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Identificazione del condannato: CUI e alternative

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di un condannato che chiedeva misure alternative alla detenzione. La decisione si fonda sulla sua irreperibilità e su una controversia circa la sua identità. La Corte ha stabilito che la presenza di un medesimo Codice Univoco Identificativo (CUI), nonostante le discrepanze anagrafiche, è prova sufficiente della corretta identificazione del condannato, rendendo la sua mancata collaborazione un ostacolo insormontabile all’accoglimento dell’istanza.

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Pubblicato il 7 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

L’identificazione del condannato: il CUI come prova regina

Nel complesso panorama della procedura penale, l’identificazione del condannato rappresenta un passaggio fondamentale, soprattutto quando si discute della concessione di misure alternative alla detenzione. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito l’importanza del Codice Univoco Identificativo (CUI) come strumento principe per risolvere dubbi sull’identità di un soggetto, anche in presenza di dati anagrafici discordanti. Questo caso evidenzia come l’irreperibilità e la mancata collaborazione del condannato possano precludere l’accesso a benefici penitenziari.

I fatti del caso

Un soggetto, condannato con sentenza irrevocabile, presentava istanza al Tribunale di Sorveglianza per ottenere l’affidamento in prova al servizio sociale o, in subordine, la detenzione domiciliare. Il Tribunale rigettava la richiesta, motivando la decisione con due elementi cruciali: lo stato di irreperibilità del condannato e l’impossibilità di individuare un domicilio idoneo per l’esecuzione delle misure.

Il ricorrente, tramite il suo difensore, si rivolgeva alla Corte di Cassazione, lamentando un vizio di motivazione. La difesa sosteneva che il Tribunale avesse erroneamente stabilito l’identità tra l’istante (con una certa data e luogo di nascita) e il condannato (con dati anagrafici diversi), senza effettuare le necessarie verifiche sulle impronte digitali e sulle foto segnaletiche. Il dubbio sollevato era che vi fosse stato un errore nell’identificazione originaria della persona condannata.

L’importanza del CUI nell’identificazione del condannato

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendo le argomentazioni della difesa manifestamente infondate. Il punto centrale della decisione risiede nel valore probatorio del Codice Univoco Identificativo (CUI). Secondo le risultanze della banca dati della Questura, sia la persona con le generalità dell’istante sia quella con le generalità del condannato risultavano associate allo stesso, identico CUI.

Questo elemento, per la Suprema Corte, è stato decisivo. L’assegnazione del CUI, disciplinata da una procedura regolamentata (d.P.R. 87/2016), è finalizzata proprio a garantire una sicura identificazione della persona, superando eventuali alias o discrepanze anagrafiche. Tale codice si basa su dati certi come l’esame del DNA e le impronte digitali, confermati nel caso di specie anche dal fotosegnalamento.

Le motivazioni della Corte

La Corte ha stabilito che l’assunto del ricorrente, secondo cui egli non sarebbe la stessa persona del condannato, è erroneo. Il fatto che i due profili anagrafici condividano lo stesso CUI dimostra, senza ombra di dubbio, che si tratta della medesima persona fisica che ha fornito generalità diverse in momenti differenti. Non vi erano elementi concreti per ipotizzare un’errata attribuzione del CUI a persone diverse.

Di conseguenza, il Tribunale di Sorveglianza aveva correttamente qualificato l’istante come il soggetto interessato al procedimento. Tuttavia, proprio a causa della sua condotta – non avendo coltivato adeguatamente l’istruttoria e rimanendo irreperibile – egli stesso ha impedito al Tribunale di raccogliere gli elementi necessari per valutare la concessione delle misure alternative. In sostanza, la sua mancata collaborazione e il suo stato di irreperibilità hanno dimostrato un disinteresse verso la definizione del procedimento, rendendo impossibile ogni valutazione favorevole.

Conclusioni

La sentenza rafforza il principio secondo cui l’identificazione del condannato tramite il Codice Univoco Identificativo (CUI) costituisce una prova certa e difficilmente contestabile. In secondo luogo, essa ribadisce un concetto fondamentale nell’esecuzione penale: la concessione di benefici come le misure alternative richiede una partecipazione attiva e una collaborazione da parte del condannato. L’irreperibilità non solo impedisce materialmente l’esecuzione di tali misure, ma viene interpretata come un chiaro segnale di mancato interesse al percorso rieducativo, precludendo così l’accoglimento delle istanze. La decisione, infine, ha comportato la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma a favore della Cassa delle ammende, a causa dell’evidente infondatezza del ricorso.

Dati anagrafici diversi possono mettere in dubbio l’identificazione di un condannato se il Codice Univoco Identificativo (CUI) è lo stesso?
No. Secondo la Corte, il fatto che due profili anagrafici diversi condividano lo stesso CUI è la prova che si tratta della medesima persona fisica. Il CUI è un sistema di identificazione certa basato su dati biometrici che prevale su eventuali discrepanze anagrafiche.

Perché il ricorso per ottenere le misure alternative è stato respinto?
Il ricorso è stato respinto principalmente perché il condannato era irreperibile e non aveva collaborato con il Tribunale per fornire gli elementi necessari alla valutazione. Questa condotta ha reso impossibile individuare un domicilio e ha dimostrato un disinteresse verso il procedimento, precludendo l’accoglimento della richiesta.

Quali sono le conseguenze legali dell’inammissibilità di un ricorso in Cassazione per questo tipo di caso?
L’inammissibilità del ricorso comporta, ai sensi dell’art. 616 del codice di procedura penale, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria (in questo caso, tremila euro) in favore della Cassa delle ammende, a causa della manifesta infondatezza dei motivi presentati.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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