Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 19683 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 19683 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 04/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOME nato a Taurianova il 22/06/1975; nel procedimento a carico del medesimo; avverso la sentenza del 30/04/2024 della Corte di appello di Palermo; nel procedimento a carico del medesimo; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consi g liere NOME COGNOME udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dr. NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso. udite le conclusioni del difensore dell’imputato, avv.to COGNOME che ha insistito per l’acco g limento dei motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza di cui in epigrafe, la Corte di appello di Palermo confermava la sentenza del 16.2.2022 del tribunale di Termini Imerese con cu COGNOME NOME era stato condannato in ordine al reato di cui all’art. 81 c.p. e 513 bis c.p. e al reato ex artt. 582 e 585 c.p.
Avverso la sentenza sopra indicata propone ricorso COGNOME il proprio difensore, deducendo due motivi di impugnazione.
Deduce con il primo, rispetto ad entrambi i capi di imputazione, il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta attendibilità della persona offesa, fronte di incongruenze emerse nel relativo narrato. Le due decisioni dei giudici non coinciderebbero nella ricostruzione del numero di episodi successivi al primo, e ciò costituirebbe il frutto di aporie presenti nella narrazione della persona offesa. E in tal senso si citano per stralcio alcune relative dichiarazioni. Inoltre giudici avrebbero riconosciuto plurime ragioni del dissidio insorto tra le parti, con riferimento, in particolare, anche al tentativo di spendita di denaro falso da parte della p.o., mentre quest’ultima avrebbe negato tale aspetto e i giudici non avrebbero tenuto conto di ciò ai fini della valutazione della credibilità de predetto soggetto. Che avrebbe anche mentito sul possesso di una licenza per l’attività di venditore ambulante. Si contesta, poi, il rilievo di validi risc testimoniali offerti al racconto della persona offesa, come sostenuto invece dai giudici e in tal senso si riportano stralci di dichiarazioni. Da qui una motivazione contraddittoria e apparente, siccome avulsa da circostanze processuali.
Con il secondo motivo deduce vizi di violazione di legge per la mancata qualificazione del fatto di cui al capo a) ai sensi degli artt. 393 o 610 c.p. Si premette che sarebbe stata la persona offesa a praticare prezzi dei vendita troppo bassi, nel quadro di una attività imprenditoriale non regolare, così realizzando, la stessa, condotte di concorrenza sleale. Per cui le rimostranze dell’imputato, mai violente o minacciose, miravano solo a far cessare tale condotta. Di qui la qualificabilità dei fatti ai sensi delle fattispecie in premes richiamate.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo è inammissibile. Si premette che in tema di ricorso per cassazione, la contraddittorietà della motivazione di cui all’art.606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., deve essere interna alla sentenza impugnata, sicché la stessa va esclusa nel caso di difforme valutazione di uno stesso fatto da parte delle sentenze dei due gradi di merito, essendo anzi questa la naturale conseguenza della libertà di apprezzamento e di giudizio degli organi giurisdizionali, che, mediante la motivazione, espongono, in maniera autonoma ed indipendente, le ragioni delle decisioni adottate (Conf.: n. 11484 del 1986,
Rv. 174057-01). (Sez. 3, n. 13678 del 20/01/2022, COGNOME, Rv. 283034 – 01). In tale quadro, la ricostruzione degli episodi accaduti, come operata dalla corte di appello, non può essere inficiata richiamando, per quanto sopra precisato, la precedente decisione di merito, laddove lo stesso ricorrente concorda sulla sussistenza, (cfr. pag. 5 del ricorso) dopo la prima vicenda, di altri tre episodi come citati nella sentenza impugnata. Quanto alle ragioni del dissidio tra le parti (imputato e persona offesa), appare coerente e non “manifestamente” illogica, come richiesto ex art. 606 comma 1 lett. e) c.p.p., la finale considerazione dei giudici per cui, anche a voler ammettere plurime cause del dissidio stesso, queste non inficierebbero la ricostruzione materiale dei fatti, tali quindi da poter essere ricondotti nella fattispecie contestata. Quanto alla contestazione circa la reale fonte informativa dei testi che, secondo i giudici, hanno confortato il racconto della persona offesa con resoconti che non riferirebbero di tutti gli scontri intervenuti tra i due soggetti coinvolti solo per la ragione per cui ess sarebbero stati loro descritti dall’imputato (piuttosto che dalla persona offesa, secondo quanto invece sostento la difesa), essa appare parziale e quindi insufficiente; ciò perché, rispetto alla citazione in tal senso operata dai giudici, due testi di riscontro, COGNOME e COGNOME il ricorrente oppone la sua critica, riguardante la erroneità della individuazione, da parte dei giudici, della fonte informativa dei testimoni ( la persona offesa secondo la difesa, e non l’imputato) solo limitatamente al teste COGNOME trascurando del tutto il richiamo in sentenza anche al COGNOME. Omettendo peraltro anche di dedurre la decisività di una tale ritenuto errore, nei riguardi peraltro di un solo teste, laddove è invece noto che il vizio motivazionale rilevante, oltre a sussistere, deve anche essere rappresentato, dal lato dei chi lo propone, in termini di decisività anche e nonostante la sussistenza di altre prove (come appunto, nel caso di specie, costituite da plurime dichiarazioni valorizzate dai giudici, in parte anche dell’imputato). Marginale appare, poi, la rilevazione di falsità sulla regolarit della licenza posseduta da parte della persona offesa, tanto più nel quadro di una irrilevanza di tale circostanza ai fini della ricostruzione della qualificazio giuridica dei fatti, come meglio illustrata nel paragrafo successivo. Così che, in ultima analisi, la critica sulla attendibilità del teste persona offesa non par cogliere, come necessario, specifici passaggi motivazionali manifestamente illogici o incoerenti, e, piuttosto, propone una diversa valutazione di dati disponibili, come tale inammissibile in questa sede. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Il secondo motivo è infondato. Si premette che esso è nuovo, in quanto non proposto in appello, come risulta dal riepilogo delle censure ivi proposte e contenuto in sentenza, e mai confutato. Invero, sussiste un onere di specifica
contestazione del riepilogo dei motivi di appello, contenuto nella sentenza impugnata, allorquando si ritenga che non sia stata menzionata la medesima questione come già proposta in sede di gravame; in mancanza della predetta contestazione, il motivo deve pertanto ritenersi proposto per la prima volta in cassazione, e quindi tardivo (cfr. in tal senso, con riferimento alla omessa contestazione del riepilogo dei motivi di gravame, Sez. 2, n. 31650 del 03/04/2017 Ud. (dep. 28/06/2017 ) Rv. 270627 – 01 COGNOME). Tale principio deve confrontarsi con la particolare circostanza per cui si viene a proporre, per la prima volta, la riqualificazione dei fatti e la peculiarità delle circostanze e de questioni della tematica che viene in rilievo, ne giustifica l’infondatezza invece della inammissibilità. A tale ultimo riguardo vige il principio per cui la Corte d Cassazione può procedere alla riqualificazione giuridica del fatto, anche di ufficio, solo entro i limiti in cui esso sia stato già storicamente ricostruito dai giudici merito (da ultimo Sez. 2, n. 7462 del 30/01/2018 Rv. 272091 – 01). Tale non è il caso in esame, in cui la condotta della parte civile, volta a vendere merce ad un prezzo fortemente concorrenziale, siccome vicino a quello di costo della stessa, pur riconosciuta dagli stessi giudici, non integra tuttavia alcuna concorrenza sleale, trattandosi pur sempre di una legittima scelta commerciale; sicchè, prima ancora di ogni disquisizione in termini giuridici sui fatti in esame, emerge la insussistenza del presupposto di fatto su cui si muove la prospettata riqualificazione, secondo la quale la predetta scelta commerciale, della persona offesa, integrerebbe una condotta imprenditoriale sleale e come tale in grado di legittimare la prospettata riqualificazione, laddove, lo si ripete, non è stat accertata storicamente né tantomeno dichiarata in sentenza, la emersione di una condotta “sleale” da parte della ritenuta vittima. Ad ogni modo, va precisato che l’art. 513 bis c.p. punisce chiunque nell’esercizio di un’attivit commerciale, industriale o comunque produttiva, compie atti di concorrenza con violenza o minaccia, senza riportare alcun riferimento alla necessaria assenza di condotte imprenditoriali in sé sleali (ma come detto non sarebbe questo il caso) e provenienti dalla persona offesa, che se esistenti potrebbero come tali escludere una tale fattispecie, come invece prospettato dalla difesa. E infatti, in tale contesto normativo le Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato che ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 513 cod. pen. è più semplicemente necessario il compimento di atti di concorrenza che, posti in essere nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente (in motivazione, la Corte ha sottolineato la centralità, ai fini dell’ermeneusi della norma, del principio di libera concorrenza come discendente, Corte di Cassazione – copia non ufficiale
oltre che dall’art. 41, comma 1, Cost., dalla normativa di riferimento, sia interna che euro-unitaria). (Sez. U, n. 13178 del 28/11/2019, dep. 2020, Rv. 278735 01). Il Supremo Collegio ha opportunamente precisato che l’intima connessione che la norma incriminatrice richiede fra gli atti di esercizio della libertà concorrenza all’interno di un rapporto di competizione economica e le specifiche note modali rappresentate dall’utilizzo della violenza o della minaccia, costituisce un fattore distorsivo delle regole di svolgimento di quella che dovrebbe essere, di contro, una paritaria contesa commerciale, sino a varcare il limite dell’atto di concorrenza anche nel suo stigma di “slealtà” (irrilevante a maggior ragione per quanto sopra detto circa la lettera della norma, nei confronti dell’azione della persona offesa), innestando sull’atto di esercizio di una libertà – e con un grado d’intensità variabile a seconda dei casi – l’illecita componente oggettiva della contestuale compressione, quando non addirittura della negazione, della corrispondente, e parimenti tutelata, possibilità di autodeterminazione del concorrente nello svolgimento delle diverse attività produttive richiamate nella predetta disposizione. Attorno alle componenti oggettive della violenza e della minaccia, che non vi figurano come elementi finalisticamente orientati, bensì come elementi costitutivi della condotta, concorrendo a delinearne la tipicità attraverso una previsione in forma alternativa del suo aspetto modale, ruota dunque la sfera di offensività dell’intera fattispecie. Per tale ragione, il legislato fa riferimento, anche nella rubrica della norma in esame, ad una condotta di illecita concorrenza, ossia ad un atto di concorrenza non semplicemente sleale, ma necessariamente caratterizzato dalla peculiare natura dei mezzi adoperati, che a loro volta ne accompagnano la realizzazione e ne giustificano, al contempo, il giudizio di meritevolezza della tutela penale: la violenza o la minaccia, all’interno di un rapporto di concorrenzialità legato allo svolgimento di un’attività d’impresa in competizione, anche solo potenziale, con l’omologa attività di uno o più soggetti egualmente interessati ad esercitarla in uno spazio di mercato dove le condizioni della libertà di concorrenza siano rispettate e ne garantiscano la possibilità di una lecita attuazione. Si è precisato così che assumono rilievo penale, alla luce della richiamata normativa interna ed eurounitaria, quei comportamenti competitivi, posti in essere sia in forma attiva che impeditiva dell’esercizio dell’altrui libertà di concorrenza, che si prestino a essere realizzati in forme violente o minatorie, sì da favorire o consentire l’illecit acquisizione, in pregiudizio del concorrente minacciato o coartato, di posizioni di vantaggio ovvero di predominio sul libero mercato, senza alcun merito derivante dalle capacità effettivamente mostrate nell’organizzazione e nello svolgimento della propria attività produttiva. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Cosicchè la ricostruzione qui in discussione appare in linea con tali principi, laddove valorizza le condotte violente tese ad impedire, in una data zona,
l’attività commerciale di controparte, senza che alcun rilievo abbia, peraltro, ai fini della materialità del reato, la portata concorrenziale, tantomeno sleale, della
azione in corso da parte della vittima.
3. GLYPH
Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere rigettato con conseguente onere per il
ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 04/04/2025