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Illecita concorrenza: quando la violenza è reato

La Corte di Cassazione conferma la condanna per illecita concorrenza e lesioni a carico di un commerciante. Il ricorso, basato sulla presunta concorrenza sleale della vittima e sulla non attendibilità delle sue dichiarazioni, è stato respinto. La Suprema Corte ha chiarito che, ai fini del reato di cui all’art. 513 bis c.p., è sufficiente l’uso di violenza o minaccia per ostacolare un’attività concorrente, essendo irrilevante che la vittima pratichi a sua volta una politica commerciale aggressiva.

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Pubblicato il 4 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Illecita concorrenza: la violenza nel commercio è sempre reato

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha riaffermato un principio fondamentale in materia di competizione commerciale: l’uso della violenza o della minaccia per ostacolare un concorrente integra sempre il reato di illecita concorrenza, a prescindere dal fatto che la vittima possa aver tenuto comportamenti commercialmente aggressivi. Questo caso offre spunti cruciali per comprendere i limiti della libera concorrenza e le tutele penali a presidio del mercato.

I fatti del caso: la rivalità tra ambulanti

La vicenda giudiziaria nasce dalla rivalità tra due commercianti ambulanti. Uno dei due, secondo le accuse, avrebbe posto in essere una serie di condotte violente e minacciose nei confronti del concorrente, culminate anche in aggressioni fisiche. La ragione del dissidio, secondo la difesa dell’imputato, risiedeva nella politica di prezzi eccessivamente bassi praticata dalla persona offesa, configurando una forma di concorrenza sleale.

Condannato sia in primo grado che in appello per i reati di lesioni personali e illecita concorrenza con violenza, l’imputato ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo principalmente due argomenti: l’inattendibilità della persona offesa e un’errata qualificazione giuridica dei fatti, che a suo dire non costituivano reato ma una reazione a una condotta commerciale scorretta.

I motivi del ricorso e la tesi dell’illecita concorrenza reciproca

La difesa ha tentato di smontare l’impianto accusatorio su due fronti.

In primo luogo, ha contestato la credibilità della vittima, evidenziando presunte incongruenze nelle sue dichiarazioni e il fatto che i giudici di merito non avrebbero considerato adeguatamente le cause del dissidio, come il tentativo della persona offesa di spendere denaro falso o la sua presunta mancanza di una regolare licenza di commercio.

In secondo luogo, ha sostenuto che le condotte dell’imputato non fossero violente o minacciose, ma semplici “rimostranze” volte a far cessare la concorrenza sleale della vittima. Secondo questa tesi, i fatti avrebbero dovuto essere riqualificati in reati minori, come l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni (art. 393 c.p.) o la violenza privata (art. 610 c.p.), se non addirittura considerati non punibili.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha respinto integralmente il ricorso, ritenendo entrambi i motivi infondati.

La valutazione dell’attendibilità della persona offesa

Sul primo punto, la Corte ha ribadito un principio consolidato: il giudizio sull’attendibilità dei testimoni e la ricostruzione dei fatti spetta ai giudici di merito (primo grado e appello). Il ricorso per cassazione non può trasformarsi in un terzo grado di giudizio per riesaminare le prove. È possibile contestare la motivazione solo se questa risulta palesemente illogica o contraddittoria, cosa che i giudici non hanno riscontrato nel caso di specie. La Corte ha ritenuto coerente la valutazione dei giudici d’appello, secondo cui, anche ammettendo plurime cause di dissidio, queste non avrebbero comunque scalfito la ricostruzione dei fatti violenti posti in essere dall’imputato.

L’inquadramento giuridico del reato di illecita concorrenza

Sul secondo e più rilevante punto, la Cassazione ha chiarito la portata dell’art. 513 bis c.p. La norma punisce chiunque, nell’esercizio di un’attività commerciale, compie atti di concorrenza con violenza o minaccia. La Corte, richiamando anche una precedente pronuncia delle Sezioni Unite, ha sottolineato che l’elemento centrale e distintivo del reato è proprio l’uso della forza o dell’intimidazione.

Le motivazioni della Sentenza

Le motivazioni della Corte si fondano sulla tutela del principio di libera concorrenza, sancito anche dall’art. 41 della Costituzione. Qualsiasi atto che utilizzi la violenza o la minaccia per alterare le dinamiche del mercato è di per sé illecito e penalmente rilevante. La norma incriminatrice non richiede affatto che la vittima tenga una condotta commercialmente irreprensibile. In altre parole, la “slealtà” commerciale del concorrente (come la vendita a prezzi stracciati) non giustifica in alcun modo una reazione violenta. La competizione, anche aspra, deve rimanere su un piano paritario e legale; l’introduzione della violenza ne distorce le regole fondamentali e costituisce un fattore che il diritto penale ha il dovere di reprimere.

La Corte ha specificato che il reato di illecita concorrenza ex art. 513 bis c.p. è integrato dal semplice compimento di atti connotati da violenza o minaccia, idonei a ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente. Non è necessario che la concorrenza della vittima sia “leale”, perché la legge tutela la libertà del mercato da interferenze violente, non la correttezza di ogni singolo operatore.

Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Pronuncia

Questa sentenza invia un messaggio chiaro a tutti gli operatori economici: la competizione di mercato non può mai degenerare in violenza. Le eventuali controversie commerciali, incluse quelle relative a pratiche ritenute sleali, devono essere risolte attraverso gli strumenti legali previsti dall’ordinamento (azioni civili, segnalazioni alle autorità competenti), non con l’intimidazione o l’aggressione fisica. La pronuncia rafforza la tutela penale della libertà d’impresa, chiarendo che la violenza è un elemento che, di per sé, rende la concorrenza illecita e meritevole di sanzione penale, senza possibilità di “giustificazioni” basate sulla presunta scorrettezza altrui.

Quando la competizione tra imprenditori diventa il reato di illecita concorrenza secondo l’art. 513 bis c.p.?
Il reato si configura quando un soggetto, nell’esercizio della propria attività, compie atti di concorrenza utilizzando violenza o minaccia per ostacolare o interferire con l’attività di un concorrente.

È possibile giustificare l’uso della forza contro un concorrente se quest’ultimo pratica prezzi sleali?
No. La Corte di Cassazione ha chiarito che la condotta eventualmente sleale della persona offesa (come la pratica di prezzi molto bassi) è irrilevante e non giustifica in alcun modo l’uso della violenza o della minaccia, che sono gli elementi costitutivi del reato di illecita concorrenza.

In un ricorso per cassazione, è possibile contestare la valutazione dei fatti già decisa nei gradi di merito?
No, di regola non è possibile. Il ricorso per cassazione serve a controllare la corretta applicazione della legge, non a riesaminare i fatti. Si può contestare la motivazione della sentenza solo se essa appare manifestamente illogica, contraddittoria o del tutto mancante, ma non per proporre una diversa valutazione delle prove.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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