente erano dirette a contrastare il “diritto vivente” appena indicato.
La Corte costituzionale ha sempre ribadito l’autonomia – concettuale e di disciplina – della categoria della inutilizzabilità rispetto a quella della nulli rilevando che le argomentazioni via via addotte dai giudici rimettenti finiscono “per confondere fra loro fenomeni – quali quelli della nullità e dell’inutilizzabilit – tutt’altro che sovrapponibili, mirando in definitiva (…) a trasferire nel disciplina della inutilizzabilità un concetto di vizio derivato che il sistema regola esclusivamente in relazione al tema delle nullità” (ordinanza n. 332 del 2001).
In tutti quei casi, in altri termini, “pretendendo di desumere l’automatica ‘inutilizzabilità’ degli atti di sequestro, attraverso il ‘trasferimento’ su di essi ‘vizi’ che affliggerebbero gli atti di perquisizione personale e domiciliare dai quali i sequestri sono scaturiti” (sentenza n. 219 del 2019), si chiedeva alla Corte l’esercizio “di opzioni che l’ordinamento riserva esclusivamente al legislatore, in una tematica, per di più, che – quale quella dei rapporti di correlazione o dipendenza tra gli atti probatori – ammette, già sul piano logico, un’ampia varietà di possibili configurazioni e alternative” (sent. n. 219 del 2019).
4. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Invero, come correttamente ritenuto dalla Corte di merito, la richiesta di escludere la continuazione urta contro il chiaro dato normativo: per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale, ad opera della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, dell’art. 4-bis D.L. n. 272 del 2005, convertito in I. n. 49 del 2006, che stabiliva l’equiparazione del trattamento – anche sanzionatorio – delle droghe “leggere” a quelle “pesanti”, è stato ripristinato il previgente assetto normativo che – fatta salva l’ipotesi della lieve entità contemplata dal comma 5 – all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 prevede distinte fattispecie di reato a seconda che oggetto della condotta siano droghe “pesanti” (comma 1) ovvero droghe “leggere” (comma 4).
Di conseguenza, si è in presenza di reati distinti qualora la condotta abbia ad oggetto sostanze appartenenti a tabelle diverse, che possono dar luogo, a seconda delle evenienze, a concorso materiale, a concorso formale e alla continuazione tra reati, con effetti diversi sul piano del trattamento sanzionatorio (Sez. 4, n. 14193 del 11/03/2021, Ventimiglia, Rv. 281015 – 01).
Nel caso in esame, pertanto, correttamente è stata ritenuta la continuazione tra la detenzione di cocaina (art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990) e la detenzione di hashish (art. 73, comma 4, del medesimo d.P.R.).
5. Il quie4 motivo è inammissibile.
La Corte di appello ha negato i presupposti per una mitigazione della pena ex art. 62-bis cod. perì. non solo perché, nel caso in esame, non sono stati ravvisati elementi valorizzabili a tal fine, ma individuando, quale fattore ostativo, la pericolosità dell’imputato, certamente inserito in un contesto di elevato spessore delinquenziale, come desumibile dagli ingenti quantitativi di droga e di denaro sequestrati.
Si tratta di una valutazione di fatto non arbitraria, né manifestamente illogica, che si sottrae al sindacato di legittimità.
Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13/06/2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 12/03/2025.