Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 5165 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 5165 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 20/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME GiovanniCOGNOME nato a San Giovanni Rotondo (Foggia) il 10/06/1968, avverso la sentenza del 30/06/2023 della Corte di appello di Bari; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni rassegnate dal Pubblico Ministero, in persona del Sost Procuratore generale dott. NOME COGNOME Che ha concluso per l’inammissibi del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 7 dicembre 2021, il Tribunale di Foggia condannava NOME COGNOME alla pena di anni uno e mesi due di reclusione, in quanto ritenuto colpevole dei reati di cui agli artt. 5 e 10 d.lgs. n. 74/2000, poiché, qualità di legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE al fine di evadere le imposte sul valore aggiunto, non presentava la dichiarazione ai fini dell’IVA per l’anno di imposta 2012 e distruggeva o comunque occultava la documentazione contabile della società, applicando le pene accessorie di legge, concedendo il beneficio della sospensione condizionale della pena e disponendo la confisca di beni nella disponibilità dell’imputato sino alla concorrenza dell’imposta evasa.
Con sentenza del 30 giugno 2023, la Corte di appello di Bari confermava la sentenza di primo grado.
Avverso la sentenza della Corte di appello di Bari, NOME COGNOME tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando tre motivi.
2.1 Con il primo motivo, la difesa lamenta violazione ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., erronea applicazione della legge, in relazione all’art. d.lgs. n. 74/2000, per avere la Corte di appello ritenuto che il giudice di prime cure abbia spiegato le ragioni per le quali ? operata la compensazione, ai fini del calcolo dell’imposta evasa, non sia stata portata in detrazione la dal ricorrente in pagamento della prima rata indicata nell’accordo/piano di rateazione che avrebbe ridotto l’importo di imposta evasa sotto la soglia.
Premette il ricorrente di aver effettuato, nel corso dell’anno 2012, due operazioni commerciali: la vendita di un terreno edificabile (fattura n. 1/2012 per un importo di euro 900.000,00, oltre IVA per euro 189.000,00) e la vendita di una gru usata (fattura n. 2/2012 per un importo di euro 3.000,00, oltre IVA per euro 630,00). La mancata estensione della verifica agli anni precedenti aveva condotto gli accertatori a ricostruire inizialmente il reddito imponibile non dichiarato per l’anno 2012 in euro 247.883,00 e VIVA in euro 133.842,00, per poi giungere, attraverso un procedimento di accertamento con adesione, previa valutazione dei costi inerenti il terreno edificabile sopportati negli anni precedent e del credito IVA maturato nell’anno 2010, a rideterminare l’imposta evasa ai fini IRPEF in euro 438,24 e a riconoscere in compensazione il credito IVA maturato nell’anno 2010 ed ammontante ad euro 80.607,00. Lamenta, quindi, il ricorrente che, ai fini della determinazione dell’IVA evasa e del conseguente calcolo della soglia di punibilità, non è stato decurtato l’ulteriore importo di euro 8.367,00 versati dal ricorrente come prima rata del piano di rateazione accordato a
seguito dell’adesione all’accertamento, versamento che rideterminerebbe l’importo dell’IVA evasa al di sotto della soglia di punibilità. Deduce, al riguardo, la difesa che, ai fini della configurabilità del reato di omessa dichiarazione IRPEF o IVA, l’organo giudicante possa far ricorso alle risultanze delle indagini bancarie svolte nella fase dell’accertamento tributario, dovendo tuttavia procedere a una autonoma verifica dei dati, da considerare puramente indiziari, con altri elementi di riscontro e con preminenza del dato fattuale reale rispetto a quello di natura meramente formale che caratterizza l’ordinamento fiscale.
2.2 Con il secondo motivo, la difesa lamenta violazione ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., erronea applicazione della legge, in relazione all’ar 10 d.lgs. n. 74/2000.
Premette il ricorrente che la mancata presentazione delle dichiarazioni fiscali degli anni 2011 e seguenti era dipesa dal perdurare di un dissidio insanabile tra i soci della società e che la successiva dichiarazione di fallimento della società stessa aveva reso poi impossibile anche la regolarizzazione delle inadempienze pregresse, anche per il rischio che ogni decisione assunta avrebbe potuto essere interpretata dal curatore fallimentare come una violazione dell’obbligo di non ingerenza nelle attività dello stesso, senza che tuttavia fossero stati · posti in essere comportamenti finalizzati a occultare al fisco delle somme imponibili.
Deduce, quindi, la difesa che la Corte territoriale non ha rilevato che la Guardia di Finanza era riuscita a ricostruire il risultato economico anche grazie alle indicazioni sulle due fatture del 2012 rese dal ricorrente, con conseguente inconfigurabilità del reato di occultamento e distruzione delle scritture contabil ove il risultato economico delle operazioni prive della documentazione obbligatoria possa essere ugualmente accertato in base ad altra documentazione conservata dall’imprenditore interessato, venendo in considerazione una condotta priva della necessaria offensività.
2.3 Con il terzo motivo, in via subordinata, la difesa chiede pronunciarsi dichiarazione di non doversi procedere per il reato di cui al capo A) dell’imputazione, in quanto estinto per decorso del termine di prescrizione.
Deduce il ricorrente che, con riferimento al capo A), essendo il reato all’epoca del fatto commesso punito nel massimo con la pena di tre anni di reclusione, il termine ordinario necessario a prescrivere è di sei anni, aumentato ad otto anni ai sensi dell’art. 17, comma 1-bis, d.lgs. n. 74/2000, mentre il termine massimo di prescrizione, a seguito degli atti interruttivi, è di dieci ann con la conseguenza che il reato si è prescritto il 30/10/2023.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato, perché contrari ad argomenti di ordine testuale e all’interpretazione datane dalla giurisprud di legittimità.
Ai sensi dell’art. 1, lett. f), d.lgs. n. 74 del 2000, «per “imposta e intende la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata dichiarazione, ovvero l’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di accont ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine». E’ evidente, dun come, in base alla predetta disposizione, che si occupa di fissare le defin concettuali della normativa in materia di reati tributari, per la determina dell’imposta evasa è possibile prendere in considerazione versamenti eseguiti contribuente o da terzi prima della presentazione della dichiarazione o d scadenza del termine di presentazione, senza che rilevino versamenti successi anche se effettuati in esecuzione di un piano di rateazione conseguente ad accertamento con adesione, come accaduto nel caso in esame.
Dopo che la dichiarazione sia stata presentata o dopo la scadenza d termine di presentazione, la normativa prevede, all’art. 13 d.lgs. n. 74 del quale causa di non punibilità, l’integrale pagamento del debito tribut comprensivo di sanzioni e interessi, prima che l’autore del reato abbia a formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qual attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali ovvero, qualo prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il de tributario sia in fase di estinzione mediante rateizzazione, il pagamento int entro il termine massimo di sei mesi. E, dunque, la norma richiamata conferm che, dopo la presentazione della dichiarazione o la scadenza del termine presentazione, ciò che può rilevare, ai fini della non punibilità dei reati t è solo l’integrale pagamento del debito tributario, non certamente un pagamen parziale che faccia rientrare il debito residuo entro la soglia di punibilità.
Negli stessi termini la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, ai dell’individuazione della soglia di punibilità del delitto di omessa dichiarazi cui all’art. 5 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 vigente “ratione temporis”, dev riferimento al momento della consumazione del reato, che va fissato nel termi di novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione d dichiarazione annuale relativa all’imposta sui redditi o all’I.v.a. (Sez. 3, del 08/05/2019, COGNOME, Rv. 275747).
2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato perché generico.
Diversamente da quanto rappresentato in ricorso, i giudici di merito hann concordemente affermato che nessuna documentazione contabile è stata fornita dall’imputato in via collaborativa e che gli accertatori, per ricostruire il vo affari e, quindi, la base imponibile sottratta a tassazione, avevano individu operazioni commerciali poste in essere attraverso le banche dati nella disponibilità, per poi reperire la documentazione presso la società acquirente.
Il richiamo fatto in ricorso alla pronuncia di legittimità n. 2212 09/02/2016, depositata nel 2017, è improprio, essendo il caso esaminato detta decisione riferito alla diversa ipotesi nella quale il risultato economi operazioni possa essere ricostruito con altra documentazione conserva dall’imprenditore, mentre nel caso in esame, in cui la documentazione è st reperita presso la società cliente, il reato è certamente sussistente.
Costituisce, infatti, principio assolutamente consolidato in giurisprudenz che il Collegio condivide, quello secondo cui, in tema di reati trib l’impossibilità di ricostruire il reddito od il volume d’affari derivan distruzione o dall’occultamento di documenti contabili non deve essere intesa senso assoluto e sussiste anche quando è necessario procedere all’acquisizi presso terzi della documentazione mancante (cfr., tra le tantissime: Sez. 56075 del 26/11/2018, Durante, non massimata; Sez. 3, n. 36624 del 18/07/2012, Pratesi, Rv. 253365; Sez. 3, n. 39711 del 04/06/2009, Acerbis, R 244619).
Nel caso di specie, il giudice di primo grado, le cui conclusioni si saldan la sentenza impugnata, ricorrendo un caso di “doppia conforme”, ha evidenziat che la società amministrata dal ricorrente aveva svolto nel 2012 due operazi commerciali relative alla cessione di un terreno edificabile e di una gru usa relazione ad un imponibile complessivo di 903.000,00 euro, con l’emissione due fatture, non rinvenute nella contabilità della emittente, né forn ricorrente, nonostante si fosse riservato di produrle, ma recuperate attraverso un’ulteriore attività investigativa nei confronti della società ac che aveva fornito le copie delle due fatture.
In considerazione dei precedenti rilievi, deve ritenersi che le conclu della sentenza impugnata sono corrette, dal momento che la ricostruzione d redditi e del volume di affari della società “RAGIONE_SOCIALE“, di cui era amminis il ricorrente, è stata possibile solo a seguito dell’acquisizione presso te documentazione mancante. Né può sostenersi che la condotta del ricorrent fosse priva della necessaria offensività, essendo dirimente il riliev necessità di operare verifiche incrociate, e quindi di acquisire documentaz
presso terzi, per la ricostruzione della contabilità e l’individuazione dei quantum da recuperare a tassazione.
Il terzo motivo di ricorso è inammissibile, poiché la manifesta infondatezza delle censure dedotte con i primi due motivi di ricorso esclude che sia computabile il tempo decorso a partire dalla data della pronuncia della sentenza impugnata ai fini della prescrizione del reato di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000 contestato al capo A della rubrica. La sentenza di secondo grado è stata, infatti, pronunciata il 30/06/2023, quando ancora non era decorso il termine decennale massimo di prescrizione decorrente dalla scadenza del novantesimo giorno successivo al termine ultimo di presentazione della dichiarazione fissato in rubrica nel giorno 30/10/2013 e che non sarebbe certamente maturato in epoca anteriore al 30/10/2023.
In conclusione, il ricorso proposto deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.
Tenuto conto, inoltre, della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000 in favore della Cassa delle ammende, esercitando la facoltà introdotta dall’art. 1, comma 64, I. n. 103 del 2017, di aumentare oltre il massimo la sanzione prevista dall’art. 616 cod. proc. pen. in caso di inammissibilità del ricorso, considerate le ragioni dell’inammissibilità stessa come sopra indicate.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 20/11/2024