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Imputazione coatta: legittima per la messa alla prova

La Corte di Cassazione ha stabilito che non è abnorme il provvedimento del Giudice per le Indagini Preliminari che, a seguito dell’opposizione dell’indagato alla richiesta di archiviazione per tenuità del fatto, ordina al Pubblico Ministero una imputazione coatta. Questa decisione si fonda sull’interesse prevalente dell’indagato a ottenere un esito più favorevole, come la messa alla prova, che porta all’estinzione del reato, rispetto all’archiviazione che invece viene iscritta nel casellario giudiziale.

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Pubblicato il 11 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Imputazione Coatta per la Messa alla Prova: Legittima e non Abnorme

Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 5265/2025, ha affrontato un’interessante questione procedurale: è legittima l’imputazione coatta disposta dal giudice a seguito dell’opposizione dell’indagato a una richiesta di archiviazione per tenuità del fatto, quando l’obiettivo è accedere alla messa alla prova? La risposta della Suprema Corte è stata affermativa, rigettando il ricorso del Pubblico Ministero e delineando i contorni dell’interesse dell’indagato a un esito processuale più favorevole.

I Fatti del Caso

Il caso trae origine da una richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto (ex art. 131-bis c.p.) avanzata dal Pubblico Ministero. L’indagato, tramite il suo difensore, si è opposto a tale richiesta, manifestando un interesse prevalente ad accedere al rito alternativo della messa alla prova. La ragione è chiara: l’esito positivo della messa alla prova comporta l’estinzione del reato, a differenza dell’archiviazione per tenuità che, pur definendo il procedimento, lascia una traccia nel casellario giudiziale.

Il Giudice per le Indagini Preliminari (GIP), accogliendo l’opposizione, ha respinto la richiesta di archiviazione e ha ordinato al Pubblico Ministero di formulare l’imputazione. Contro questa ordinanza, il PM ha proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che il provvedimento fosse “abnorme”, ovvero un atto anomalo che avrebbe creato una paralisi del procedimento.

L’imputazione coatta e il ricorso del PM

Secondo la tesi del Pubblico Ministero ricorrente, la richiesta dell’indagato di accedere a un rito alternativo non potrebbe essere una valida ragione per opporsi all’archiviazione. Il PM riteneva che l’ordinanza del GIP, imponendo una imputazione coatta, si ponesse al di fuori del sistema organico dell’ordinamento, forzando la prosecuzione del procedimento contro la sua stessa valutazione. A suo avviso, l’alternativa del giudice doveva limitarsi alla scelta tra l’archiviazione, la richiesta di nuove indagini o l’imputazione perché il fatto non era tenue, non per consentire un percorso alternativo.

Le motivazioni

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendolo infondato. I giudici hanno chiarito che il provvedimento del GIP non presenta alcun profilo di abnormità, né strutturale né funzionale. L’atto non è avulso dal sistema processuale e non determina una stasi del procedimento.

Il cuore della motivazione risiede nel riconoscimento di un interesse concreto e legittimo dell’indagato. L’art. 411, comma 1-bis, c.p.p. prevede che l’indagato possa presentare opposizione indicando “le ragioni del dissenso”. Queste ragioni, secondo la Corte, non si limitano alla sola dimostrazione dell’innocenza, ma possono ben consistere nella volontà di ottenere una decisione più favorevole. La messa alla prova, che estingue il reato senza menzione nel certificato penale richiesto dai privati, rappresenta un esito indiscutibilmente più vantaggioso rispetto a un’archiviazione per tenuità del fatto, la quale viene iscritta nel casellario giudiziale.

Di conseguenza, l’imputazione coatta disposta dal GIP non è un atto anomalo, ma l’unico strumento processuale necessario e funzionale per dare seguito alla richiesta dell’indagato. Senza un’imputazione formale, infatti, non sarebbe possibile per l’indagato presentare domanda di messa alla prova. L’ordinanza del GIP, quindi, non paralizza il processo, ma lo indirizza verso una diversa, e legittima, modalità di definizione, in ossequio al principio del favor rei.

Le conclusioni

La sentenza consolida un importante principio di garanzia per l’indagato. Viene affermato che l’interesse a un proscioglimento più favorevole, come quello derivante dalla messa alla prova, è una valida ragione per opporsi a una richiesta di archiviazione per tenuità del fatto. L’imputazione coatta diventa, in questo contesto, un meccanismo che permette l’esercizio effettivo di un diritto. La Corte ha quindi stabilito che il giudice può legittimamente ordinare la formulazione dell’imputazione per consentire all’indagato di percorrere la strada della messa alla prova, senza che tale decisione possa essere considerata abnorme.

Può un indagato opporsi all’archiviazione per tenuità del fatto per chiedere la messa alla prova?
Sì, la Corte di Cassazione ha confermato che l’indagato ha un interesse legittimo a opporsi per perseguire un esito processuale più favorevole, come la messa alla prova, che porta all’estinzione del reato senza iscrizione nel casellario giudiziale.

L’ordine del giudice di formulare un’imputazione coatta per consentire la messa alla prova è un atto abnorme?
No, non è un atto abnorme. Secondo la Corte, è l’unico strumento processuale necessario per consentire all’indagato di accedere alla messa alla prova. Non crea una paralisi del procedimento, ma lo indirizza verso una definizione alternativa legittima.

Qual è il vantaggio della messa alla prova rispetto all’archiviazione per tenuità del fatto?
Il vantaggio principale è che l’esito positivo della messa alla prova estingue il reato, mentre il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto, pur definendo il procedimento, deve essere iscritto nel casellario giudiziale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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