Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 32012 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 32012 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 18/09/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME NOME nato a ROMA il 17/07/1974
avverso la sentenza del 17/02/2025 della Corte d’appello di Roma
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
letta la requisitoria scritta del Procuratore generale, che ha concluso chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso;
letta la memoria depositata dalla difesa del ricorrente, in replica alle conclusioni del Procuratore generale.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza emessa il 17/12/2019 dal Tribunale di Velletri, all’esito di giudizio abbreviato, con la quale NOME COGNOME era stato giudicato responsabile del reato pr evisto dall’art.186, 2, lett.c) e comma 2 -bis, d.lgs. 30 aprile 1992, n.285 e condannato -previa applicazione della diminuente determinata dalla scelta del rito -alla pena di mesi sei di arresto ed € 3.000,00 di ammenda, con applicazione della sanzione accessoria della revoca della patente di guida.
La Corte territoriale ha premesso la ricostruzione del fatto operata sulla base degli atti, rilevando che l’imputato, in data 07/12/2018, alla guida della propria vettura, era andato a collidere contro una colonna di un distributore di
carburante mentre si trovava in stato di ebbrezza (2,39 g/l) poi accertato presso il pronto soccorso di Albano Laziale.
La Corte ha rigettato il motivo inerente alla irregolare formulazione dell’avviso del diritto di farsi assistere da un difensore, rilevando come – dal verbale di accertamenti urgenti – risultasse che l’avviso medesimo era stato ritualmente formulato al momento del controllo effettuato sullo stato dei luoghi; rilevando, altresì, che non sussistesse una necessità di replicare l’avviso al momento dell’effettuazione dell’esame presso il suddetto nosocomio e che, in ogni caso, ogni eventuale nullità doveva intendersi sanata alla luce della richiesta di celebrazione del giudizio secondo le forme del rito abbreviato.
Sulla base delle predette considerazioni ha quindi rigettato il motivo inerente alla richiesta di assoluzione dell’imputato nonché dichiarato infondato quello riguardante la richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche; in ordine alla richiesta del Procuratore generale di dichiarare l’intervenuta prescrizione del reato, ha rilevato che il termine medesimo non poteva intendersi maturato alla luce di una richiesta di rinvio formulata dalla difesa il 15 ottobre 2019 e in ragione della sospensione disposta dalla legge n. 103 del 2017.
Avverso la predetta sentenza ha presentato ricorso per cassazione NOME COGNOME tramite il proprio difensore, articolando sei motivi di impugnazione.
Con il primo motivo di impugnazione ha dedotto -ai sensi dell’art.606, comma 1, lett.b), cod.proc.pen. -l’inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 178 e 114, disp.att., cod.proc.pen..
Ha dedotto che, erroneamente, la Corte avrebbe ritenuto sufficiente l’originaria formulazione dell’avviso del diritto di farsi assistere da un difensore al momento degli accertamenti urgenti e non necessaria la relativa reiterazione al momento dell’esecuzione dell’esame ematico presso l’ospedale, la cui effettuazione era stata richiesta da parte degli operanti.
Con il secondo motivo ha dedotto -ai sensi dell’art.606, comma 1, lett.e), cod.proc.pen. -l’omessa motivazione in relazione alla circostanza aggravante di cui all’art.186, comma 2 -bis, C.d.s..
Ha dedotto che la Corte territoriale non avrebbe adeguatamente motivato in ordine al nesso causale tra lo stato di ebbrezza e il constatato incidente, non approfondendo il punto attinente all’eventuale sussistenza di altri fattori causali.
Con il terzo motivo ha dedotto -in relazione all’art.606, comma 1, lett.e), cod.proc.pen., il vizio di motivazione in punto di omessa concessione delle circostanze attenuanti generiche.
Esponeva che le argomentazioni addotte dalla Corte dovevano ritenersi apodittiche e non pertinenti, non essendo stato adeguatamente valorizzato l’atteggiamento processuale tenuto dall’imputato ed esponendo che i precedenti penali non potessero, di per sé stessi, essere ritenuti ostativi rispetto alla concessione del beneficio.
Con il quarto motivo ha dedotto -ai sensi dell’art.606, comma 1, lett.b), cod.proc.pen. -la violazione e/o falsa applicazione dell’art.159 cod.pen., in punto di computo del termine di sessantatré giorni al fine della sospensione del termine massimo di prescrizione.
Ha esposto che la predetta sospensione non era stata dovuta a una richiesta di rinvio per impedimento ma al solo scopo di consentire alla difesa di munirsi di procura speciale ai fini della richiesta di celebrazione del giudizio secondo le forme del rito abbreviato e che, in ogni caso, il giudice di primo grado non aveva pronunciato espressamente la sospensione dei termini di prescrizione.
Con il quinto motivo ha sollevato una questione di legittimità costituzionale, ai sensi dell’art.129 cod.proc.pen., in punto di calcolo dei termini di prescrizione riferiti ai reati contravvenzionali; su tale aspetto, pure prendendo atto della soluzione raggiunta dalle Sezioni Unite nella sentenza n.20989/2024, ha ritenuto manifestamente irragionevole l’applicazione di un termine di sospensione di diciotto mesi, ai sensi della l. n.103/2017, anche per i reati di natura contravvenzionale, in riferimento agli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione.
Con il sesto motivo ha dedotto -ai sensi dell’art.606, comma 1, lett.b), cod.proc.pen. -la violazione dell’art.545 -bis cod.proc.pen., per violazione del diritto di difesa derivante dalla mancata fissazione di apposita udienza per la eventuale applicazione di sanzioni sostitutive.
Ha dedotto che il giudizio di appello era stato celebrato secondo le forme del rito cartolare e che la Corte aveva, di fatto, omesso la celebrazione del correlativo segmento processuale, impendendo all’imputato di richiedere l’applicazione di una sanzione sostitutiva rispetto alla pena detentiva.
Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta, nella quale ha concluso per la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.
La difesa del ricorrente ha depositato successiva memoria illustrativa, nella quale ha replicate alle argomentazioni del Procuratore generale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
Con il primo motivo di impugnazione, la difesa del ricorrente ha dedotto la violazione delle garanzie difensive dell’imputato in specifico collegamento con il disposto dell’art.114, disp.att., cod.proc.pen. che impone, in ordine agli atti previsti dall’art.356 in correlazione con l’art.354 cod.proc.pen., che la polizia giudiziaria debba avvertire la persona sottoposta a indagini della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia.
Il motivo è manifestamente infondato sotto due distinti ordini di profili.
In primo luogo, sulla base del verbale di accertamenti urgenti -il cui tenore testuale è stato riprodotto dalla Corte territoriale -risulta che la polizia giudiziaria ha avvertito l’imputato, nell’immediatezza degli accertamenti, della facoltà di farsi a ssistere da un difensore di fiducia anteriormente rispetto all’effettuazione degli accertamenti strumentali necessari per la misura del tasso alcolimetrico; non venendo meno l’efficacia del relativo avviso in considerazione della successiva effettuazione delle operazioni presso un istituto ospedaliero, peraltro avvenuto su richiesta dello stesso imputato e in considerazione delle sue condizioni di alterazione tali da rendere impossibile un accertamento immediato mediante macchinario (rilevando, sul punto, che appaiono del tutto non conferenti i precedenti giurisprudenziali richiamati dalla difesa).
In ogni caso, deve rilevarsi che, in tema di guida in stato di ebbrezza, la violazione dell’obbligo di dare avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia al conducente da sottoporre a prelievo ematico presso una struttura sanitaria, finalizzato all’accertamento del tasso alcolemico esclusivamente su richiesta dalla polizia giudiziaria, determina una nullità di ordine generale a regime intermedio che può essere tempestivamente dedotta, a norma del combinato disposto degli artt. 180 e 182, comma 2, cod. proc. pen., fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grado ma che deve ritenersi sanata, ai sensi dell’art. 183 cod. proc. pen., qualora l’imputato formuli -come nel caso di specie – una richiesta di celebrazione del giudizio secondo le forme del rito abbreviato (Sez. 4, n. 40550 del 03/11/2021, COGNOME, Rv. 282062; Sez. 4, n. 24087 del 28/02/2018, COGNOME, Rv. 272959).
Il secondo motivo, attinente alla sussistenza dell’aggravante prevista dall’art.186, comma 2 -bis, C.d.s., è inammissibile ai sensi dell’art.606, comma 3, cod.proc.pen., trattandosi di questione non sottoposta alla Corte territoriale nell’ambito dei moti vi di appello.
Il terzo motivo, attinente alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, è inammissibile in quanto manifestamente infondato.
A tale proposito va ricordato che il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 62bis cod.pen., disposta con il d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato (Sez. 4, n. 32872 del 08/06/2022, COGNOME, Rv. 283489; Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, COGNOME, Rv. 270986); mentre, sul punto, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione (Sez. 2, Sentenza n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549, che ha specificato che al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può risultare all’uopo sufficiente); tutto ciò fermo restando che è illegittima la motivazione della sentenza d’appello che, nel confermare, il giudizio di insussistenza delle circostanze attenuanti generiche, si limiti a condividere il presupposto dell’adeguatezza della pena in concreto inflitta, omettendo ogni apprezzamento sulla sussistenza e rilevanza dei fattori attenuanti specificamente indicati nei motivi d’impugnazione (Sez. 6, n. 20023 del 30/01/2014, Gligora, Rv. 259762; Sez. 6, n. 46514 del 23/10/2009, COGNOME, Rv. 245336).
Nel caso in esame, la Corte territoriale -in piena coerenza con i predetti principi -ha rilevato l’assoluta assenza di elementi idonei a giustificare la concessione del beneficio e, in relazione alle argomentazioni difensive spiegate nella presente sede e a rafforzamento del predetto giudizio, ha pure sottolineato la negativa valutazione del comportamento processuale dell’imputato, il quale ha negato di avere guidato in stato di ebbrezza e giustificato l’incidente con circostanze rimaste del tutto indimostrate; con ulteriore sottolineatura degli elementi negativi desumibili dai numerosi precedenti penali del prevenuto, anche di natura specifica.
Il quarto motivo, inerente all’omesso computo del periodo intercorrente tra il 15/10/2019 e il 17/12/2019 ai fini del calcolo della prescrizione, è manifestamente infondato.
Dovendo, infatti, essere richiamato il principio in base al quale il differimento dell’udienza su richiesta presentata, come nel caso di specie, in limine litis del difensore ai fini di eventuale successiva istanza di rito abbreviato comporta la sospensione della prescrizione (Sez. 3, n. 29613 del 08/07/2010, COGNOME, Rv. 248138); a nulla rilevando, in riferimento alle deduzioni difensive, che il giudice procedente non abbia emesso un provvedimento dichiarativo in tal senso, operando in senso automatico le cause sospensive previste dall’art.159 cod.pen. (a differenza di quanto previsto dall’art.304 cod.proc.pen. in punto di decorrenza dei termini di durata delle misure cautelari personali).
6. Il quinto motivo, con il quale è stata sollevata una questione di legittimità costituzionale -in relazione al testo dell’art.159, comma 2, n.1), cod.pen., nel testo introdotto dalla l. 23 giugno 2017, n.103 e applicabile ratione temporis -è manifestamente infondato.
Va osservato che, in punto di valutazione del diritto vivente applicabile in materia, è recentemente intervenuto l’arresto espresso da Sez.U, n.20989 del 05/06/2025, COGNOME che -nell’aderire all’indirizzo assolutamente maggioritario già espresso da parte delle Sezioni semplici -ha chiarito i termini della questione relativa all’applicabilità del regime previsto dalla suddetta legge n.103/2017 ai reati commessi tra la data della sua entrata in vigore (03/08/2017) sino a quella del 31/12/2019, epoca di entrata in vigore della l.9 gennaio 2019, n.3, questione direttamente rilevante nel caso in esame atteso che il reato è stato commesso alla data del 07/09/2018.
In particolare, la l. n.103 del 2017 aveva modificato il previgente art. 159, comma secondo, cod. pen, e introdotto la sospensione del corso della prescrizione: a) dal termine previsto dall’art. 544 cod. proc. pen. per il deposito della sentenza di condanna di primo grado, sino alla pronuncia della sentenza che definisce il grado successivo e, comunque, per un tempo non superiore a un anno e sei mesi; b) dal termine previsto dall’art. 544 cod. proc. pen. per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di secondo grado, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva, per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi.
L’art. 159, comma secondo, cod. pen., così come introdotto dalla legge su indicata, era stato riformulato dall’art. 1, comma 1, lett. e) n. 1 della legge 9 gennaio 2019 n. 3 (c.d. «legge Bonafede»), che aveva introdotto, a decorrere dal 1 gennaio 2020, la previsione per cui il corso della prescrizione rimane sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado, o dal decreto di condanna, fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o della irrevocabilità del decreto di condanna.
Il citato art. 159, comma secondo, cod. pen., infine, è stato definitivamente abrogato dall’art. 2, comma 1, lett. a) della legge 27 settembre 2021 n. 134, che ha contestualmente introdotto l’art. 161-bis cod. pen., a norma del quale il corso della prescrizione cessa definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado. La stessa legge ha introdotto, solo per i reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020 (ai sensi dell’art. 2 comma 3), all’art. 344-bis cod. proc. pen., l’improcedibilità dell’azione penale in caso di mancata definizione del giudizio di appello e di cassazione entro il termine, rispettivamente, di due anni e di un anno, decorrenti dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto dall’art. 544 cod. proc. pen., eventualmente prorogato ai sensi dell’art. 154 disp. att. cod. proc. pen., termini prorogabili con ordinanza nei casi previsti dall’art. 344-bis, comma 4, cod. proc. pen.
Con riferimento alla diversa disciplina della prescrizione dettata dalla c.d. legge Orlando e dalla c.d. legge COGNOME, come ha precisato Sez. 4, n. 39170 del 2023, COGNOME, non si è verificato il fenomeno della successione delle leggi penali nel tempo, regolamentato dall’art. 2 cod. pen., posto che le leggi che si sono succedute contengono la previsione della loro applicabilità ai reati commessi a decorrere da una certa data.
Con riferimento all’applicabilità dell’istituto dell’improcedibilità (peraltro, di carattere squisitamente processuale), è stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 344-bis cod. proc. pen., introdotto dall’art. 2, comma 2, della legge 27 settembre 2021, n. 134, per contrasto con gli artt. 3, 25 e 111 Cost., nella parte in cui limita ai procedimenti relativi a reati commessi a far data dal primo gennaio 2020 l’improcedibilità delle impugnazioni per superamento del termine di durata massima del giudizio di legittimità.
Si è in tal senso ritenuto, difatti, che la limitazione cronologica dell’applicazione di tale causa di improcedibilità, cui consegue la non punibilità delle condotte, sia frutto di una scelta discrezionale del legislatore, giustificata dalla diversità delle situazioni, coerente con la riforma introdotta dalla legge 9 gennaio 2019, n. 3, in materia di sospensione del termine di prescrizione nei giudizi di impugnazione, egualmente applicabile ai soli reati commessi a decorrere della suddetta data, essendo ragionevole la graduale introduzione dell’istituto per consentire un’adeguata organizzazione degli uffici giudiziari (Sez. 3, n. 1567 del 14/12/2021, dep. 2022, laria, Rv. 282408, richiamata da Sez. 4, n. 39170 del 2023, COGNOME, cit.).
Un fenomeno di successioni di leggi penali nel tempo si è, invece, verificato con riferimento all’abrogazione a opera della c.d. «riforma Cartabia» (art. 2 comma 1 lett. a, d.lgs. n. 150 del 2022) dell’art. 159, comma secondo, cod. pen., così come introdotto dalla c.d. legge Orlando, e alla speculare introduzione dell’art.
161bis cod. pen. che fa cessare il corso della prescrizione definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado.
Difatti, più favorevole deve ritenersi la disciplina della legge Orlando che, comunque, prevedeva, anche dopo la pronuncia della sentenza di primo grado e di grado di appello, il decorrere del termine di prescrizione, sia pure con periodi di sospensione.
Ne consegue (come precisato dalle Sezioni Unite al punto 7.4 del ‘considerato in diritto’) la coesistenza di diversi regimi di prescrizione, applicabili in ragione della data del commesso reato e in particolare, come già chiarito dalla citata Sez. 4, n. 39170 del 2023, COGNOME e che, quindi:
per i reati commessi fino al 2 agosto 2017, si applica la disciplina della prescrizione dettata dagli artt. 157 e ss. cod. pen., così come riformulati dalla legge 5 dicembre 2005 n. 251 (c.d. legge ex Cirielli);
per i reati commessi a far data dal 3 agosto 2017 e fino al 31 dicembre 2019, si applica la disciplina della prescrizione come prevista dalla legge 23 giugno 2017 n. 103 (c.d. legge Orlando), con i periodi di sospensione previsti dall’art. 159, comma secondo, cod. pen. nel testo introdotto da detta legge;
per i reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020, si applica in primo grado la disciplina della prescrizione come dettata dagli artt. 157 e ss. cod. proc. pen, senza conteggiare la sospensione della prescrizione di cui all’art. 159, comma 2, cod. pen., essendo stata tale norma abrogata dall’art. 2, comma 1, lett. a) della legge 27 settembre 2021 n. 1 e sostituita con l’art. 161-bis cod.pen. (c.d Riforma Cartabia), e nei gradi successivi la disciplina della improcedibilità, introdotta appunto da tale legge.
In ragione di tali considerazioni, deve quindi rilevarsi come il reato contestato all’imputato sia stato commesso nell’epoca della vigenza della legge numero 103 del 2017 e che, pertanto, in considerazione del momento di consumazione (07/09/2018) il relativo termine di prescrizione non possa intendersi decorso al momento della pronuncia della sentenza di appello, emessa il 17 febbraio 2025, anche in considerazione del predetto termine di sospensione di giorni 63.
Quanto alla questione di illegittimità costituzionale sollevata dalla difesa del ricorrente la stessa deve ritenersi manifestamente infondata, atteso che deve intendersi frutto di non sindacabile discrezionalità legislativa l’applicazione dei termini di sospensione previsti dalla l. n.103/2017, in misura uguale per i delitti e per le contravvenzioni, pure in presenza di un termine di prescrizione ordinario differenziato dal legislatore nell’art.157, comma 1, cod.pen..
Il sesto motivo, attinente alla dedotta violazione dell’art.545 -bis cod.proc.pen., è manifestamente infondato.
Sotto tale profilo, va difatti rilevato che al giudizio di appello -incardinato, nel caso di specie, nel 2020 -si applicava la disciplina transitoria dettata dall’art.95 del d.lgs. 10 ottobre 2022, n.150 -in relazione alla quale questa Corte ha ritenuto che l’applicabilità delle pene sostitutive brevi di cui all’art. 20bis cod. pen., secondo la disciplina transitoria medesima, è subordinata alla richiesta dell’imputato, da formularsi, al più tardi, nel corso della udienza di discussione; avendo, nella parte motiva, la Corte precisato che il giudice di appello non ha alcun dovere di rendere edotto l’imputato circa la facoltà di richiedere l’applicazione delle sanzioni sostitutive, né, in assenza di esplicita richiesta in tal senso, di motivarne la mancata applicazione (Sez. 4, n. 636 del 29/11/2023, dep. 2024, De COGNOME, Rv. 285630).
Dovendosi osservare che, anche per i giudizi introdotti successivamente, in tema di sanzioni sostitutive di pene detentive brevi, è onere dell’imputato, nel giudizio di appello celebrato con rito cartolare, richiedere il subprocedimento di conversione della pena detentiva previsto dall’art. 545-bis cod. proc. pen. nell’atto di appello o nei motivi nuovi o aggiunti, ovvero in sede di formulazione delle conclusioni scritte o nella memoria di replica (Sez. 2, n. 4772 del 05/10/2023, dep. 2024, A., Rv. 285996 -02); non rientrando la conversione della pena detentiva nel novero dei benefici e delle diminuenti tassativamente indicati dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., che costituisce disposizione derogatoria, di natura eccezionale, al principio devolutivo dell’appello (Sez. 2, n. 1188 del 22/11/2024, dep. 2025, Lo Porto Rv. 287460, pronuncia nella cui parte motiva, la Corte ha altresì affermato che è onere dell’appellante supportare la richiesta di sostituzione delle pene detentive brevi con specifiche deduzioni e che il mancato assolvimento di tale onere comporta l’inammissibilità originaria della richiesta).
Ne consegue che, nel caso di specie, il giudice d’appello non aveva alcun onere di esaminare la sussistenza delle condizioni di applicabilità delle sanzioni sostitutive non essendo il relativo profilo stato sollevato in sede di motivi di impugnazione e non essendo stata formulata alcuna richiesta in tal senso in sede di conclusioni scritte.
Alla declaratoria d’inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali; ed inoltre, alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», il ricorrente
va condannato al pagamento di una somma che si stima equo determinare in euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Così è deciso, 18/09/2025
Il Consigliere estensore NOME COGNOME
Il Presidente NOME COGNOME