Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 32364 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 32364 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 16/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME, nato a Milano il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 19/11/2024 della Corte d’appello di Milano visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME, il quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia rigettato;
lette le conclusioni dell’AVV_NOTAIO, difensore delle parti civili COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, la quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o sia rigettato e che il ricorrente sia condannato alla rifusione delle spese sostenute dalle suddette parti civili, come da nota che allega;
lette le note a firma congiunta dell’AVV_NOTAIO e dell’AVV_NOTAIO, difensori del ricorrente COGNOME NOME, i quali hanno replicato alle conclusioni del Pubblico Ministero;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 19/11/2024, la Corte d’appello di Milano confermava la sentenza del 29/06/2023 del Tribunale di Lodi con la quale NOME COGNOME era stato condannato alla pena di tre anni e quattro mesi di reclusione ed € 4.000,00
di multa per il reato di impiego di denaro di provenienza illecita (art. 648-ter cod. pen.).
Per quanto ancora rileva, secondo il capo d’imputazione, tale reato era stato contestato al COGNOME «perché non avendo concorso a commettere i reati di truffa di cui al capo b), impiegava in attività economiche la somma di euro 492.100,00 ricevuta da COGNOME NOME dal 23/03/2015 al 20/06/2019 quale provento dei delitti predetti; in particolare, effettuava i seguenti acquisti immobiliari per arricchire patrimonio sociale della società rappresentata:
in data 20/04/2015 acquisto dell’immobile sito in INDIRIZZO venduto ad un’asta giudiziaria per la somma di euro 33.350,00, versata mediante assegni circolari; in data 05/07/2018 acquisto di una villetta a schiera con autorimessa pertinenziale, ubicata in Meleti (INDIRIZZO, INDIRIZZO, per una somma complessiva di C 95.000,00, di cui C 15.000,00 corrisposti mediante due assegni bancari, emessi in data 31 luglio 2017; C 15.000,00 corrisposti mediante due assegni bancari non trasferibili dell’importo di C 7.500,00 emessi in pari data; C 40.000,00 corrisposti mediante otto bonifici mensili di euro C 5.000,00 dal 10 settembre 2017 al 3 aprile 2018; C 25.000,00 corrisposti mediante assegno circolare in data 05.07.2018;
in data 22/06/2018 acquisto di un’autovettura modello Jaguar F-Pace targata TARGA_VEICOLO per la somma di euro 69.000,00 versata a mezzo bonifici bancari;
in data 24/04/2018, acquisto degli immobili siti in INDIRIZZO, per il prezzo di C 135.000,00, di cui C 20.000,00 corrisposti mediante bonifico bancario disposto in data 22 dicembre 2016 e C 115.000,00 mediante bonifico disposto in data 31 maggio 2018; ».
Secondo il capo d’imputazione, pertanto, le somme impiegate dall’imputato sarebbero state provenienti dai «reati di truffa di cui al capo b)», il quale capo è stato trascritto alla pag. 23 della sentenza di primo grado e alla pag. 12 della sentenza impugnata.
Con tale capo b), erano stati contestati a NOME COGNOME COGNOME, a sua moglie NOME e a alla loro figlia NOME COGNOME (pag. 23 della sentenza di primo grado) reati di truffa pluriaggravata e continuata in concorso (artt. 81, secondo comma, 110, e 640, secondo comma, n. 2 e n. 2-bis cod. pen.), «perché, in concorso fra loro, con i ruoli specificati nel capo a), con più azioni esecutive di un unico disegno criminoso, con artifici o raggiri, consistiti nello sfruttare la fama d NOME, cartomante e guaritore di COGNOME NOME, nell’ingenerare falsamente nelle persone offese la convinzione di pericoli immaginari o di malattie cagionate da entità negative gravanti su loro stessi o sui loro familiari,
approfittando, in talune occasioni, anche della particolare vulnerabilità e dell’età delle persone offese, inducendoli in errore per aver fatto credere di preservare ovvero di poter guarire loro e i loro familiari, con esorcismi e con pratiche magiche asseritamente terapeutiche, si procurarono un ingiusto profitto consistito nelle somme elargite dalle persone offese, quale corrispettivo per i rituali magici effettuati. Con l’aggravante di aver ingenerato nelle persone offese il timore di un pericolo immaginario. Con l’aggravante di aver profittato di circostanze di persona tali da ostacolare la privata difesa».
Avverso la suddetta sentenza del 19/11/2024 della Corte d’appello di Milano, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite dei propri difensori AVV_NOTAIO e AVV_NOTAIO, NOME COGNOME, affidato a cinque motivi.
2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’«rronea applicazione della norma penale in tema di reato presupposto (art. 640 comma 2 e 2 bis c.p. e 648 -ter.1 c.p).», nonché l’«inosservanza ed erronea applicazione del principio “in dubio pro reo” ex art. 27 comma 2 Cost. e art. 6 comma 2 CEDU».
2.1.1. Il COGNOME contesta anzitutto la locuzione «I motivo non convince» che è stata utilizzata dalla Corte d’appello di Milano alla pag. 11 della sentenza impugnata, in quanto la stessa locuzione costituirebbe un’«espressione di permanenza del dubbio» e di «mancanza di convinzione motivata certa sul fatto reato presupposto», con la conseguenza che, utilizzandola, la Corte d’appello di Milano si sarebbe posta in contrasto con il principio in dubio pro reo che si ricava dall’art. 27, secondo comma, Cost., e dall’art. 6, comma 2, CEDU.
2.1.2. In secondo luogo, a proposito dell’«individuazione degli elementi costitutivi della truffa aggravata di NOME COGNOME, dal momento che solo con riguardo alla sua posizione il Ricorrente è chiamato a rispondere del reato di cui all’art. 648 ter c.p.», il COGNOME contesta il passaggio della motivazione della sentenza impugnata che figura nel terzo e nel quarto capoverso della pag. 11 di essa.
Secondo il ricorrente, la Corte d’appello di Milano sarebbe incorsa nel vizio logico e giuridico di affermare «una presupposizione nella presupposizione».
Ciò in quanto «la responsabilità di NOME COGNOME» per il presupposto reato di truffa verrebbe «fatta discendere direttamente dalla considerazione che la sua presenza (pur se tacita) accanto al padre nelle trasmissioni televisive e in rare occasioni di incontro, implica che esista prima di essa, e con essa, proprio l’attività truffaldina del padre che fa da sfondo e “colora” il comportamento di NOME COGNOME».
Così facendo, tuttavia, la Corte d’appello di Milano «defini come certa e presupposta proprio la presupposizione (il reato di truffa) che è chiamata a definire ad accertare così che, sempre per definizione, dalla certezza implicita della responsabilità di NOME COGNOME deriva quella della figlia, anche se quest’ultima non è attiva in alcun comportamento tipico della truffa».
La sentenza impugnata sarebbe perciò inficiata da «un corto circuito logico che vizia la decisione e priva la accusa a carico del Ricorrente della condizione stessa di dichiarabilità in rapporto solo alla responsabilità di NOME COGNOME».
2.1.3. In terzo luogo, «ncora riferendosi specificamente al ruolo di NOME COGNOME», il COGNOME denuncia che la Corte d’appello di Milano avrebbe tratto prove di colpevolezza a carico della stessa «da circostanze assolutamente estranee al contesto del comportamento che viene contestato al padre come attività propria di truffa».
Così, secondo il ricorrente, il fatto che NOME COGNOME e sua madre NOME figurassero spesso nelle trasmissioni televisive mediante le quali il padre NOME COGNOME (noto come “NOME COGNOME“) esercitava la propria attività di NOME mediante la lettura dei tarocchi e ricevessero le telefonate in diretta dei telespettatori «non costituisce, né ha mai costituito nel processo, opera propria di commissione del reato presupposto».
Ciò a meno di «contestare ora, per la prima volta, che il fatto di esercitare l’attività stessa di NOME e lettore di carte in una trasmissione pubblica televisiva costituisca, per ciò solo, commissione del reato di truffa, nonostante essa sia riconosciuta ed ammessa dall’ordinamento».
Lo stesso dovrebbe dirsi per il fatto che NOME COGNOME aveva spesso accompagnato il padre nelle visite a casa dei clienti, «se non si dice, e prova, che in quelle occasioni ella direttamente COGNOME posto in essere comportamenti di truffa tutti assimilabili alla fattispecie normativa». In realtà, la Corte d’appello di Milan «non individua alcun elemento, nell’atteggiamento passivo di quest’ultima, come quello idoneo a configurare quello proprio della truffa contestata nel capo di imputazione».
Il COGNOME contesta ancora che le affermazioni fatte dalla Corte d’appello di Milano nel quarto capoverso della pag. 11 della sentenza impugnata sarebbero per di più «semplicemente inventate, perché, in realtà, la lettura delle deposizioni delle tre sole parti offese sentite in aula nella udienza del 16.2.2023 offre una ricostruzione diversa e contraria alle asserzioni della sentenza impugnata».
Il ricorrente rappresenta al riguardo che, dalle deposizioni delle tre menzionate persone offese (NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME): a) non «si trova mai cenno ad attività anche solo di convincimento o di partecipazione al comportamento del padre o di consapevolezza di quello che il
padre trattava e faceva con le parti offese»; b) «non si avverte nelle parole dei testi mai nessuna sorpresa improvvisa e fuori luogo o sospetta, nessun fastidio delle parti offese, nessuna inopportunità o pressione».
2.1.4. In quarto luogo, nel passare «più propriamente al fatto di NOME COGNOME», il ricorrente contesta che la Corte d’appello di Milano avrebbe ritenuto «in sé provato e definito, a prescindere da ogni esame istruttorio, che l’esercizio dell’attività di occultista NOME e cartomante da parte del COGNOME (pag. 11) sia idonea ad ingenerare nelle persone offese la convinzione dell’esistenza di gravi pericoli, inducendoli così in errore sulla possibilità di poterli scongiurare ed opporre con l’esercizio delle sue arti (ibidem), sfruttando così la loro suggestionabilità e credulità».
Così facendo, la Corte d’appello avrebbe «giustifica che la convinzione personale di ciascuna parte offesa circa la realtà delle potenze magiche od occulte sia assolutamente inutile rispetto alla sussistenza del reato, dal momento che la sola possibilità di credere a tali manifestazioni e potenze è indice di debolezza cognitiva personale e di fragilità del soggetto, idonea a configurare il raggiro doloso del NOME».
La Corte d’appello di Milano non avrebbe chiarito: a) «come sarebbe stata indagata ed accertata, rispetto alle singole tre parti offese, la fragili suggestionabilità»; b) «come sia stato indagato il ruolo di induzione in errore o raggiro del NOME (per non parlare di quello di NOME COGNOME)»; c) «come sarebbe stato prospettato un male ingiusto o un pericolo nella mente delle tre parti offese che prima non era presente e che sia stato invece costruito dolosamente dal NOME».
La Corte d’appello non avrebbe vagliato alcun elemento di fatto della fattispecie di truffa contestata come reato presupposto e avrebbe inammissibilmente ritenuto sufficiente, ai fini della configurabilità dello stesso reato, «il solo fatto di avere esercitato a pagamento (e su richiesta delle parti offese) il ruolo di NOME, guaritore occultista». Attività, queste, che invece l’ordinamento ammette, assoggettandole anche a tassazione.
Né la Corte d’appello di Milano avrebbe spiegato perché chi presti fede alle menzionate pratiche debba essere considerato «un minus raggirabile» e «come in concreto tale credenza avrebbe costituito un elemento illecito del comportamento del NOME».
Il ricorrente lamenta infine che l’inibizione, da parte del Tribunale di Lodi, di indagare in modo più approfondito le convinzioni personali delle persone offese, alla cui «certezze originarie» sarebbe in realtà appartenuto il «requisito della induzione in errore e della minaccia di un danno ingiusto», farebbe venire meno
la prova del reato presupposto, violerebbe i diritti della difesa e comporterebbe che si debba ritenere mancato l’accertamento della truffa.
2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce: a) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) , cod. proc. pen., l’«rronea applicazione dell’art. 648 ter c.p.» e l’«inosservanza dell’art. 27 comma 2 Cost., dell’art. 533 comma 1 c.p.p. e dell’art. 125 disp. att. c.p.p. (Sentenza pagg. 12-14)»; b) in relazione all’art. 606 comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione «nella parte in cui la Sentenza afferma, in relazione al reato presupposto, che NOME COGNOME incassasse soldi o svolgesse attività di cartomanzia o partecipasse in altro modo alle attività del padre presso il domicilio delle parti offese, contro le risultanze – antitetiche – delle deposizioni delle 3 pa civili sentite come testi (trascrizioni verbale udienza 16.02.2023 pagg. 5, 24 e 3031)».
Il COGNOME espone che: a) con il proprio atto di appello, aveva argomentato «la impossibilità di ritenere che le operazioni effettuate dalla società RAGIONE_SOCIALE, con fondi forniti da NOME COGNOME, fossero collegate ai pagamenti effettuati a favore di NOME COGNOME dalle 85 parti offese, rispetto alle quali è stata promossa l’azione penale e definito il capo d’imputazione»; b) «nel processo, 82 delle 85 parti offese non sono state neppure valutate , così che di 85 ipotesi di reato solo tre costituiscono, di fatto e di diritto, oggetto del processo. Solo in relazione a proventi illeciti delle tre parti offese costituite parti civili, e per le sole somme t dal rapporto con queste tre parti offese, è possibile valutare la posizione del COGNOME»; c) sempre con il proprio atto di appello, aveva «evidenziato e contestato la impossibilità che RAGIONE_SOCIALE COGNOME fatto uso di somme imputabili anche solo presuntivamente alle tre parti offese», alla luce sia del fatto che i pagamenti dalle stesse effettuati ammontavano, complessivamente, a € 114.800,00, sia della non coincidenza temporale tra gli stessi pagamenti e gli acquisti che furono effettuati da RAGIONE_SOCIALE con la provvista che era stata a essa fornita da NOME COGNOME.
Tanto esposto, il ricorrente contesta i passaggi della motivazione della sentenza impugnata che figurano negli ultimi due capoversi della pag. 12 della stessa (con prosecuzione nella pag. 13) in quanto, in tali passaggi, la Corte d’appello di Milano, «nonostante il reato contestato al Ricorrente (il solo per il quale la difesa è posta in grado di contraddire e fare scelte processuali ed istruttorie) sia connesso al riutilizzo dei proventi specifici tratti della truffa in d delle sole tre parti offese considerate nel processo, e nonostante non confuti e neghi l’argomento d’appello circa la impossibilità che i fondi investiti da NOME COGNOME per l’acquisto delle quote de RAGIONE_SOCIALE siano riconducibili temporalmente ad alcuna delle parti offese», avrebbe comunque ritenuto «illecito il comportamento del Ricorrente, dal momento che la imputazione permetterebbe la
censura del comportamento generale ed indifferenziato del NOME verso chiunque, senza bisogno di definire verso chi esso sia diretto. Perciò ogni somma che da lui provenga non possa che dirsi provento di reato e quindi riutilizzo di proventi di truffa a danno di ogni innominato e ignoto soggetto che con NOME COGNOME sia venuto in contatto».
In tale modo, la Corte d’appello di Milano avrebbe «trasforma il reato di truffa in danno di soggetti identificati in una valutazione assoluta generale del comportamento indifferenziato di NOME COGNOME nei confronti di chiunque, violando così il precetto dell’art. 640 c.p. Peggio ancora, assume la sentenza di potere prescindere dalla prova concreta della sussistenza di singole fattispecie di reato di truffa a carico specifico di 85 soggetti identificati , facendo ricorso dichiarazione assoluta e generalista dell’illiceità tout court della attività che NOME COGNOME esercita: quella cioè di NOME esoterista», sicché «per definizione ogni somma riconducibile a NOME COGNOME altro non è che provento di reato, dal momento che la sua attività è truffa ripetitiva del medesimo schema illecito».
Peraltro, non solo la Corte d’appello di Milano non risolverebbe «il nodo processuale della prova del reato in ogni singola sua manifestazione a danno di parti offese individuate» ma, anche a volere supporre «la ricorsività del comportamento truffaldino di NOME COGNOME ritiene di non avere necessità neppure di individuare, provare e contestare le caratteristiche e condizioni di questa ricorsività generale della truffa».
Operazione, comunque, non «possibile sulla base del capo di imputazione (che in realtà si riferisce esattamente alle parti offese individuate)», mentre la Corte d’appello di Milano sostanzialmente «costruisce una figura di truffa libera dalla necessità di collegamento tra il comportamento dell’agente e quello della parte offesa».
Vi sarebbe quindi «una distanza illegittima tra il capo di imputazione e l’oggetto della analisi della Corte di Appello».
Il ricorrente contesta ancora la motivazione che è contenuta nel terzo capoverso della pag. 13 della sentenza impugnata, in quanto: a) «collega la imputazione del ricorrente COGNOME non più e solo (secondo il capo di imputazione) a NOME COGNOME, bensì ad una non esplicita, ma ritenuta sotterraneamente, collaborazione con “i RAGIONE_SOCIALE“, intesi come gruppo associato a delinquere (del quale non vi è traccia nel capo di imputazione)»; b) come egli aveva evidenziato nel proprio atto di appello, «e NOME COGNOME è accusata di avere operato per rendere occulto e nascosto il denaro ritenuto provento di reato del padre, come si spiega in Sentenza, e nel processo, la possibilità per il COGNOME di porre in essere esattamente lo stesso comportamento delittuoso che, con ogni evidenza accusatoria, già era stato sottratto alla tracciabilità? Inspiegato come COGNOME potuto
farlo senza concorrere nel reato di cui all’art. 648-ter.1 c.p. contestato a NOME COGNOME»; c) diversamente da quanto mostrerebbe di ritenere la Corte d’appello, egli «non è imputato perché professionista commercialista, ma solo perché amministratore della società RAGIONE_SOCIALE. La motivazione è quindi eccentrica rispetto al reato, alla contestazione di esso ed al ruolo proprio imputato al COGNOME».
2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce: a) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’«rronea applicazione dell’art. 43 c.p. in relazione all’art. 648-ter c.p. in tema di elemento soggettivo del reato: nel caso di specie con riferimento al “dolo specifico” richiesto dall’art. 648 ter c.p. (Sentenza pagg. 13-14)», nonché l’«rronea applicazione dell’art. 648-ter c.p. contestato al COGNOME in relazione all’art. 648-ter 1 c.p. contestato a NOME COGNOME, sotto i profilo dell’elemento oggettivo – Incompatibilità tra le fattispecie»; b) in relazion all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione «nella parte in cui la Sentenza afferma (e utilizza per riconoscere la responsabilità dell’imputato) che il Ricorrente partecipasse alle trasmissioni tv in cui il NOME NOME leggeva i tarocchi, contro le risultanze antitetiche – della deposizione del teste COGNOME (trascrizioni verbale udienza 16.02.2023 pag. 17)».
Dopo avere trascritto i passaggi della motivazione della sentenza impugnata che figurano nell’ultimo paragrafo della pag. 13 e nel primo paragrafo della pag. 14 della stessa, il ricorrente espone che «utte le operazioni societarie de RAGIONE_SOCIALE sono in chiaro con tracciamento diretto, e dichiarato in contabilità, dei pagamenti e dei finanziamenti ricevuti da NOME COGNOME».
Dopo avere affermato che la «Corte ammette e riconosce argomentativamente anche che la società RAGIONE_SOCIALE (id est quindi l’imputato COGNOMECOGNOME non aveva un disegno finalizzato a rendere occulti i proventi illeciti de gruppo RAGIONE_SOCIALE (diversamente il reato contestato sarebbe altro e non quello per cui è processo) e ammette pure che i soci de RAGIONE_SOCIALE traevano un vantaggio imprenditoriale dalla operazione di cessione delle quote societarie» vantaggio che era stato anche spiegato dall’imputato nel corso del suo esame dibattimentale -, il ricorrente contesta la valorizzazione, da parte della Corte d’appello di Milano, del fatto che non si comprendeva quale sarebbe stato il vantaggio economico di NOME COGNOME e della sua RAGIONE_SOCIALE.
La valorizzazione di tale elemento sarebbe però inficiata dal vizio concettuale «di ritenere incongrua, o non capita, la operazione imprenditoriale dal punto di vista di NOME COGNOME, ma non da quello delle RAGIONE_SOCIALE, dei suoi soci e quindi del COGNOME». Il ricorrente argomenta in proposito: «a se il COGNOME aveva un interesse diretto e ricostruibile alla operazione come proprio e giustificato, in ragione dei vantaggi che RAGIONE_SOCIALE certamente ne traeva, perché mai dovrebbe
incidere la determinazione interna di NOME COGNOME ? La motivazione interna della NOME COGNOME non rileva e non coincide con quella del COGNOME, se non si prova che fosse condivisa ed inficiasse l’interesse proprio di quest’ultimo. Pertanto, l’argomento utilizzato dalla Corte per stabilire la sussistenza del dolo specifico in capo al COGNOME è inesistente e giuridicamente fuorviante».
Sarebbe parimenti «ninfluente che NOME COGNOME COGNOME deciso di operare l’acquisizione delle quote della RAGIONE_SOCIALE, e finanziare il proprio subingresso, pe ritornare in possesso di beni immobili di RAGIONE_SOCIALE».
In ogni caso, costituirebbe un «ragionamento inconcluso e privo del nesso tra le intenzioni eventuali di NOME COGNOME (o della sua RAGIONE_SOCIALE) e l’operazione proposta al COGNOME», «derivare immotivatamente la consapevolezza soggettiva del COGNOME circa il presunto carattere truffaldino delle somme donate da NOME COGNOME alla figlia dal fatto che NOME COGNOME avesse in mente di utilizzare quelle somme sia per sottrarle alla disponibilità delle parti offese e farle circolare, sia per otten così anche il recupero di beni già appartenuti alla sua RAGIONE_SOCIALE».
Sarebbe «irragionevole presumere che da atti di per sé leciti (le operazioni societarie palesi e documentate tra NOME e NOME) sia desumibile il carattere illecito delle somme in esse utilizzate, solo perché la Sentenza ritiene che la natura dell’attività NOME sia per definizione truffaldina. Equivale ad affermare che la consapevolezza circa la natura illecita delle somme utilizzate in capo all’utilizzatore sia provata solo con la prova della stessa illiceità originaria
Come risulterebbe dall’ultimo periodo della pag. 14 della sentenza impugnata, la Corte d’appello di Milano avrebbe accomunato impropriamente il COGNOME ai ritenuti autori della truffa, senza dire «perché il caso specifico del COGNOME si equiparato in toto, sotto il profilo della conoscenza illecita dei ricavi dell’attività del NOME COGNOME, alla consapevolezza che solo gli autori di tali asseriti reati hanno ed avevano certamente, e non indica mai un solo elemento di convincimento che conduca dal COGNOME alla dolosa consapevolezza di fare uso di denaro provento di truffa ai danni delle parti offese individuate nel capo di imputazione, ed alla volontà di renderlo irrintracciabile in operazioni economiche palesi».
Il COGNOME contesta poi l’affermazione della Corte d’appello di Milano che figura nel primo paragrafo della pagina 14 della sentenza impugnata, deducendo che tale affermazione sarebbe «per un verso inconcludente, ed anzi contraddittoria; per altro basata su di un elemento in fatto assolutamente non vero ed inesistente nel processo».
Sarebbe inconcludente e contraddittoria «perché considera prova della consapevolezza soggettiva colpevole in capo al COGNOME il fatto che egli fosse commercialista del COGNOME, senza precisare mai come sia possibile considerare logico e ragionevole il collegamento tra la professione del COGNOME con l’evidenza
della provenienza illecita del denaro che il suo cliente dichiarava nelle proprie denunce dei redditi sotto il codice ATECO 96.P_IVA.09, che comprende “attività di astrologi e spiritisti”»; sarebbe falsa, «là dove richiama, a sostegno del comportamento del COGNOME, il fatto che egli avesse partecipato alla trasmissione televisiva durante la quale NOME COGNOME svolgeva la lettura dei tarocchi», atteso che «on c’è, né mai c’è stata nel processo, alcuna prova o indicazione o contestazione che COGNOME COGNOME partecipato ad alcuna delle trasmissioni del NOME NOME», come risultava dal contenuto delle dichiarazioni della persona offesa COGNOME, unico soggetto che aveva fatto riferimento a una consimile circostanza.
Nella sentenza impugnata non vi sarebbe in definitiva alcun «dato utile alla definizione penalmente valida, se non un vaghissimo reiterato richiamo al fatto che certo nessuno poteva non sapere che l’attività svolta dal COGNOME fosse penalmente illecita e truffaldina».
2.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) , cod. proc. pen., l’«nosservanza delle norme a presidio dell’esercizio dell’azione civile seppur nel processo penale: in particolare, inosservanza degli artt. 74 e 75 c.p.p. e dell’art. 163 n. 3, 4, 5 cpc e 2697 c.c. (Sentenza pag. 14)».
Con riguardo alla «legittimità della costituzione di parte civile contro il COGNOME, ed all’accoglimento di essa», il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Milano non avrebbe «considera che gli atti di costituzione fanno solo esclusivo letterale riferimento alla responsabilità diretta di NOME COGNOME per la truffa denunciata, ma non svolgono alcun elemento di considerazione del ruolo e della responsabilità diretta e particolare del COGNOME».
La stessa Corte d’appello avrebbe anche «introd inammissibilmente il criterio della riferibilità oggettiva di ogni somma di NOME COGNOME e di NOME COGNOME a reati contro ignoti e non contro le parti civili costituite, e trasforma[ quindi la richiesta di recupero delle somme versate dalle parti civili in pretesa di maggior difficoltà nell’esercizio dell’azione di recupero su tutto il patrimonio generico della RAGIONE_SOCIALE COGNOME».
Rispetto a tale difficoltà – che, ripete il ricorrente, «non è affatto il contenu della azione di parte civile, ma un’autonoma deduzione dei Giudici di Appello, come tale inammissibile» -, «la valutazione della Corte in Sentenza, secondo cui il risarcimento corrisponde al rischio di rintraccio delle somme illecitamente sottratte, è una considerazione illogica e soprattutto errata. È un fatto che NOME COGNOME ha acquistato le quote delle RAGIONE_SOCIALE e le detiene personalmente e nella società RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE sono custoditi cespiti immobiliari ampiamente a disposizione e di valore enormemente superiore al versamento delle parti civili, quindi se mai il patrimonio palese di NOME COGNOME è stato incrementato e reso meno volatile».
2.5. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’«rronea applicazione degli artt. 132 e 133 c.p. In relazione ai criteri di determinazione della pena – (Sentenza, pagg. 14 e 15)».
Il COGNOME lamenta che, nel confermare la pena che era stata irrogata dal Tribunale di Lodi, la Corte d’appello di Milano avrebbe anzitutto erroneamente valorizzato l’elemento che egli avrebbe «negato alcune circostanze anche di fronte all’evidenza», così sostanzialmente ritenendo «che la mancata confessione, da parte di colui che ritenga di non avere ragioni di responsabilità in merito ai fatt contestati, costituiscono un elemento di aggravamento della pena o, in ogni caso, di impossibilità di riconoscimento a suo favore di elementi attenuanti rispetto alla sua determinazione», in violazione del «principio di non colpevolezza» e del diritto di difesa.
In secondo luogo, la Corte d’appello di Milano avrebbe trascurato due «rilevantissimi fatti emersi nel corso del processo», segnatamente: a) «la circostanza che l’imputato ricorrente è stato tratto a giudizio ex art. 648ter c.p. relativamente al reato presupposto di truffa in danno di 85 parti offese, mentre le sentenze di primo grado e appello hanno accertato e dichiarato la responsabilità rispetto a 3 sole ipotesi di reato, dando quindi per insussistenti le restanti 82 fattispecie, per le quali in entrambe le sentenze, e durante l’intero processo, non vi è stata alcuna trattazione o istruttoria»; b) «rispetto al capo di imputazione è stata riconosciuta e dichiarata la insussistenza della contestazione relativa all’acquisto di un immobile in INDIRIZZO Gerundo, INDIRIZZO, effettuato il 19.11.2018 e certamente non riferibile al COGNOME».
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo non è fondato.
1.1. È, anzitutto, infondata la censura del ricorrente secondo cui la locuzione «il motivo non convince» – che è stata utilizzata dalla Corte d’appello di Milano in apertura della motivazione del rigetto del motivo di appello (il primo) con il quale il COGNOME aveva contestato l’accertamento del presupposto delitto di truffa continuata e pluriaggravata in concorso -, in quanto costituirebbe un’«espressione di permanenza del dubbio» e di «mancanza di convinzione motivata certa sul fatto reato presupposto», farebbe emergere un contrasto con il principio in dubio pro reo (che il ricorrente ricava dall’art. 27, secondo comma, Cost., e dall’art. 6, comma 2, CEDU).
Appare infatti di tutta evidenza come con la suddetta locuzione la Corte d’appello di Milano altro non COGNOME significato se non che gli argomenti dell’appellante non erano da essa ritenuti idonei a “vincere” quelli che erano stati spesi nella sentenza appellata, con la conseguenza che il motivo di appello si
doveva ritenere infondato, senza che dalla stessa locuzione sia pertanto possibile ricavare la manifestazione, da parte della stessa Corte d’appello, della permanenza di dubbi in ordine alla sussistenza del menzionato reato presupposto.
1.2. Prima di passare a esaminare gli ulteriori profili di censura, si deve rammentare l’orientamento consolidato della Corte di cassazione secondo cui ricorre la cosiddetta “doppia conforme” quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazio delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (tra le tante: Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218 -01; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595-01; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, NOME, Rv. 252615-01).
1.3. Ciò rammentato, passando agli ulteriori profili di censura – i quali, essendo tra loro strettamente connessi, possono essere esaminati congiuntamente -, si deve anzitutto evidenziare che, dalla lettura del capo d’imputazione, risulta che il reato presupposto del delitto di impiego di denaro di provenienza illecita che è stato contestato al ricorrente è costituito dai «reati di truffa di cui al capo b)» cui «provento» il COGNOME avrebbe impiegato nelle attività economiche che sono indicate nell’imputazione a lui contestata (di cui al capo “i”).
Come si è detto nella parte in fatto, con il suddetto capo b) dell’imputazione, erano stati contestati a NOME COGNOME, a sua moglie NOME e alla loro figlia NOME COGNOME (pag. 23 della sentenza di primo grado) reati di truffa pluriaggravata e continuata in concorso (artt. 81, secondo comma, 110, e 640, secondo comma, n. 2 e n. 2 -bis cod. pen.), «perché, in concorso fra loro, con i ruoli specificati nel capo a), con più azioni esecutive di un unico disegno criminoso, con artifici o raggiri, consistiti nello sfruttare la fama di NOME, cartomante guaritore di COGNOME NOME, nell’ingenerare falsamente nelle persone offese la convinzione di pericoli immaginari o di malattie cagionate da entità negative gravanti su loro stessi o sui loro familiari, approfittando, in talune occasioni, anche della particolare vulnerabilità e dell’età delle persone offese, inducendoli in errore per aver fatto credere di preservare ovvero di poter guarire loro e i loro familiari, con esorcismi e con pratiche magiche asseritamente terapeutiche, si procurarono un ingiusto profitto consistito nelle somme elargite dalle persone offese, quale corrispettivo per i rituali magici effettuati. Con l’aggravante di aver ingenerato nelle persone offese il timore di un pericolo immaginario. Con l’aggravante di aver profittato di circostanze di persona tali da ostacolare la privata difesa».
Da quanto si è appena evidenziato, risulta anzitutto l’erroneità della tesi del COGNOME (che si è riassunta al punto 2.1.2. della parte in fatto) secondo cui «solo con riguardo alla sua posizione il Ricorrente è chiamato a rispondere del reato di cui all’art. 648 ter c.p.».
Ciò evidentemente non è, atteso che, se è vero che la somma che il COGNOME ha impiegato nelle attività di cui all’imputazione era stata da lui materialmente «ricevuta da COGNOME NOME» (così il capo “i”), è tuttavia altrettanto inconfutabilmente vero, alla luce dei capi i) e b) dell’imputazione che si sono sopra trascritti, che la stessa somma era «provento dei delitti predetti», cioè dei delitti di truffa continuata e pluriaggravata in concorso di cui al capo b).
E tali delitti, come si è detto, erano stati contestati non certo alla sola NOME COGNOME ma, in concorso con lei, anche a suo padre NOME COGNOME (il “NOME“) e a sua madre NOME.
Il COGNOME era quindi chiamato a rispondere del reato di impiego di denaro di provenienza illecita non, come si sostiene nel ricorso, «solo con riguardo alla sua posizione», cioè alla «posizione» di NOME COGNOME, ma con riguardo all’impiego di denaro preveniente da reati di truffa continuata che erano stati commessi non dalla sola NOME COGNOME ma anche, in concorso con lei, da suo padre NOME COGNOME COGNOME e da sua madre NOME.
Da ciò discende anche che, diversamente da quanto mostra di ritenere il ricorrente, il fatto che la Corte d’appello di Milano COGNOME potuto trarre elementi di responsabilità in capo a NOME COGNOME da circostanze «estranee al contesto del comportamento che viene contestato al padre come attività propria di truffa» come la partecipazione (come anche la madre) alle trasmissioni televisive mediante le quali il padre esercitava la propria attività di NOME e la ricezione delle telefonate in diretta dei telespettatori e come l’accompagnamento dello stesso padre (come anche la madre) nelle visite a casa dei clienti – non integra, di per sé, alcun vizio della sentenza impugnata.
Infatti, poiché, come si è detto, a NOME COGNOME era contestato di avere concorso con il padre (e con la madre) nei reati truffa continuata, il suo contributo partecipativo concorsuale, materiale o morale, ben si poteva manifestare attraverso forme atipiche della condotta criminosa, senza che fosse necessario, come è invece sostenuto dal ricorrente, che si provasse che ella «direttamente COGNOME posto in essere comportamenti di truffa tutti assimilabili alla fattispecie normativa».
Chiarito che, pertanto, il reato presupposto del delitto di impiego di denaro di provenienza illecita che è stato contestato al ricorrente è costituito dai reati di truffa continuata e pluriaggravata di cui al capo b) commessi in concorso tra loro da NOME COGNOME, da NOME COGNOME e da NOME COGNOME, si deve rilevare
che, come è stato evidenziato nella sentenza di primo grado (pag. 27) – con la quale, per le ragioni che si sono dette (al punto 1.2), l’impugnata sentenza di appello si deve reputare saldarsi, con la conseguenza le due sentenze possono essere lette congiuntamente, costituendo un unico complessivo corpo decisionale -, i fatti di cui al capo b) dell’imputazione e l’attribuibilità degli stessi a NOME COGNOME, a NOME COGNOME e a NOME COGNOME si dovevano ritenere accertati con la sentenza di “patteggiamento” del 17/05/2021 del G.i.p. del Tribunale di Lodi, divenuta irrevocabile il 09/06/2021.
Ciò in quanto la sentenza di “patteggiamento” è legislativamente espressamente equiparata a una sentenza di condanna (art. 445, comma 1-bis, terzo periodo, cod. proc. peri.).
Per tale ragione, la Corte di cassazione ha chiarito che la stessa sentenza, che sia divenuta irrevocabile, può essere utilizzata a fini probatori in un altro procedimento penale, ai sensi dell’art. 238-bis cod. proc. pen., quanto alla prova del fatto e della sua attribuibilità (Sez. 3, n. 44311 del 08/10/2024, COGNOME, Rv. 287384-01, la quale ha considerato anche la modifica che è stata apportata al comma 1-bis dell’art. 445 cod. proc. pen. dall’art. 25, comma 1, lett. b, del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150; Sez. 5, n. 12344 del 05/12/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 272665-01; Sez. 5, n. 7723 del 12/11/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 264058-01; Sez. 1, n. 50706 del 05/06/2014, COGNOME, Rv. 261480-01).
È vero che, a norma dell’art. 238-bis cod. proc. pen. (che richiama gli artt. 187 e 192, comma 3, dello stesso codice), la menzionata sentenza irrevocabile di “patteggiamento” non costituiva piena prova dei fatti con essa accertati, ma necessitava dei cosiddetti riscontri esterni – i quali, come è stato chiarito dall Corte di cassazione, possono consistere in elementi di prova sia rappresentativa sia logica (Sez. 6, n. 42799 del 30/09/2008, Campesan. Rv. 241860-01), anche già utilizzati nell’altro giudizio (Sez. 6, n. 23478 del 19/04/2011, COGNOME Caro, Rv. 250098-01) – di cui il giudice deve dare evidentemente conto.
Il Collegio ritiene che tali elementi di riscontro siano stati effettivamente adeguatamente rinvenuti dai giudici di merito nella dichiarazioni delle costituite parti civili NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, le quali, come è stato dato più specificamente conto nella sentenza di primo grado (in particolare, a pag. 24), avevano riferito, in modo sostanzialmente sovrapponibile, come NOME COGNOME COGNOME, alias il “NOME“, avesse ingenerato in esse la convinzione dell’esistenza di gravi pericoli per loro stesse e/o per i loro familiari, facendo lo credere di potere scongiurare tali pericoli con i rituali magici da lui praticati (rit proposti a NOME COGNOME quale unica via per soccorrere i suoi parenti; rito per annullare la fattura che sarebbe stata fatta al figlio di NOME COGNOME, i assenza del quale si sarebbe verificato un grave incidente; “rito di Natale” e “rito
della Tanzania” per bonificare la stalla di NOME COGNOME, nella quale NOME COGNOME aveva detto di avvertire un’entità che, altrimenti, avrebbe continuato a provocare danni, ed esorcismo con riguardo alla situazione dei familiari dello stesso COGNOME), che le persone offese gli retribuivano con ingenti somme.
Alla luce di ciò, il Collegio considera che i giudici del merito COGNOMEno logicamente ritenuto che tali dichiarazioni confermassero quello che si doveva reputare essere il modus operandi del “NOME“, quale era stato accertato con la menzionata sentenza di “patteggiamento” irrevocabile.
Modus operandi nel realizzare il quale NOME COGNOME era coadiuvato anche dalla figlia NOME, che – come è stato, pure non illogicamente, reputato – ne aveva quanto meno rafforzato i propositi criminosi, partecipando alle trasmissioni televisive (che, nei nomi, rinviavano sia al padre sia alla figlia) gestendo le telefonate in diretta dei clienti e anche recandosi di persona presso le abitazioni delle vittime.
Ne discende, conclusivamente, che, diversamente da quanto è affermato dal ricorrente, la Corte d’appello di Milano (e, prima, il Tribunale di Lodi) non ha ritenuto sufficiente, ai fini della configurabilità dei reati di truffa, «il solo f avere esercitato a pagamento (e su richiesta dei clienti) il ruolo di NOME, guaritore occultista», né ha sostenuto che la mera credenza nell’esistenza di poteri magici sia «idonea a configurare il raggiro doloso del NOME», ma, alla luce delle risultanze istruttorie costituite delle menzionate sentenza di “patteggiamento” irrevocabile e dichiarazioni delle parti civili, ha logicamente accertato l’esistenza dei presupposti reati di truffa pluriaggravata e continuata di cui al capo b) dell’imputazione e l’attribuzione degli stessi reati a NOME COGNOME, NOME e NOME COGNOME in concorso tra loro.
Facendo poi corretta applicazione del principio, affermato dalla Corte di cassazione, secondo cui integra il delitto di cui all’art. 640, secondo comma, n. 2), cod. pen., il comportamento di colui che, sfruttando la fama dì NOME, chiromante, occultista o guaritore, ingeneri nelle persone offese la convinzione dell’esistenza di gravi pericoli gravanti su di esse o sui loro familiari e, facendo credere loro di poter scongiurare i prospettati pericoli con i rituali magici da lui praticati, le indu in errore, così procurandosi l’ingiusto profitto consistente nell’incameramento delle somme di denaro elargitegli con correlativo danno per le medesime (Sez. 2, n. 49519 del 29/11/2019, relativa proprio a NOME COGNOME, Rv. 278004-01; Sez. 2, n. 42445 del 19/10/2012, COGNOME, Rv. 253647-01; Sez. 2, n. 1862 del 19/12/2005, dep. 2006, Locaputo, Rv. 233361-01).
Il secondo motivo non è fondato.
Con tale motivo, il ricorrente contesta principalmente che il denaro che egli impiegò nelle attività economiche che sono indicate nel capo i) dell’imputazione si potesse ritenere, come hanno fatto i giudici del merito, di provenienza illecita.
A tale proposito, il Collegio osserva come tale contestazione del ricorrente si fondi, in realtà, su due errori di prospettiva, i quali sono peraltro in parte già emers esaminando il primo motivo.
Il primo errore consiste nell’assumere che «di 85 ipotesi di reato solo tre costituiscono, di fatto e di diritto, oggetto del processo. Solo in relazione a proventi illeciti delle tre parti offese costituite parti civili, e per le somme tratt rapporto con queste tre parti offese, è possibile valutare la posizione del COGNOME» e, analogamente, che «il reato contestato al Ricorrente sia connesso al riutilizzo dei proventi specifici tratti dalla truffa in danno delle sole tre parti o considerate nel processo», in quanto il «capo di imputazione in realtà si riferisce esattamente alle parti offese individuate».
L’erroneità di tale assunzione discende dal fatto che, come si è visto esaminando il primo motivo, il reato presupposto del delitto di impiego di denaro di provenienza illecita che è stato contestato al ricorrente è costituito dai reati d truffa continuata e pluriaggravata di cui al capo b) dell’imputazione che erano stati commessi, in concorso da NOME COGNOME, da NOME COGNOME e da NOME COGNOME, ai danni non delle sole tre parti civili che si sono costituite nel present processo (NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME) ma di tutte le persone offese dei presupposti reati di truffa di cui al suddetto capo b) (le quali persone offese, secondo quanto è indicato nello stesso ricorso, risulterebbero essere 85).
Ne discende che al COGNOME era stato pertanto contestato, diversamente da quanto egli mostra di ritenere, di avere impiegato nelle attività economiche che sono indicate nel capo i) dell’imputazione il provento delle truffe che erano state commesse ai danni di tutte le suddette persone offese di tutti i suddetti reati di truffa di cui al capo b), e non il solo provento delle tre truffe commesse ai danni delle sole tre parti civili che si sono costituite nel presente processo.
Il secondo errore di prospettiva che è stato commesso dal ricorrente nel formulare la propria contestazione consiste nell’avere attribuito apparente rilievo alle circostanze che il profitto delle presupposte truffe di cui al capo b dell’imputazione fosse stato o no materialmente incassato da NOME COGNOME e che questa avesse o no materialmente partecipato all’attività compiuta dal padre presso l’abitazione delle vittime delle truffe di induzione in errore delle stesse vittime mediante artifici e raggiri.
L’erroneità di tale prospettiva discende dal fatto che, come si è visto esaminando il primo motivo, il COGNOME era chiamato a rispondere del reato di
impiego di denaro di provenienza illecita con riguardo all’impiego di denaro preveniente da reati di truffa continuata che erano stati commessi non dalla sola NOME COGNOME ma anche, in concorso con lei, da suo padre NOME COGNOME e da sua madre NOME, con la conseguenza che, poiché il contributo partecipativo concorsuale di NOME COGNOME ben si poteva manifestare attraverso forme atipiche della condotta criminosa, non è di per sé rilevante che ella avesse o no compiuto manifestazioni proprie delle condotta tipica del reato di truffa.
Posti tali errori di prospettiva, che inficiano la principale contestazione del ricorrente, il Collegio reputa che i giudici del merito COGNOMEno ritenuto in modo non contraddittorio né manifestamente illogico che le somme che il COGNOME ricevette da NOME COGNOME e che impiegò successivamente nelle attività economiche che sono indicate nel capo i) dell’imputazione provenissero dal complesso dei reati di truffa in concorso di cui al capo b) dell’imputazione, tenuto conto: a) del fatto che, premesso che, per le ragioni che si sono dette, la Corte d’appello di Milano ha correttamente ritenuto che «l’imputazione ascritta non riguarda partitamente le sole tre persone offese costituite parti civili» (pag. 12 della sentenza impugnata), la stessa Corte d’appello ha pertanto altrettanto correttamente considerato il complesso di tutte le truffe di cui al capo b) dell’imputazione e il complesso di tutti i profitti delle stesse truffe, non illogicamente reputate, anche per quanto si è detto esaminando il primo motivo, espressive di un reiterato e collaudato modus operandi del “NOME“; b) del fatto che le somme che NOME COGNOME aveva trasferito a RAGIONE_SOCIALE (di cui il COGNOME era stato amministratore fin 24/07/2018) e che lo stesso COGNOME aveva poi impiegato nelle attività economiche che sono indicate nel capo i) dell’imputazione provenivano, pressoché esclusivamente, dall’attività che era svolta dal padre di NOME (pagg. 2930 della sentenza di primo grado). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Quanto alle ulteriori contestazioni del ricorrente, si deve osservare che: a) alla luce di quanto si è ripetutamente argomentato, diversamente da quanto mostra di ritenere il COGNOME, è del tutto corretto (come si è in effetti già det che la sentenza impugnata «colleg la imputazione del ricorrente COGNOME non più e solo a NOME COGNOME, bensì ad una non esplicita collaborazione con “i COGNOME“»; b) il fatto che a NOME COGNOME potesse essere stato contestato, con riferimento al trasferimento di denaro a RAGIONE_SOCIALE, il reato di autoriciclagg non inficia di per sé l’affermazione di responsabilità dell’imputato per il diverso reato di impiego dello stesso denaro di provenienza truffaldina; c) l’affermazione della Corte d’appello di Milano secondo cui il COGNOME «era andato oltre i doveri propri di un professionista che si occupa della contabilità di un cliente (pag. 13, terzo capoverso, della sentenza impugnata), anche a volerla ritenere «eccentrica rispetto al reato», sarebbe solo ultronea e all’evidenza non tale da inficiare la
motivazione in ordine alla provenienza illecita del denaro impiegato dal COGNOME e, più in generale, alla responsabilità dello stesso imputato per il reato a lui ascritto
Il terzo motivo non è fondato.
Si deve anzitutto precisare che, diversamente da quanto mostra di ritenere il ricorrente – il quale ha fatto riferimento al «”dolo specifico” richiesto dall’art. 6 ter c.p.» – il delitto di impiego di denaro di provenienza illecita non richiede alcun dolo specifico in quanto per la sua integrazione è sufficiente il dolo generico, il quale è costituito dalla mera coscienza e volontà di destinare a un impiego economicamente utile i capitali illeciti, unitamente alla consapevolezza, anche solo generica, della loro provenienza delittuosa (Sez. 2, n. 14215 del 02/04/2025, COGNOME, Rv. in corso di attribuzione; Sez. 2, n. 43387 del 08/10/2019, COGNOME, Rv. 277997-03, con la quale la Corte ha argomentato che, se il legislatore avesse ritenuto necessaria la sussistenza del dolo specifico, collegato alla finalità di ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa delle risorse impiegate, lo avrebbe espressamente previsto. Nel senso della non necessità che la condotta di reimpiego presenti connotazioni dissimulatorie volte a ostacolare l’individuazione o l’accertamento della provenienza illecita dei beni, si veda anche: Sez. 6, n. 43781 del 09/10/2024, COGNOME, Rv. 287270-01; Sez. 2, n. 24273 del 18/02/2021, COGNOME, Rv. 281626-01).
Ciò precisato, si deve osservare che i giudici del merito, con le conformi sentenze di primo e di secondo grado, hanno ritenuto la consapevolezza del COGNOME della provenienza delittuosa delle somme da lui ricevute da NOME COGNOME e da lui poi impiegate nelle attività economiche che sono indicate nel capo i) d’imputazione, sulla base dei seguenti elementi di prova e argomentazioni: a) i legami esistenti tra il COGNOME e i membri della RAGIONE_SOCIALE COGNOME, quali emergevano: a.1) dal fatto che l’immobile sito in INDIRIZZO, nel quale aveva sede RAGIONE_SOCIALE, cioè lo studio di commercialista di cui il COGNOME era stato socio fondatore e che aveva amministrato per più di venti anni, era di proprietà di RAGIONE_SOCIALE, cioè di una società che era partecipata e amministrata da NOME COGNOME, e che, nello stesso immobile, vi era anche la sede di RAGIONE_SOCIALE, società che era sempre riferibile a NOME COGNOME; a.2) dal fatto che NOME COGNOME e NOME NOME COGNOME erano residenti, la prima dal 2008 e il secondo dal 2010, nell’immobile di INDIRIZZO INDIRIZZO, che era di proprietà di RAGIONE_SOCIALE, che era all’epoca amministrata dal COGNOME; a.3) dal fatto che, come aveva riferito la parte civile NOME COGNOME, durante i programmi televisivi del “NOME NOME” era stato trasmesso un video in cui NOME COGNOME mostrava di avere donato un’auto al Comune di Camairago alla presenza, tra gli altri, del COGNOME, che il COGNOME aveva presentato come il suo commercialista (a proposito di quest’ultimo elemento, che è stato
esattamente indicato alla pag. 34 della sentenza di primo grado, il Collegio ritiene che la sua valenza non si possa reputare inficiata dal fatto che, per errore, la Corte d’appello di Milano COGNOME indicato che il COGNOME aveva partecipato a un programma televisivo del “NOME” anziché a un video che era stato trasmesso durante i programmi televisivi dello stesso NOME); b) la sostanziale inspiegabilità delle operazioni di trasferimento di somme, da parte di NOME COGNOME a RAGIONE_SOCIALE, e di successivo impiego delle stesse somme da parte del COGNOME nelle attività economiche indicate nel capo i) dell’imputazione, se non nella prospettiva di reimpiegare nel mercato lecito somme di provenienza illecita, alla luce del fatto che NOME COGNOME aveva trasferito le medesime somme a RAGIONE_SOCIALE in un momento in cui non poteva vantare alcuna pretesa nei confronti di tale società.
Tale motivazione della ritenuta consapevolezza, quanto meno generica, del COGNOME della provenienza delittuosa del capitale che gli era stato trasferito da NOME COGNOME, in quanto proveniente dall’attività truffaldina di suo padre, di sua madre e di lei stessa, e da lui impiegato nelle più volte menzionate attività economiche, appare priva di contraddizioni e di illogicità manifeste, oltre che esente da vizi di violazione di legge.
In particolare, contrariamente a quanto è sostenuto dal ricorrente, non appare né contraddittoria né manifestamente illogica la valorizzazione, da parte dei giudici del merito, dell’elemento che, dalle operazioni di trasferimento di somme, da parte di NOME COGNOME a RAGIONE_SOCIALE, e di successivo reimpiego delle stesse somme da parte del COGNOME, non poteva derivare alcun vantaggio a NOME COGNOME e a suoi familiari se non quello di reimpiegare nel mercato lecito le somme provenienti dall’attività truffaldina da essi svolta.
Infatti, semplicemente, i giudici del merito hanno reputato – in modo che non appare, appunto, né contraddittorio né manifestamente illogico – che non fosse credibile che il COGNOME, alla luce dei suoi evidenziati legami con la RAGIONE_SOCIALE COGNOME e dell’illogicità delle operazioni dal punto di vista di NOME COGNOME, avesse agito, senza «fa troppe domande» (così a pag. 36 della sentenza di primo grado), perché le operazioni erano convenienti dal punto di vista de RAGIONE_SOCIALE e non, piuttosto, per destinare a un impiego economicamente utile capitali provenienti dalle attività illecite dei “COGNOME“, nella consapevolezza di tale provenienza.
Si è già detto, infine, come il fatto che a NOME COGNOME potesse essere stato contestato, con riferimento al trasferimento di denaro a RAGIONE_SOCIALE, il reato d autoriciclaggio non inficia di per sé l’affermazione di responsabilità dell’imputato per il diverso reato di impiego dello stesso denaro di provenienza truffaldina. Sul punto, peraltro, la doglianza del ricorrente appare anche, come già quella analoga che egli aveva prospettato nell’ambito del secondo motivo, fondamentalmente generica.
4. Il quarto motivo non è fondato.
NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME avevano esercitato l’azione civile nei confronti del COGNOME per il risarcimento del danno che era stato loro cagionato dal reato di impiego del denaro di provenienza dalle truffe che erano state commesse ai loro danni dal “NOME” (NOME COGNOME) in concorso con la moglie NOME e con la figlia NOME COGNOME.
I giudici del merito avevano accertato che il suddetto denaro di provenienza illecita era stato ricevuto dal COGNOME da NOME COGNOME, la quale lo aveva in particolare trasferito a RAGIONE_SOCIALE, di cui il COGNOME era amministratore (fin 24/07/2018), impiegandolo, poi, lo stesso COGNOME, in attività economiche intestate a RAGIONE_SOCIALE
Ciò posto, il Collegio reputa che, col ritenere che, poiché nessun membro della “RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE” «compariva» all’epoca in RAGIONE_SOCIALE – sicché tale società era terza rispetto alla stessa “RAGIONE_SOCIALE” – il reato di impiego di beni di provenienza illecita che era stato commesso dal COGNOME aveva reso ancora più difficoltoso, per NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, rintracciare le somme che erano state loro fraudolentemente sottratte dalla “RAGIONE_SOCIALE” e ottenere il pronto ristoro delle stesse somme, e che tale maggiore difficoltà aveva comportato un danno non patrimoniale che era quindi derivato dal reato che era stato commesso dal COGNOME, la Corte d’appello di Milano COGNOME correttamente e logicamente ritenuto la fondatezza della domanda agli effetti civili che era stata proposta da NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME nei confronti del COGNOME per ottenere il risarcimento del danno cagionato dal reato di impiego del denaro proveniente dalle truffe che essi avevano subito.
4. Il quinto motivo non è fondato.
La giurisprudenza della Corte di cassazione è costante nell’affermare che la determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso in cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simil nei quali sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (tra le tante, Se 4, n. 46412 del 05/11/2015, COGNOME, Rv. 265283-01).
Anche successivamente, è stato ribadito che la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti e alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti e attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, è sufficiente che dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata
spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Mastro, Rv. 271243-01).
Nel caso di specie, la pena irrogata di cinque anni di reclusione ed C 6.000,00 di multa è di gran lunga al di sotto della media edittale della pena per il delitto d cui all’art. 648-ter cod. pen. (che è pari a pari a otto anni di reclusione ed C 15.000,00 di multa), con la conseguenza che l’obbligo di motivazione ben può ritenersi assolto dalla Corte d’appello mediante il riferimento alle modalità del fatto e al lungo periodo in cui lo stesso era maturato ed era stato compiuto, riferimento di per sé idoneo a comprovare l’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., mentre il riferimento, che è stato pure operato dalla Corte d’appello, al fatto che l’imputato aveva negato alcune circostanze ritenute evidenti, ancorché incongruo, non appare tale – tenuto conto dell’irrogazione di una pena ben al di sotto di quella media edittale e degli altri criteri utilizzati – da potere di per sé configurare abuso del potere discrezionale che è conferito al giudice dall’art. 132 cod. pen.
Pertanto, il ricorso deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Dal rigetto del ricorso consegue altresì la condanna del ricorrente anche al pagamento delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente grado dalle parti civili NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, le quali spese, tenuto conto della difesa congiunta di tre diverse parti civili, con i conseguenti aumenti, si liquidano in complessivi C 5.897,60, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l’imputato al pagamento delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel grado dalle parti civili COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME che si liquidano in complessivi euro 5897,60, oltre accessori di legge.
Così deciso il 16/05/2025.