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Immunità giudiziale: quando l’offesa non è reato

La Corte di Cassazione ha confermato l’assoluzione di due avvocati dall’accusa di diffamazione per aver inserito in un atto giudiziario frasi offensive contro la controparte. La sentenza ribadisce l’ampia portata dell’immunità giudiziale prevista dall’art. 598 c.p., che copre anche le espressioni non strettamente necessarie alla difesa, purché funzionalmente collegate all’oggetto della causa, tutelando così la libertà nell’esercizio del diritto di difesa.

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Pubblicato il 18 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Immunità giudiziale e diffamazione: la Cassazione traccia i confini del diritto di difesa

L’esercizio del diritto di difesa in un’aula di tribunale è un pilastro del nostro ordinamento, ma fino a che punto può spingersi un avvocato nel difendere il proprio cliente? È possibile utilizzare espressioni forti, persino offensive, senza incorrere nel reato di diffamazione? A queste domande risponde una recente sentenza della Corte di Cassazione, che ha fatto luce sull’applicazione dell’immunità giudiziale prevista dall’art. 598 del codice penale.

I Fatti: Un’Accusa Grave in un Atto Giudiziario

Il caso trae origine da una controversia civile. Due avvocati, nell’ambito di un’azione revocatoria contro un notaio, inserivano nel loro atto di citazione una frase estremamente pesante. Essi sostenevano che le “ripetute azioni giudiziali” del notaio avessero provocato nei suoi genitori “sofferenze tali e tante” da condurre alla morte della madre. Questa accusa, di fatto, imputava al professionista la responsabilità morale per il decesso della propria madre.

La questione assumeva contorni ancora più delicati poiché l’atto di citazione era stato trascritto nei Pubblici Registri Immobiliari, garantendo così la massima diffusione all’affermazione offensiva. Il notaio, sentendosi leso nella sua reputazione, querelava i due legali per diffamazione aggravata. Tuttavia, sia in primo grado che in appello, i giudici assolvevano gli avvocati, ritenendo che la loro condotta fosse coperta dalla speciale esimente dell’immunità giudiziale.

La Decisione della Corte: l’ampia portata dell’immunità giudiziale

La parte civile ha proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che l’offesa non avesse alcun nesso funzionale con l’oggetto della causa (un’azione revocatoria) e fosse stata inserita al solo scopo di lederne la reputazione. La Suprema Corte, però, ha rigettato il ricorso, confermando l’assoluzione e fornendo chiarimenti cruciali sulla portata dell’art. 598 c.p.

I giudici hanno stabilito che l’esimente per le offese contenute negli scritti difensivi ha un’applicazione molto ampia. La sua ratio legis è quella di garantire la massima libertà nell’esercizio del diritto di difesa, un principio fondamentale che prevale su altre considerazioni.

Le Motivazioni

La Corte ha spiegato che, per l’applicazione dell’immunità giudiziale, sono necessarie due condizioni:
1. Le offese devono concernere l’oggetto della causa.
2. Devono avere una rilevanza funzionale per le argomentazioni difensive.

Tuttavia, e questo è il punto centrale, la Corte ha chiarito che il concetto di “rilevanza funzionale” va interpretato in senso lato. Non è necessario che le frasi offensive siano vere, indispensabili o decisive per la strategia difensiva. È sufficiente che siano inserite nel contesto difensivo e siano strumentali a sostenere una tesi o a persuadere il giudice.

Nel caso specifico, l’intento degli avvocati era quello di “sensibilizzare il giudice” sulla presunta condotta del notaio e sulla sua intenzione di sottrarre beni alla garanzia patrimoniale dei creditori (i genitori). La frase sulla morte della madre, per quanto grave e potenzialmente falsa, era funzionale a dipingere un quadro negativo della controparte e a rafforzare la tesi accusatoria.

La Cassazione ha anche operato una netta distinzione tra la norma penale (art. 598 c.p.) e quella processual-civilistica (art. 89 c.p.c.), che consente al giudice civile di ordinare la cancellazione di frasi “offensive o sconvenienti”. La decisione di un giudice civile di cancellare una frase non implica automaticamente la commissione del reato di diffamazione, poiché i due istituti rispondono a finalità e canoni valutativi differenti. Il primo esclude la punibilità di un reato, il secondo mira a garantire la correttezza e la lealtà processuale.

Le Conclusioni

La sentenza consolida un orientamento giurisprudenziale che privilegia la libertà di difesa. Per gli avvocati, ciò significa poter utilizzare un linguaggio anche aspro e veemente, purché le affermazioni restino ancorate, anche se in modo non strettamente necessario, all’oggetto della controversia. Per le parti processuali, la decisione chiarisce che il contesto giudiziario offre una tutela rafforzata alle espressioni usate per difendere le proprie ragioni, anche a costo di sacrificare parzialmente la sensibilità della controparte. Resta fermo che il limite invalicabile è rappresentato da offese del tutto gratuite e prive di qualsiasi nesso, anche indiretto, con la strategia difensiva.

Un avvocato può essere accusato di diffamazione per ciò che scrive in un atto giudiziario?
Di norma no, a meno che le offese non siano completamente estranee all’oggetto della causa. L’art. 598 del codice penale prevede una causa di non punibilità (l’immunità giudiziale) che protegge le espressioni offensive contenute negli scritti difensivi, purché abbiano un nesso funzionale con la controversia.

L’offesa contenuta in un atto giudiziario deve essere strettamente necessaria alla difesa per non essere punibile?
No. La Corte di Cassazione ha chiarito che non è richiesta una necessità o decisività dell’offesa. È sufficiente che l’espressione sia inserita nel contesto difensivo e sia strumentale a sostenere le argomentazioni della parte, anche se non indispensabile o non veritiera.

Se un giudice civile ordina la cancellazione di una frase da un atto perché offensiva, significa che è stato commesso il reato di diffamazione?
Non necessariamente. La cancellazione di frasi offensive o sconvenienti, prevista dall’art. 89 del codice di procedura civile, risponde a canoni valutativi diversi e più ampi rispetto alla norma penale. Pertanto, la decisione del giudice civile di cancellare una frase non è vincolante per il giudice penale che deve valutare la sussistenza del reato di diffamazione e l’applicabilità dell’immunità giudiziale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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