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Giustificato motivo: quando la povertà assolve?

La Cassazione annulla l’assoluzione di un cittadino straniero per inosservanza dell’ordine di espulsione. Il Giudice di pace aveva invocato il giustificato motivo della povertà. La Suprema Corte chiarisce che il mero disagio economico non basta, serve una prova di ‘assoluta impossidenza’ e la dimostrazione di aver cercato aiuto consolare. Il caso torna al giudice per un nuovo esame.

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Pubblicato il 7 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Giustificato Motivo e Ordine di Espulsione: la Povertà da Sola Non Basta

La Corte di Cassazione, con una recente sentenza, è tornata a pronunciarsi su un tema delicato e di grande attualità: la configurabilità del reato di inosservanza dell’ordine di espulsione. In particolare, la Corte ha chiarito i confini del cosiddetto giustificato motivo, specificando che la semplice condizione di difficoltà economica non è sufficiente a escludere la responsabilità penale dello straniero. Questa pronuncia offre importanti spunti di riflessione sull’onere della prova e sulla corretta valutazione delle circostanze che possono impedire l’ottemperanza a un provvedimento di allontanamento.

I Fatti del Caso

Un cittadino di origine georgiana veniva assolto in primo grado dal Giudice di pace di Cassino dal reato di inosservanza dell’ordine di espulsione emesso dal Questore. La motivazione del giudice si basava su due pilastri: in primo luogo, un vizio formale legato alla traduzione del decreto di espulsione in una lingua (l’inglese) che l’imputato asseriva di non conoscere; in secondo luogo, la sussistenza di un giustificato motivo legato alla sua condizione di indigenza. L’uomo, infatti, risultava privo di mezzi economici e senza una residenza stabile, elementi che, secondo il giudice, rendevano impossibile ottemperare all’ordine di lasciare il territorio nazionale.

Il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma proponeva ricorso per Cassazione, contestando l’illogicità della motivazione, soprattutto in relazione alla valutazione della condizione economica come causa di giustificazione.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha accolto il ricorso, annullando la sentenza di assoluzione e rinviando il caso a un nuovo giudizio presso il Giudice di pace di Cassino. Gli Ermellini hanno ritenuto la motivazione della sentenza impugnata carente e basata su una non corretta applicazione dei principi giuridici in materia.

La questione della traduzione degli atti

Prima di entrare nel merito del giustificato motivo economico, la Corte ha liquidato come infondata la questione sulla presunta illegittimità del decreto per difetto di traduzione. Dai verbali risultava infatti che lo straniero avesse dichiarato di comprendere la lingua italiana, avesse nominato un difensore di fiducia e avesse eletto domicilio. Inoltre, la legge prevede che, qualora non sia possibile la traduzione in una lingua conosciuta, si possa ricorrere a lingue veicolari come l’inglese, il francese o lo spagnolo. Non essendoci stata una concreta deduzione difensiva sull’incomprensibilità degli atti, questo motivo è stato giudicato irrilevante.

Le Motivazioni: la distinzione tra disagio economico e assoluta impossidenza

Il cuore della sentenza risiede nella disamina del giustificato motivo legato alla povertà. La Corte di Cassazione ha ribadito un principio consolidato: il mero disagio socio-economico, condizione purtroppo tipica di molti migranti irregolari, non è di per sé sufficiente a escludere la colpevolezza.

Perché si possa parlare di un valido giustificato motivo, è necessario che l’imputato si trovi in una condizione di assoluta impossidenza. Non basta essere poveri; occorre dimostrare che questa povertà si traduce in un’impossibilità oggettiva e insuperabile di adempiere all’ordine, per esempio acquistando un biglietto per il viaggio di ritorno.

Inoltre, la Corte ha sottolineato che grava sullo straniero un onere di allegazione. Non è sufficiente rimanere assenti al processo o dichiararsi genericamente ‘povero’. L’interessato deve fornire al giudice elementi concreti che dimostrino la sua condizione di indigenza assoluta. Deve inoltre provare di essersi attivato per superare l’ostacolo, ad esempio rivolgendosi alla propria autorità diplomatica o consolare per ottenere i documenti e l’assistenza necessari al rimpatrio, come previsto dalla normativa.

Nel caso di specie, il Giudice di pace si era limitato a un generico riferimento alla mancanza di mezzi economici, senza approfondire se si trattasse di un mero disagio o di una vera e propria impossibilità assoluta e senza verificare se l’imputato avesse compiuto qualche passo per cercare una soluzione.

Le Conclusioni

La sentenza in esame rafforza un importante principio di diritto: la povertà, da sola, non assolve dal reato di inosservanza dell’ordine di espulsione. Per integrare un giustificato motivo, la condizione di indigenza deve essere tale da configurare un’impossibilità oggettiva di adempiere, e spetta all’imputato fornire la prova di tale stato e del proprio comportamento collaborativo. Questa decisione impone ai giudici di merito una valutazione più rigorosa e approfondita delle circostanze specifiche del caso, evitando automatismi e motivazioni generiche che potrebbero vanificare l’effettività dei provvedimenti di espulsione.

La semplice povertà è sufficiente per giustificare la mancata ottemperanza a un ordine di espulsione?
No. La Cassazione chiarisce che il mero disagio socio-economico, condizione comune a molti migranti, non costituisce di per sé un giustificato motivo. È necessaria la prova di una ‘assoluta impossidenza’ che renda oggettivamente impossibile il viaggio.

A chi spetta dimostrare l’impossibilità di lasciare il Paese per motivi economici?
Spetta all’interessato, cioè allo straniero destinatario dell’ordine di espulsione. Egli ha l”onere di allegazione’, ovvero deve fornire al giudice elementi concreti sulla sua condizione di indigenza assoluta e dimostrare di aver tentato di chiedere aiuto, ad esempio, alle proprie autorità consolari.

Un errore nella traduzione del decreto di espulsione rende sempre illegittimo l’ordine?
Non necessariamente. La Corte ha ritenuto infondato questo motivo, dato che l’imputato aveva dichiarato di comprendere l’italiano e la legge prevede comunque la traduzione in lingue veicolari come l’inglese. L’illegittimità si configura solo se l’errore di traduzione impedisce concretamente al destinatario di comprendere il contenuto e la portata precettiva dell’atto.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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