Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 34561 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 34561 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 07/10/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a GELA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 26/03/2025 della CORTE APPELLO di CALTANISSETTA
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
Motivi della decisione
AVV_NOTAIO NOME COGNOME, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso avverso la sentenza in epigrafe deducendo tre motivi di ricorso.
Con il primo motivo lamenta violazione di legge e/o vizio motivazionale in relazione al rigetto della doglianza relativa alla correlazione tra fatto contestato fatto giudicato, ribadendo come la contestazione in fatto sia divergente dall’indicazione del momento in cui la condotta di reato si sarebbe perfezionata; se nello specifico il reato di cui trattasi si perfeziona con il deposito presso la canceller dell’istanza compilata e sottoscritta dal richiedente sarebbe evidente che tale momento consumativo non poteva che essere indicato nella data dell’1/7/2020 come riportato nella descrizione della condotta contestata e non anche nel 17/12/2021, momento certamente diverso che non può non indurre confusione e minare la certezza della contestazione stessa.
Con il secondo motivo si denuncia violazione di legge e vizio motivazionale per la mancata valutazione dell’elemento soggettivo dei reati contestati.
Mai contestata la discrasia tra i redditi dichiarati dal AVV_NOTAIO nelle due istanze rispetto a quelli effettivamente percepiti dal coniuge che avrebbero dovuto essere indicati, il vizio della sentenza e dell’intero giudizio di responsabilità, si evincereb dalla motivazione, che non supererebbe gli evidenti limiti anche sul piano logico, e consisterebbe per il ricorrente nella convinzione che, come espresso a pagina 9, «….l’imputato non poteva certo ignorare, in fatto, che il proprio nucleo familiare avesse fruito, nell’anno di imposta 2020, di redditi per complessivi curo 19.237,97, provento dell’attività lavorativa e del reddito di cittadinanza percepito dalla moglie
Ci si duole che in sentenza, nello specifico, non si spieghi mai perché il AVV_NOTAIO non potesse ignorare tale dato, finendo per addebitarsi la responsabilità della condotta a titolo di dolo sull’errato principio del “non poteva non sapere”, deduzione tanto illogica quanto foriera di evidente violazione del principio di non colpevolezza, al di là del ragionevole dubbio.
L’inquadramento della condotta del AVV_NOTAIO nel delitto contestato, che ha per presupposto la sussistenza del dolo, integrerebbe un vizio motivazionale, per la evidente carenza sul piano argomentativo e persino logico per la palese contraddittorietà con elementi oggettivi certi e pure acquisiti al giudizio. Tra questi, stato di detenzione del AVV_NOTAIO, ristretto da almeno tre anni allorquando aveva compilato e depositato le istanze corpo del reato, circostanza che non ha po non condizionarne la condotta.
Anche l’argomentazione per cui si ritiene che l’istanza sia stata redatta dopo la compiuta spiegazione ed i chiarimenti che anche il difensore aveva di certo potuto fornire, non supererebbe il fondato ragionamento per cui, malgrado quelle spiegazioni e chiarimenti, il dichiarante ha errato nella compilazione della domanda per mera negligenza che integra errore di fatto e non di diritto.
La sentenza – ci si duole – non spiega mai perché la difformità dei dati reddituali inseriti sia da ritenere come ignoranza degli elementi di diritto e non come effettiva e scusabile leggerezza e negligenza circa la compilazione da parte di un soggetto, detenuto da tre anni, che ebbe a compilare la domanda sulla base di dati forniti da terzi e che, peraltro, non aveva neppure le competenze specifiche per comprendere effettivamente quali dati avrebbe dovuto inserire.
Per concludere, infine, la buona fede del dichiarante, sintomatica dell’assenza di dolo e della commissione del fatto a mero titolo di colpa, si evincerebbe dal fatto oggettivo che lo stesso aveva allegato alla istanza ed alla autocertificazione sottoscritta l’attestazione ISEE che conteneva dati oggetti tale da permettere al giudice destinatario della istanza e dell’intera pratica di verificare immediatamente la corrispondenza tra quanto dichiarato e quanto oggettivamente emergeva proprio dalla attestazione.
Con il terzo motivo si lamentano violazione di legge ed illogicità della motivazione della sentenza impugnata per la mancata qualificazione del fatto di particolare tenuità.
La Corte territoriale – si sottolinea in ricorso – respinge la richiesta di quali cazione del fatto come di speciale tenuità, così da potersi giungere alla pronuncia ex art 131 bis cod. pen., ritenendo la condotta afflitta da modalità tali da ingannare, specificando che proprio la allegazione a supporto della dutocertificazione della attestazione NUMERO_DOCUMENTO avrebbe palesato tale potenzialità e finalità ingannatoria.
Il ragionamento sarebbe per il ricorrente errato e logicamente viziato perché proprio l’allegazione della Attestazione ISEE, un documento oggettivo contenente dati che avrebbero e di fatto hanno consentito la verifica di quanto riportato nelle istanze, dimostrerebbe, da un lato, l’estrema buona fede del dichiarante e dall’altro proprio l’inoffensività della condotta ed anzi l’assenza di alcuna potenzialità ingannatoria, proprio per la possibilità del giudice di verificare immediatamente la rispondenza dei dati indicati!
Chiede, pertanto, annullarsi la sentenza impugnata.
I motivi sopra richiamati sono manifestamente infondati, in quanto assolutamente privi di specific:ità in tutte le loro articolazioni e del tutto assertivi.
Gli stessi, in particolare, non sono consentiti dalla legge in sede di legittimità perché sono riproduttivi di profili di censura già adeguatamente vagliati e disattesi
con corretti argomenti giuridici dal giudice di merito e non sono scanditi da necessaria critica analisi delle argomentazioni poste a base della decisione impugnata.
Il secondo e il terzo motivo, inoltre, sono manifestamente inondati, in quanto si deducono difetto o contraddittorietà e/o palese illogicità della motivazione, che la lettura del provvedimento impugnato dimostra, invece, essere esistente e connotata da lineare e coerente logicità, conforme all’esauriente disamina dei dati probatori;
Ne deriva che il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.
Il ricorrente, in concreto, non si confronta adeguatamente con la motivazione della corte di appello, che appare logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto -e pertanto immune da vizi di legittimità.
2.1. Quanto al motivo processuale, logicamente la Corte territoriale ha ritenuto destituito di fondamento in fatto il primo rilievo che attiene alla indicazion della data del commesso reato di cui al capo 2, erroneamente indicata, ad avviso della difesa, nel “17/12/2021”, a fronte di un’istanza presentata in data “1/7/2021”. In realtà, si spiega in sentenza che, com’ è dato rilevare dalle copie delle istanze in atti, mentre l’istanza proposta nel procedimento n. 645/2018 RGNR (capo I dell’imputazione) è stata presentata in data 11712021, l’istanza proposta nel proc. n. NUMERO_DOCUMENTO (capo 2) è stata presentata presso la Cancelleria del Tribunale di Gela in data 17/12/2021. La data del commesso reato anche in quest’ultimo capo di imputazione risulta pertanto correttamente indicata, ravvisandosi piuttosto un mero refuso all’interno di quest’ultimo capo di imputazione laddove viene indicata quale data di presentazione dell’istanza 11/7/2021.
Corretto appare anche il richiamo alla consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui, in ogni caso, non costituisce motivo di nullità del decreto di citazione a giudizio l’erronea indicazione della data del commesso reato, trattandosi di mera irregolarità che non impedisce all’imputato di formulare in modo compiuto ed efficace le proprie difese nel rispetto del contraddittorio. (Sez. 1, n. 17888/2004 in una fattispecie in cui l’errore consisteva nell’indicazione del giorno errato, 19 giugno anziché 18 giugno; Sez. 1, n. 38703 /2013, fattispecie in cui la data di commissione del reato indicata nel 21 aprile invece del 22 marzo, che non aveva, però, impedito all’imputato di difendersi nel merito delle accuse; Sez. 5 , n. 1060/2021).
Nel caso in esame – come si rileva in sentenza- le due istanze di ammissione al gratuito patrocinio sono entrambe presenti agli atti del procedimento e le stesse recano il timbro di pervenuto in Cancelleria con indicazione della data di avvenuta presentazione e pertanto nessuna limitazione o impedimento allo svolgimento delle proprie difese ne è comunque conseguito per l’imputato dal refuso contenuto all’interno del capo di imputazione sub 2, che recava comunque in calce una corretta indicazione della data del commesso reato.
2.2. Manifestamente infondato è anche il motivo afferente alla responsabilità, che non si confronta con la motivazione del provvedimento impugnato ove si dà atto che nelle due istanze di ammissione al gratuito patrocinio, presentate nei distinti procedimenti, ma di contenuto sovrapponibile, l’imputato, dopo avere dichiarato la composizione del proprio nucleo familiare (indicando, oltre a se stesso, la moglie COGNOME NOME ed i figli NOME e NOME), attestava di non svolgere alcuna attività lavorativa e non percepire redditi da oltre tre anni, essendo detenuto da aprile 2018 e che la propria famiglia viveva grazie al lavoro dipendente svolto dalla moglie che nell’anno 2020 aveva percepito la somrra complessiva di C 6.073,00. Attestazione questa che, in esito agli accertamenti disposti dal primo giudice, è risultata non rispondente al vero, atteso che il reddito complessivo del nucleo familiare, per l’anno di imposta 2020, era invece pari ad C 19.237,97, superiore alla soglia prevista dalla legge per l’ammissione al beneficio richiesto.
Corretto è il rilievo che ai fini dell’ammissione al beneficio del gratuito patro cinio non può farsi riferimento alle indicazioni reddituali risultanti dall’attestazio ISEE.
Questa Corte (cfr. ex multis Sez. 4 n. 46159/2021) ha infatti, in più occasioni, chiarito che, in tema di gratuito patrocinio, ai fini della determinazione del limit di reddito per l’ammissione al beneficio, deve tenersi conto anche dei redditi esenti o soggetti a tassazione separata, ovvero percepiti “in nero” o derivanti da attività illecite, senza che assuma rilievo la situazione reddituale calcolata secondo il metodo ISEE.
Con motivazione logica e congrua la Corte nissena rileva, inoltre, che sotto altro profilo, il fatto che l’imputato abbia fatto affidamento sull’attendibilità d risultanze esposte nell’attestazione ISEE non può apprezzarsi per escludere la ricorrenza in capo al medesimo del dolo richiesto per la configurabilità del reato.
Operata un’ampia e pertinente rassegna della giurisprudenza di questa Corte riguardante l’elemento soggettivo del reato in contestazione, la Corte siciliana ricorda il recente dictum di Sez. 4 n. 42619/2024, che ha disatteso il ricorso della difesa proprio con riguardo ad una fattispecie in cui l’imputato, detenuto all’epoca del fatto, aveva dedotto il reddito del nucleo familiare dalla certificazione ISEE, ribadendo che l’errore sulla nozione di reddito valevole ai fini dell’applicazione della disciplina del patrocinio a spese dello Stato è errore inescusabile perché l’art. 76 d.P.R. n. 115/2022, che disciplina la materia, è espressamente richiamato dalla norma incriminatrice di cui all’art. 5 del medesimo decreto e, pertanto, non costituisce una legge extra -penale e che ai fini dell’affermazione della penale responsabilità per il reato di cui all’art. 95 d.P.R. n. 11512002, è sufficiente che le fa indicazioni o le omissioni anche parziali dei dati di fatto riportati nella dichiarazio
sostitutiva di certificazione siano sorrette da dolo generico, che può manifestarsi anche nelle forme del dolo eventuale (Sez. 4, n. 37144 del 05/06/2019; Sez. 4, n. 7192 del 11/01/2018).
Conforme a logica appare il rilievo che, nel caso in esame, l’imputato non poteva certo ignorare, in fatto, che il proprio nucleo familiare avesse fruito, nell’anno di imposta 2020, di redditi per complessivi euro di 19.237,97, provento dell’attività lavorativa e del reddito di cittadinanza percepito dalla moglie.
L’omessa indicazione dei redditi effettivamente percepiti dalla moglie in seno all’istanza di ammissione al beneficio, se anche dovuta, come si afferma dalla difesa, ad errore indotto da quanto riportato nell’attestazione ISEE, non sarebbe scusabile. L’errore ricadrebbe infatti sul disposto di cui all’art. 76 ric dall’art. 79 del DPR n. 115/02, norma integrativa del precetto penale di cui all’art. 95 del medesimo DPR, e come tale risulterebbe inidoneo ad escludere il dolo, trattandosi non già di errore sul fatto, ma di errore di diritto, inescusabile in applica zione del noto principio ignorantia legis non excusat.
Peraltro, si sottolinea in sentenza che l’attestazione ISEE a:iegata all’istanza reca quale “somma dei redditi dei componenti del nucleo “l’indicazione di euro “+ 14.942,00” di talchè l’imputato non poteva, a fronte di tale dato, esporre, nell’istanza di ammissione al gratuito patrocinio, quale reddito complessivo del proprio nucleo familiare quello diverso di 6.073,98 euro che, come si è evidenziato è un mero indicatore della situazione economica equivalente.
Peraltro, nel medesimo anno di imposta (2020) ia coniuge dell’istante risultava avere presentato dichiarazione dei redditi, esponendo un reddito di 8.709,00 euro, e pertanto anche sotto questo profilo logica appare la conclusione che può senz’altro ritenersi sussistente in capo all’imputato l’elemento soggettivo necessario per la integrazione del reato, avendo il medesimo indicato un reddito comunque diverso da quello esposto dalla coniuge in un documento fiscale ufficiale.
Ciò essendo sufficiente, seppur non può ritenersi illogica l’ulteriore considerazione della Corte nissena che, essendo entrambe le istanze redatte su carta intestata del proprio difensore di fiducia e recando una sottoscrizione dell’imputato autenticata dal difensore, può sicuramente presumersi che l’istanza sia stata redatta materialmente da persona esperta, verosimilmente dal difensore medesimo, il quale non ha mancato di rappresentare chiaramente all’istante, in fase di stesura del documento, le condizioni necessarie per l’ammissione al beneficio, ivi compreso il contenuto dei l’autocertificazione in merito alle condizioni reddituali, l’inidoneit delle risultanze dell’attestazione ISEE e le conseguenze penali di una eventuale falsa attestazione.
In ragione di tutto ciò, perente appare la conclusione che può senz’altro ritenersi che l’imputato avesse, nel momento in cui ha sottoscritto l’attestazione,
omettendo di indicare tutti i redditi effettivamente percepiti, nel periodo di rifer mento, da tutti i componenti il suo nucleo familiare, piena consapevolezza, non soltanto della falsità della dichiarazione rilasciata, ma anche delle conseguenze alle quali sarebbe andato incontro.
2.3. Infine, anche il profilo di doglianza relativo alla mancata applicazione della causa di non punibilità ex art. 131bis cod. pen. è manifestamente infondato in quanto la Corte territoriale rispondendo alla specifica richiesta sul punto ha argomentatamente e logicamente motivato il diniego dell’invocata causa di non punibilità con il fatto di avere allegato, a supporto della propria autocertificazione l’attestazione ISEE, è elemento che attribuisce maggiore idoneità ingannatoria alla condotta di falso; anche il rilevante ammontare dei redditi percepiti e non dic rati è circostanza che non consente di attribuire alla condotta connotazioni di particolare tenuità.
Dovendosi anche tenere conto che in presenza di condotte plurime, avendo l’imputato reso false attestazioni nelle due diverse istanze di ammissione al beneficio presentate a breve distanza di tempo in due distinti procedimenti, di talché, anche sotto questo profilo, non si ravvisano, ad avviso della Corte nissena le condizioni per il riconoscimento della invocata causa di non punibilità.
La sentenza, dunque, si colloca nell’alveo del dictum delle Sezioni Unite di questa Corte secondo cui il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, co. 1, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo (Sez. Un. n. 13681 del 25/2/2016, Tushaj, Rv. 266590).
S.U. COGNOME ricordano che «la nuova normativa non si interessa della condotta tipica, bensì ha riguardo alle forme di estrinsecazione del comportamento, al fine di valutarne complessivamente la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e conseguentemente il bisogno di pena. Insomma, si è qui entro la distinzione tra fatto legale, tipico, e fatto storico, situazione reale ed irripetibile costituita da gli elementi di fatto concretamente realizzati dall’agente».
Va peraltro ricordato che, ai fini dell’applicabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis cod. pen., giudizio sulla tenuità dell’offesa dev’essere effettuato con riferimento ai criteri d cui all’art. 133, comma primo, cod. pen., ma non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente l’indicazione di quelli rite nuti rilevanti (così Sez. 7, Ordinanza n. 10481 del 19/01/2072, Deplano, Rv. 283044 – 01 che ha ritenuto corretta la mancata applicazione della causa di esclusione della punibilità in conseguenza di lesioni stradali provocate dalla guida di un veicolo sprovvisto di assicurazione; conf. Sez. 6, n. 55107 del 08/11/2018, COGNOME,
Rv. 274647 – 01 che, in motivazione, ha ritenuto corretta la mancata applicazione di tale causa di esclusione della punibilità in conseguenza della fuga dell’imputato subito dopo il fatto, senza che ciò si ponga in contrasto con la concessione delle attenuanti generiche, giustificata dalla successiva condotta processuale del detto).
Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e delia somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 07/10/2025