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Identificazione indagato: Cassazione annulla ordinanza

La Corte di Cassazione ha annullato un’ordinanza di custodia cautelare per reati di narcotraffico associativo. La decisione si fonda sulla debolezza degli elementi utilizzati per l’identificazione dell’indagato, basata su un soprannome e dati generici non supportati da riscontri oggettivi. La Corte ha ritenuto l’individuazione dubbia e ha rinviato il caso al Tribunale del riesame per una nuova valutazione.

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Pubblicato il 12 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Identificazione dell’indagato: quando un soprannome non basta

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha riaffermato un principio fondamentale in materia di misure cautelari: la corretta identificazione dell’indagato non può basarsi su mere deduzioni o su elementi generici. Il caso analizzato riguarda un’ordinanza di custodia cautelare annullata proprio per la dubbia efficacia degli elementi che collegavano una persona a un soprannome emerso durante le indagini. Vediamo nel dettaglio la vicenda.

I Fatti del Caso

Un soggetto veniva sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere con l’accusa di aver partecipato a un’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa. Secondo l’accusa, l’uomo svolgeva il ruolo di spacciatore al dettaglio per conto di un’organizzazione che controllava il monopolio della droga in una nota città del sud Italia.

Contro questa decisione, la difesa presentava ricorso in Cassazione, sollevando due questioni principali: la carenza di prove sulla partecipazione all’associazione e la mancanza dei presupposti per l’aggravante mafiosa.

I Motivi del Ricorso: Dubbi sulla corretta identificazione dell’indagato

Il fulcro del ricorso verteva sulla debolezza degli elementi utilizzati per l’identificazione dell’indagato. Nelle intercettazioni, si faceva riferimento a un individuo soprannominato “Antonio il nero”, residente in una specifica zona della città.

La difesa ha evidenziato come l’attribuzione di tale soprannome al proprio assistito fosse il risultato di una mera intuizione investigativa, basata su tre elementi:
1. Il nome di battesimo coincideva.
2. L’indagato risiedeva effettivamente nel quartiere menzionato.
3. L’indagato era di carnagione scura.

Tuttavia, mancavano elementi oggettivi di riscontro. I collaboratori di giustizia, pur conoscendo bene l’indagato e avendo condiviso con lui periodi di detenzione, non avevano mai confermato l’uso di quel soprannome per identificarlo. Inoltre, la difesa aveva prodotto un alibi per una data specifica in cui, secondo le intercettazioni, “Antonio il nero” avrebbe incontrato altri associati, sostenendo che in quel giorno l’indagato si trovasse agli arresti domiciliari.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, annullando l’ordinanza impugnata e rinviando gli atti al Tribunale del riesame per un nuovo esame. La Corte ha ritenuto fondate le perplessità sollevate dalla difesa riguardo alla certezza dell’identificazione.

Le Motivazioni

Secondo la Suprema Corte, l’individuazione di una persona basata esclusivamente su un soprannome richiede l’acquisizione di elementi di riscontro oggettivi che, nel caso di specie, non erano stati forniti. Gli elementi a sostegno dell’accusa (nome, luogo di residenza e carnagione) sono stati giudicati di “intrinseca genericità”. Il nome e il luogo di residenza possono essere comuni a una pluralità di soggetti, e non vi era alcuna prova che l’appellativo “il nero” fosse effettivamente legato alla carnagione dell’indagato.

La Corte ha sottolineato che, per un’identificazione certa, sarebbero stati necessari riscontri come l’intestazione di utenze telefoniche, fonti dichiarative che attestassero l’uso del soprannome, o altri fatti oggettivi dimostrativi. L’assenza di tali prove, unita al fatto che nemmeno i collaboratori di giustizia avevano confermato il soprannome, rendeva l’intero impianto accusatorio su questo punto di “dubbia efficacia dimostrativa”.

Le Conclusioni

Questa sentenza ribadisce un principio di garanzia cruciale: nel processo penale, e in particolare nella fase cautelare dove è in gioco la libertà personale, non c’è spazio per deduzioni investigative non corroborate da prove concrete. L’identificazione dell’indagato deve poggiare su basi solide e verificabili. Un soprannome, da solo, non può costituire un grave indizio di colpevolezza se non è ancorato a una serie di riscontri oggettivi che ne confermino in modo univoco l’attribuzione a una specifica persona. Il Tribunale del riesame dovrà ora procedere a una nuova valutazione, superando la genericità degli accertamenti finora svolti.

È sufficiente un soprannome emerso in un’intercettazione per l’identificazione di un indagato?
No, secondo la sentenza, un soprannome da solo non è sufficiente. L’identificazione basata su un soprannome deve essere supportata da elementi di riscontro oggettivi che colleghino in modo certo e univoco quel soprannome alla persona indagata.

Quali elementi sono considerati generici e insufficienti per l’identificazione?
La Corte ha ritenuto generici e insufficienti elementi come la coincidenza del nome di battesimo, la residenza in una determinata zona e la carnagione, specialmente se non ci sono prove che il soprannome derivi effettivamente da quella caratteristica fisica. Questi dati possono essere comuni a più persone e non forniscono la certezza richiesta.

Perché la Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza?
La Corte ha annullato l’ordinanza perché ha ritenuto l’individuazione del ricorrente come il soggetto menzionato nelle intercettazioni tutt’altro che certa. L’accertamento si basava su una deduzione investigativa generica e priva di riscontri oggettivi, apparendo quindi di ‘dubbia efficacia dimostrativa’, un livello probatorio insufficiente per giustificare una misura cautelare.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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